"Bombardiamo l'Afghanistan (di cibo)"



Per vincere Bin Laden bombardiamo l'Afghanistan di cibo

di Giuseppe Frangi (g.frangi at vita.it)

28/09/2001

Anticipiamo l'editoriale di Giuseppe Frangi sul numero di Vita magazine in edicola da oggi. E il sommario

Siamo tutti americani, abbiamo scritto settimana scorsa, affidando la motivazione alla penna di Fabrizio Tonello. Un uguale sentimento di condivisione e di pietà questa settimana ci porta a scrivere che siamo anche tutti afghani. Come si può essere indifferenti al destino di un popolo da decenni stritolato nel gioco delle superpotenze e ora finito nella micidiale stretta del fondamentalismo islamico? Come si possono accogliere supinamente le ragioni di chi in nome della sicurezza legittima il ricorso anche agli strumenti più estremi (vedi l'accenno del ministro della Difesa Usa, Donald Rumsfeld, al possibile ricorso all'arma nucleare) ? Ma l'impeto di condivisione che ci aveva straziato davanti alle impressionanti immagini delle Twin Towers, come l'impeto che oggi ci tiene in apprensione davanti a quelle sagome disperate, che vagano cercando una salvezza nell'Afghanistan blindato, questo impeto ha anche molte ragioni su cui sorreggersi. La prima ragione è che è troppo facile e semplicistico dividere il mondo in due, come fa il fondamentalismo islamico e come fa purtroppo anche tanta propaganda americana. I confini tra amici e nemici sono spesso complicati e poco lineari. Prendiamo Bin Laden: di chi sarebbe amico, degli afghani o di quei finanzieri Usa che l'avrebbero accompagnato nelle scorribande borsistiche al ribasso nei giorni precedenti al disastro? La risposta è elementare: Bin Laden non può essere amico di un popolo che ha contribuito a ridurre in uno stato di impressionante illibertà e povertà (l'attesa di vita oggi a Kabul è tra i più bassi al mondo: non raggiunge i 47 anni). Può essere considerato ragionevolmente amico di quei finanzieri che ha contribuito ad arricchire. È un piccolo esempio, ma efficace, per capire come il black out della ragione in questo post 11 settembre può solo produrre altri immensi disastri. Il black out della ragione impedisce ad esempio di guardare al viaggio del Papa in Kazakistan nel suo vero significato (ne scrive Lucio Brunelli in questo numero): che non sta nelle parole doverose che Wojtyla ha pronunciato e che ognuno si è affrettato a interpretare secondo i propri comodi. Il significato di quel viaggio sta nel fatto di aver voluto, contro il parere di tutti, compresi tanti del suo entourage, visitare quel paese a maggioranza musulmana, situato in quell'area del mondo che tra breve potrebbe essere investita da un cataclisma bellico. Il Papa ha mostrato al mondo la realtà di un Islam non solo tollerante (che ha lasciato crescere senza problemi una piccola minoranza cattolica), ma anche non violento, che ha rinunciato, di sua iniziativa, al nucleare. Si toglie più terreno al fondamentalismo con gesti come questo del Papa, che non dipingendo i fedeli di Maometto come truppe di Satana. Ed è una logica che, per fortuna, inizia a farsi largo anche in tanti osservatori liberal occidentali. Per esempio, il 25 settembre un editoriale del Financial Times, la bibbia della City finanziaria londinese, si chiedeva se non sarebbe più efficace combattere i talebani, prima che con i cannoni, con una strategia umanitaria. Il quotidiano inglese scrive che "uno sforzo per evitare uno sterminio per fame, in un paese disperatamente povero anche a causa dei Talebani, potrebbe innalzare molto le quotazioni degli Stati Uniti in Medio Oriente e nell'Asia Centrale". Al contrario, una vittoria militare "potrebbe alla fine rivelarsi insufficiente". Non è utopia. È sapere e volere usare la ragione come vera arma per reagire ai fatti di portata epocale quali sono quelli accaduti l'11 settembre a Manhattan. In caso contrario vorrà dire che Osama Bin Laden ha davvero vinto, e che il mondo si è trasformato in un tragico e sanguinario teatrino tra due fondamentalismi, opposti ma per tanti versi contigui (il colabrodo a cui è stata ridotta la più potente agenzia di intelligence del mondo, ne è la dimostrazione). Perché ogni fanatismo è una museruola all'operatività umana e alla capacità dell'uomo di affrontare e risolvere razionalmente anche le più terribili delle situazioni.