[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La nonviolenza e' in cammino. 225
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 225
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 12 Sep 2001 03:07:31 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 225 dell'11 settembre 2001 Sommario di questo numero: 1. Per una cultura antimafia: l'esempio di Giuseppe Puglisi (con testi di Umberto Santino, Saverio Lodato, Luigi Ciotti) 2. Massimo Bricocoli, Marianella Sclavi: sicurezza urbana, gestione dei conflitti ed esperienze di formazione della Polizia Municipale (parte seconda) 3. Marina Forti intervista Joseph Ki-Zerbo 4. Ida Dalia, come la vita 5. Imma von Bodmershof, il vecchio melo 6. Hildegard Maria Binder, i diciannovenni 7. Per studiare la globalizzazione: da Gino Piccio a Harold Pinter 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. PER UNA CULTURA ANTIMAFIA: L'ESEMPIO DI GIUSEPPE PUGLISI (CON TESTI DI UMBERTO SANTINO, SAVERIO LODATO, LUIGI CIOTTI) [Riproponiamo qui una scheda che redigemmo e diffondemmo lo scorso anno. Giuseppe Puglisi, sacerdote cattolico, dal 1990 fu alla guida della parrocchia di san Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo, un quartiere dominato dal potere mafioso. Dal 1990 al 1993 un impegno sereno e inflessibile per i diritti e la dignita', per aiutare chi ha bisogno e promuovere la civile convivenza. La sera del 15 settembre 1993, mentre rincasava, con un colpo di pistola alla tempia un killer mafioso lo uccide. Opere su Giuseppe Puglisi: F. Anfossi, Puglisi. Un piccolo prete tra i grandi boss, Edizioni Paoline, Milano 1994; F. Deliziosi, «3 P». Padre Pino Puglisi. La vita e la pastorale del prete ucciso dalla mafia, Edizioni Paoline, Milano 1994; Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia. Inchiesta sulle chiese di frontiera, Rizzoli, Milano 1994. Segnaliamo anche i contributi (molto interessanti) pubblicati in "Una citta' per l'uomo", nel fascicolo 4/5 dell'ottobre 1994 e nel fascicolo 1/2 dell'aprile 1995] Tra l'8 e il 10 maggio 1993 il papa visita la Sicilia occidentale: ad Agrigento, dinanzi a centomila fedeli, tiene un forte discorso contro la mafia. Vi era già stato undici anni prima, nel novembre 1982, dopo le uccisioni di Pio La Torre in aprile e di Carlo Alberto dalla Chiesa in settembre; dopo l' omelia "di Sagunto" del cardinal Pappalardo che divenne quasi una bandiera e un grido di battaglia: ma allora nei discorsi effettivamente pronunciati da Giovanni Paolo II la parola "mafia" non comparve mai; i brani del testo diffuso alla stampa in cui si faceva riferimento alla mafia non vennero letti, ufficialmente per motivi di tempo. Ma il 9 maggio 1993, sotto il tempio della Concordia nella Valle dei templi di Agrigento, la voce di Wojtyla risuonò alta e forte: "Dio ha detto: non uccidere! L'uomo, qualsiasi agglomerazione umana o la mafia, non può calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Per amore di Dio. Mafiosi convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte". Don Pino Puglisi, parroco nel quartiere Brancaccio, che giorno per giorno contendeva alla mafia quel lembo di terra, quel pezzo di società, le anime (sia consentito a noi laici usare tal termine per intendere: la dignità e i diritti) e le vite della gente, della sua gente, sì, don Pino Puglisi si sarà sentito confortato ed orgoglioso per le parole del papa. La mafia, invece, non ama le parole, soprattutto non ama quella parola che la designa e l'accusa. Anche la Chiesa, avrà ruminato qualcuno, non era più quella di una volta. Quella di una volta era quella dell'eminenza reverendissima il cardinal Ruffini e della sua lettera pastorale del 1964 dal titolo Il vero volto della Sicilia. Ma c'era, c'era sempre stata, anche un'altra chiesa: anzi, altre chiese, che per affermare i valori attestati dalla loro religione contro la mafia si erano battute ed avrebbero continuato a farlo, a costo del martirio. E questa altra tradizione ora emergeva e trovava ad un tempo ascolto e voce nelle parole del pontefice cattolico. (E sia detto qui solo per inciso, non essendo questo il luogo per sviluppare un così impegnativo tema: nella chiesa cattolica avrebbero naturalmente continuato a scontrarsi culture diverse e posizioni fin opposte: il costante sostegno vaticano ad Andreotti, ad esempio, pare a noi confliggere flagrantemente con la testimonianza dei cristiani impegnati contro la mafia). * Don Pino Puglisi era parroco di san Gaetano, a Brancaccio, dal 1990. Ed aveva fatto la sua scelta. L'aveva fatta con naturalezza, per coerenza, per convinzione, perché era un prete, ed era naturale che un prete facesse certe cose e non altre: che cercasse di alleviare le sofferenze della gente intorno a lui, che si impegnasse per realizzare servizi educativi e sociali; che indirizzasse al vero ed al bene; che si prendesse cura degli ultimi. E che denunciasse il male; che contrastasse il male; che non scendesse a patti col male. Una persona normale, un prete come si deve. Ma era a Brancaccio. Perché Brancaccio è la borgata in cui quando lo Stato decide di aprire un commissariato di pubblica sicurezza, a quarantott'ore dall'inaugurazione la mafia lo fa saltare in aria. Perché a Brancaccio, ottomila abitanti, non ci deve essere né la scuola media né il cinema né la palestra, perché a Brancaccio sia chiaro a tutti: qui è la mafia che comanda, qui essa esercita la sua signoria territoriale. E questo piccolo parroco cosa fa? Proprio quella le contende: contende alla mafia la signoria territoriale, contende alla mafia la risorsa decisiva, contrasta alla mafia il territorio, si pone nei fatti come contropotere, organizza la vita civile. Facendo le cose semplici, le cose logiche, le cose normali, fa la rivoluzione. A Gomorra don Pino Puglisi porta la Sierra Maestra. Tre anni di insurrezione evangelica, tre anni di rivoluzione delle coscienze, tre anni di lotta per la scuola e per l'assistenza, per i bisogni e per i servizi, per i diritti e per la luce, per il pane e le rose. La dittatura mafiosa lo ferma il 15 settembre 1993. * E' uno dei tanti paradossi di questa vicenda pirandelliana e kafkiana che è la lotta per la vita e per la morte tra la mafia e l'umanità, il fatto che da assassinato don Pino Puglisi venga riconosciuto: la sua morte lumeggia (certo: di tragica, gelida luce) la sua vita e la sua azione: si capisce adesso quanto efficace fosse quella tenace costante testarda lotta fatta di piccole cose semplici, di quotidiani gesti netti, di sollecitudine per gli altri, di attenzione ai bisogni concreti; si capisce adesso la vittoria grande che Pino Puglisi aveva costruito giorno per giorno senza impettite parate, senza proclami e senza spot, senza le arti del truccatore e dei tecnici del suono e delle luci; si capisce adesso che nel quartiere Brancaccio un uomo, senza parere, facendo le cose ovvie e minute, stava rompendo il consenso alla mafia, stava organizzando la Resistenza, ogni giorno una barricata, ogni giorno un Gavroche. Il 15 settembre uccisero don Pino Puglisi e ci fecero conoscere la sua lotta e la sua strategia, ci fecero sapere che un prete li aveva sconfitti e umiliati proprio lì, sul piazzale dell'appello. Uccidendolo ci rivelarono un segreto: che saranno gli uomini di pace, quelli del discorso della montagna, che spezzeranno la dittatura mafiosa. * Un estratto da: Umberto Santino, Storia del movimento antimafia Il 15 settembre 1993 nel quartiere Brancaccio, roccaforte storica della mafia, veniva ucciso il parroco della chiesa di San Gaetano, Giuseppe Puglisi. L'omicidio arriva dopo una serie di intimidazioni, di minacce per telefono e attentati incendiari. Alla fine di maggio era stato incendiato un furgone dell'impresa Balistreri di Bagheria che aveva vinto l'appalto per la ristrutturazione della chiesa (i mafiosi considerano l'imprenditore un intruso). Alla fine di giugno era stato appiccato il fuoco alle porte delle case di abitazione di tre rappresentanti del comitato intercondominiale del quartiere. Alle minacce padre Puglisi aveva risposto con serenità nelle sue prediche in chiesa: "Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio". La sua azione nel quartiere era discreta ma decisa, senza scoop ma continua. "Questa è la borgata più dimenticata della città -diceva-. Non ha una scuola media, niente asilo e nemmeno consultorio o centro sociale comunale" e si dava da fare per dotare il quartiere di quei servizi elementari, formando un comitato, scontrandosi con la burocrazia comunale. Aveva creato il Centro sociale "Padre nostro", in cui operavano alcune suore e dei volontari. Questo impegno quotidiano, poco appariscente ma instancabile, lo ha portato a scontrarsi con il dominio mafioso, che si è sentito messo in discussione, scalzato, e per imporsi ha fatto ricorso all' assassinio. Padre Puglisi, rispetto ai cosiddetti "preti antimafia", si potrebbe definire un moderato, un prete all'antica che per la serietà del suo impegno si è trovato in prima linea e davanti agli ostacoli più pericolosi non è retrocesso di un millimetro. Una figura simile a quella di monsignor Romero, il vescovo salvadoregno inizialmente spoliticizzato che poi si è opposto con tutto se stesso alle violenze degli squadroni della morte fino al sacrificio della vita. La reazione suscitata dall'omicidio di padre Puglisi è stata intensa ma tutto sommato inadeguata. Alcuni preti hanno scritto al Papa chiedendogli "un forte segno della sua presenza tra noi come conferma e guida in questo cammino difficile ed ogni giorno più rischioso", ma il Papa non è ritornato, se non due anni dopo per il convegno nazionale delle chiese tenutosi a Palermo nel novembre del 1995. Si può dire che, al di là dell'emozione del momento, non si è colta la valenza del delitto, che era rivolto contro quel tipo d'impegno, vissuto quotidianamente in contatto con il territorio, quindi non solo contro gli uomini di Chiesa più attivi ma contro tutta la società civile. La Curia non si è costituita parte civile al processo, e non lo hanno fatto neppure la parrocchia e il Centro "Padre nostro". Hanno tentato di costituirsi parti civili alcune associazioni ma la loro richiesta è stata respinta. [Estratto da Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 307-308. L'autore, fondatore e direttore del Centro Impastato di Palermo, è il più importante studioso della mafia ed uno dei principali protagonisti del movimento antimafia. Segnaliamo che la "Associazione intercondominiale quartiere Brancaccio" ha annunciato la sua costituzione come parte civile in occasione del dibattimento fissato per il 23 ottobre prossimo; cfr. l'articolo di Pino Martinez in "La nonviolenza e' in cammino" n. 219 del 5 settembre scorso]. * Un estratto da: Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia Sembrava (...) che nessun potere avrebbe mai avuto il coraggio di sfidare i clan di Brancaccio, sin quando nella parrocchia di san Gaetano, al centro della borgata, non giunse un parroco apparentemente piccolo piccolo. Si chiamava Pino Puglisi. Don Pino è stato l'unica autentica spina nel fianco, per boss che non avevano mai incontrato sul loro cammino un oppositore vero, uno che avesse il coraggio di guardarli negli occhi. Ho già avuto modo di dirlo: per noi giornalisti, sino al giorno della sua tragica scomparsa, don Pino Puglisi era un illustre sconosciuto. Non avevamo idea di quanto fosse prezioso il lavoro sotterraneo che stava conducendo in una delle borgate a più alta densità mafiosa di tutta la città. Non lo tenevamo d'occhio perché raramente aveva fatto parlare di sé e mai aveva fatto notizia. (...) Chi era veramente quel prete apparentemente piccolo piccolo? Testimonianze ne ho raccolte tante, e sono concordanti. Tutti quelli che lo hanno conosciuto lo descrivono come umile, dolcissimo, ma anche capace di usare il pugno di ferro. Non accettava imposizioni. Rifiutava le situazioni ambigue giustificate da una lunga pressi che nessuno, prima di lui, aveva osato mettere in discussione. Si ribellava, con lo stesso spirito combattivo, sia alle spaventose condizioni di vita degli abitanti della sua parrocchia, sia a tutti quei gruppi organizzati che, a vario titolo, avevano interesse al mantenimento della palude. Era giunto a Brancaccio nel 1990. Nei tre anni trascorsi alla guida di san Gaetano non fece mai nulla per mantenere le vecchie regole del gioco. Fece di tutto per sovvertirle. [Brani estratti da Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia, Rizzoli, Milano 1994, pp. 133-135. Questo libro è opera di uno dei giornalisti che più hanno contribuito ad una informazione corretta ed alla lotta contro il potere mafioso; Lodato è autore tra l'altro di un libro molto noto, cronaca giornalistica che si avvicina alla storiografia, che nella sua più recente edizione aggiornata si intitola Venti anni di mafia, Rizzoli, Milano 2000. Nell'introduzione di Dall'altare contro la mafia, Lodato scrive (alle pp. 12-13): "Questo libro che avete appena cominciato a leggere parlerà solo di un delitto: l'uccisione di padre Pino Puglisi, parroco della borgata Brancaccio a Palermo"]. * Luigi Ciotti: La parabola di don Pino "Entrato nella città di Gerico, Gesù la stava attraversando" (Lc 19, 1). Gesù percorreva quelle strade attento non soltanto a incontrare la folla che gli era attorno, ma anche chi, a causa della ressa, non riusciva a vederlo: Zaccheo. Un Gesù che attraversa le strade del suo tempo è, probabilmente, il più bel ricordo di don Giuseppe Puglisi ucciso a Palermo esattamente un anno fa, nel giorno del suo compleanno. Lo hanno ucciso in "strada". Dove viveva, dove incontrava i "piccoli", gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così radicale di abitare la "strada" e di esercitare il ministero del parroco è scomodo. Lo hanno ucciso nell'illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di denuncia, di condivisione. Ricordare quel momento significa non soltanto "celebrare", ma prima di tutto alzare lo sguardo, far nostro l' impegno di don Giuseppe, raccogliere quell'eredità con la stessa determinazione, con identica passione e uguale umiltà. Cosa ci ha consegnato don Giuseppe? Innanzitutto il suo modo di intendere e di vivere la parrocchia, di essere parroco. Non ha pensato, infatti, la parrocchia unicamente come la "sua" comunità di fedeli, come comunità di credenti slegata dal contesto storico e geografico in cui è inserita. L'ha vissuta, prima di tutto, come territorio, cioè come persone chiamate a condividere uno spazio, dei tempi e dei luoghi di vita. Per partecipare alla vita di chi gli era vicino ha accettato di percorrere e ripercorrere le strade del rione Brancaccio. Ha vissuto la strada -quella strada che Gesù ha fatto sua- come luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi, di relazioni e di domande in continua trasformazione. L'ha abitata così e ha tentato, a ogni costo, di restarvi fedele. In altre parole, ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia. Con la sua testimonianza don Pino ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello "stare" nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami. "Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli" (Mt 5, 10). Anche questo ci ha consegnato don Giuseppe: una grande passione per la giustizia, una direzione e un senso per il nostro essere Chiesa e soprattutto un invito per le nostre parrocchie ad alzare lo sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati e incisivi per perseguire quella giustizia e quella legalità che tutti, a parole, desideriamo. Per questo don Giuseppe è morto: perché con l'ostinata volontà del cercare giustizia è andato oltre i confini della sua stessa comunità di credenti. "Entrato in casa di uno dei capi dei farisei, Gesù..." (Lc 14, 1). Ecco un altro aspetto ricco di significati. Al di là dei princìpi o delle roboanti dichiarazioni ciò che conta è la capacità di viverli e di praticarli nella quotidianità. Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito della sua chiesa annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera. Tre dimensioni, tre consegne e tre aspetti che rendono questa ricorrenza estremamente ricca e significativa. Tre messaggi perché le nostre parrocchie e quanti in esse lavorano possano essere sostenuti con gli strumenti necessari. [Questo testo è apparso dapprima nel quotidiano "Avvenire" il 15 settembre 1994, poi è stato ristampato in Luigi Ciotti, Persone, non problemi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, pp. 72-73; da lì lo abbiamo ripreso. Don Luigi Ciotti, come è noto, è il fondatore del Gruppo Abele di Torino, ed il presidente di "Libera", l'associazione di associazioni impegnate contro la mafia]. 2. ESPERIENZE. MASSIMO BRICOCOLI, MARIANELLA SCLAVI: SICUREZZA URBANA, GESTIONE DEI CONFLITTI ED ESPERIENZE DI FORMAZIONE DELLA POLIZIA MUNICIPALE (PARTE SECONDA) [Siamo assai grati a Marianella Sclavi, che da anni conduce un'esperienza di formazione con la polizia municipale di Milano, per averci messo a disposizione queso testo, dal titolo originale "Etnografia della sicurezza urbana. Il ruolo dell'ascolto attivo e della gestione creativa dei conflitti nella amministrazione del territorio", gia' apparso nell'"Archivio di studi urbani e regionali", n. 68 del 2000. Pubblichiamo oggi la seconda parte del saggio, l'ultima parte pubblicheremo domani. Massimo Bricocoli e' impegnato nella ricerca-azione sulla sicurezza urbana e nella formazione della Polizia Municipale. Marianella Sclavi e' docente universitaria al Politecnico di Milano, e' antropologa, e si occupa di progettazione urbana partecipata e di formazione della Polizia Municipale a Milano. Per contatti: msclavi at libero.it] * Terza Storia. Meno multe, più conversazioni. Massimo: Quella di Largo Marinai d'Italia e' un'area verde molto frequentata nella zona Vittoria a Milano, in cui una serie di "popolazioni" sono decisamente in "competizione" nell'uso dello spazio. E' uno spazio verde molto interessante ed eterogeneo. Per intenderci, e' al suo interno che sorge la Palazzina Liberty, teatro in passato di una celebre occupazione... In particolare, negli anni, il conflitto tra proprietari di cani, anziani e bambini e' stato al centro delle problematiche del parco e della fatica di chi (Guardie Ecologiche Volontarie e Polizia Municipale) viene chiamato in causa per dirimere le controverse interpretazioni del regolamento d'uso del verde pubblico. Il vigile di quartiere di cui ho fatto lo shadowing, seguendolo come un' ombra nel suo servizio quotidiano, e' giovane, di bell'aspetto, molto curato e trendy nei dettagli di abbigliamento che sfuggono al rigore della divisa d 'ordinanza e cerca sempre di mettere in campo un approccio creativo alla gestione dei conflitti con cui si misura quotidianamente. L'occasione piu' interessante gli e' stata offerta dall'introduzione di un' area riservata ai cani nel parco. Ecco come lui stesso mi ha raccontato la sua strategia: "Prima che introducessero l'area cani, ho pensato che fosse necessario "preparare il campo". Mi sono preoccupato di come entrare in contatto con i proprietari di cani in un modo alternativo rispetto a quello piu' consueto ed ordinario dell'affrontarli faccia a faccia in mezzo al prato dovendo contestare loro (e' un mio diritto e dovere in quanto pubblico ufficiale) il mancato rispetto delle regole, cioe' il cane senza guinzaglio e senza museruola e al di fuori dell'area dedicata. Mi ero accorto, facendo servizio nel quartiere, che proprio di fronte al parco c'e' un negozio di prodotti per animali molto ben rifornito e sempre pieno di clienti. Ho iniziato a frequentarlo, entrando con delle scuse e mettendomi a chiacchierare con la ragazza che lo gestisce. Di volta in volta, stando dentro il negozio, ho avuto modo di conoscere molti dei proprietari di cani che frequentano il parco e di discutere con loro i cambiamenti che stavano per essere introdotti nella gestione dell'area". Marianella: Chiedeva la loro adesione non come figura estranea all'ambiente che impone delle regole e ha il potere di punirti se non le rispetti, ma come membro di quell'ambiente e figura che istituzionalmente ha a cuore le regole della reciproca convivenza. Inoltre immagino che si sia trattato di conversazioni quasi mai a due, ma corali, in cui tutti i presenti dicevano la loro, con la possibilità di creare un senso di solidarieta' e di impegno comune. Massimo: Proprio cosi', questo modo di procedere ha provocato un incredibile cambiamento nel modo di rapportarsi fra loro non solo dei proprietari di cani, ma anche degli altri frequentatori del parco. Un cambiamento letterale del "set". Allo stato attuale, il parco e' molto frequentato e da una grande varieta' di persone: anziani che passeggiano e sostano sulle panchine, giovani ai bordi del parco, moltissimi bambini nell'area attrezzata e molti proprietari di cani rispettosi delle regole e delle aree a loro dedicate (al 90% i cani sono nelle aree dedicate, che risultano anch'esse molto curate, a differenza di altri parchi cittadini). Il vigile di quartiere attraversa il parco nel primo mattino, per una verifica, e poi vi si sofferma piu' a lungo nel pomeriggio, quando e' piu' frequentato. La riprova dell'efficacia della modalita' di lavoro del vigile l'ho proprio avuta passeggiando al suo fianco nel parco e vedendo che e' salutato con larghi sorrisi da un grande numero di persone di ogni sorta. Pero' adesso voglio raccontare una storia "in negativo", una di quelle tragicomiche che, come dicevi tu all'inizio, se si e' rilassati e si sentono raccontare, fanno ridere per la patologica mancanza di capacità di ascolto attivo. In questo caso chi "inciampa sui gradini" che richiederebbero un sapere della gestione creativa dei conflitti, e' la amministrazione comunale, nella persona dei dirigenti dei tecnici di settore, dei soggetti decisionali. Marianella: Prima lasciami aggiungere che quel vigile, forse senza sapere che si chiama cosi', ha attuato una pratica basata sulla "network analysis"; ha cioe' individuato il posto e la persona giusta (la commessa di quel negozio molto frequentato dai proprietari di animali) che gli ha consentito di innescare un lavoro enorme con relativamente poco sforzo. Infatti e' immaginabile che ogni cliente avra' ripetuto quelle informazioni e discussioni ad un'altra decina di persone. E' molto piu' efficace che appendere dei manifesti. Spero che i suoi dirigenti sappiano apprezzare questo acume sociologico. Massimo: Un vigile non puo' operare in questo modo se non ha l'appoggio del funzionario di quella zona e del suo diretto superiore, i quali in questo caso (li conosco e li ho intervistati) sono anzi dei fautori di questo approccio. Vedi, la Polizia Municipale e' caratterizzata da una forte struttura gerarchica e allora e' essenziale, ad esempio, che si riconosca l'utilita' del "darsi tempo" stazionando dentro un negozio anziche' tacciare l'agente di connivenza con i negozianti o di bighellonare. Altri dirigenti invece sono contrari perché concepiscono ancora i controlli come rispetto di norme procedurali, fisse; temono che il vigile sfugga al loro "controllo" e il suo lavoro alle verifiche. Noi stiamo lavorando insieme a loro per creare lo spazio, la legittimita' e l'apprezzamento di un approccio ai problemi che connotano il servizio di quartiere che sia "prestazionale" e non "prescrittivo", non e' facile ma e' davvero molto importante per l'efficacia dell'azione. Marianella: In tutti i Paesi europei ci si sta muovendo in questa direzione, per esempio in Francia c'e' il "contrat local de securite'" che instaura una nuova figura del "mediatore sociale" con compiti di prevenzione della microcriminalita' attraverso il dialogo e con la regolazione partecipata degli spazi pubblici. In Inghilterra sono gia' alcuni anni che le forze di polizia metropolitana in parecchie citta' si assumono direttamente questi compiti con training periodici e in collegamento con altri operatori pubblici, associazioni e volontari sul territorio locale. * * Quarta storia. Come peggiorare un ambiente urbano "riqualificandolo" Massimo: Baggio e' una localita' della periferia sud di Milano. L'antico nucleo e' ormai parte del perimetro amministrativo ed e' letteralmente circondato da grandi insediamenti residenziali. Piazza Stovani e' situata nel cuore del vecchio borgo. Una strada che attraversa il centro storico e sulla quale si affacciano alcuni negozi, un bar e una pizzeria, corre su un lato della piazza che e' delimitata sugli altri tre da edifici. Su due lati si tratta di edifici pubblici che hanno via via cambiato destinazione d'uso. L'edificio a due piani che occupa il lato sud, forse un tempo era il Municipio di Baggio e oggi ospita una serie di gruppi e associazioni: il gruppo Alpini, la Croce Rossa, una sede di partito, un'associazione di volontariato. Sull'altro lato, la scuola elementare di inizio secolo ha lasciato il posto alla sede della Azienda Sanitaria Locale di zona che vede un flusso costante di utenti. Nella palazzina a due piani al suo fianco, un edificio di inizio secolo, l'asilo, ha ceduto il posto al Sert, il Servizio Territoriale Tossicodipendenze, dove ogni giorno circa duecento tossicodipendenti ricevono la propria dose di metadone e un numero minore si reca per visite e colloqui con i medici. Infine, il quarto lato della piazza e' delimitato da un alto muro che racchiude un edificio che affaccia sulla strada e che ospita un convento di suore Missionarie di Madre Teresa. Quale attivita' caritatevole, le suore hanno attivato da circa un anno un servizio di distribuzione di pasti ai poveri, per lo più stranieri. La distribuzione del pasto avviene alle 18.30, ma già alle 17 una folla variabile tra le 150 e le 250 persone fa dell' attesa un'occasione di incontro e di ritrovo giornaliero. Le suore distribuiscono il pasto ma purtroppo non mettono a disposizione uno spazio interno, di conseguenza gli utenti della mensa stazionano nelle adiacenze della piazza, consumano il proprio pasto e si arrangiano come possono in assenza di servizi igienici, provocando le proteste e il risentimento dei commercianti e degli abitanti della zona. Invece di cercare di affrontare questi disagi e conflitti in modo creativo, cosa fa il Comune? Decide di iniziare i lavori di "riqualificazione della piazza", trasformandola in un cantiere. L'intera piazza e' cintata e off limits. Il cartello segnaletico che fornisce informazioni sui lavori non e' affatto rassicurante, laddove (sembra per un errore) indica come data di fine lavori l'anno 2002. Nulla di piu' e' indicato sui contenuti dell'intervento. La sistemazione della piazza e' un progetto rivendicato da tempo sia dalla popolazione che dai commercianti , ma i lavori sono stati avviati senza tenere conto dell'impatto del cantiere sui non piccoli problemi di affollamento e convivenza gia' presenti. Infatti : - l'impossibilita' di fruire dello spazio della piazza ha esasperato le tensioni tra gli utenti della mensa e i commercianti: l'inaccessibilita' dello spazio pubblico spinge infatti i poveri a consumare il proprio pasto presso le vetrine dei negozi, spesso sulle soglie, arrecando "disturbo" e danno alle attività commerciali; - l'apertura del cantiere sull'intera superficie della piazza ha reso incredibilmente difficoltoso l'accesso ai numerosi servizi che su di essa affacciano. E' in particolare il caso dell'ASL e del Sert, cui si accede attraverso uno stretto e tortuoso camminamento realizzato con una palizzata in legno e ricavato tra la cinta esterna del cantiere e gli edifici, che costringe entro lo spazio di un metro di larghezza il passaggio degli utenti, con conseguente preoccupazione e ansia nei confronti degli utenti del Sert, percepiti come pericolosi. Confesso che anch'io e Simona Pognant, la collega con cui ho svolto questa indagine, non ci sentivamo del tutto a nostro agio, a camminare dentro quel budello. La convivenza di per se' gia' difficile tra gli utenti dei diversi servizi e il fragile equilibrio del piccolo commercio in questo modo sono messe davvero a dura prova. Se non succede nessun incidente grave, bisognera' fare una ricerca apposita per capire come mai. Che fai, ridi? Marianella: E' un riso amaro. Mi conforta pero' il pensiero che cose del genere oggi non sono piu' ammissibili se non altro perche' ci stiamo sprovincializzando. Oggi chi amministra non può più ignorare che esistono Barcellona, Lione, Brent... che esistono altri stili e comportamenti decisionali e amministrativi. Col federalismo la competizione per l'efficacia fra comuni e fra regioni ci costringono a toglierci molti paraocchi. Anche le amministrazioni comunali e non solo le aziende private, pur con molte resistenze, incominciano a sperimentare almeno settorialmente un modello organizzativo a "piramide rovesciata", ad operare come una "impresa che ascolta". Gli amministratori del tuo esempio dovevano non aver timore (che invece hanno) di andare a cercare i rappresentanti dei diversi interessi in gioco, le suore, i commercianti, i medici della Asl e del Sert e gli stessi utenti della mensa delle suore, per discutere con loro come affrontare i problemi sia vecchi che quelli nuovi posti dall'apertura del cantiere. Cosi' hanno fatto, per esempio, a Lione, quando hanno affrontato in termini di "cantiere evento" (gestito fra l'altro da una ditta italiana, la GRM di Dioguardi...) la ristrutturazione di una delle piazze principali. Bisogna ammettere che le resistenze al cambiamento sono giustificate dalle carenze di formazione, solo molto lentamente nelle nostre università si incomincia ad affrontare con rigore e immaginazione questo ordine di problemi. Massimo: In effetti e' ancora abbastanza raro trovare, non solo nella pubblica amministrazione, persone pienamente consapevoli del tipo di cambiamento sistemico per molti versi gia' in atto. Per questo siamo rimasti profondamente e felicemente sorpresi nel trovare proprio fra gli addetti della Polizia Municipale un numero insospettatamente alto di persone a tutti i livelli non solo consapevoli di questo, ma disponibili a esplorare nuovi "mondi possibili". Per molti versi la loro esperienza indica la strada anche ad altri settori della Pubblica Amministrazione. Quindi adesso porteremo una serie di esempi centrati proprio su questa nuova figura. Marianella: In realtà la figura dei vigili di quartiere anche come emerge dai nostri esempi non e' nuova, ne' in Italia (una volta a Milano c'erano "i ghisa") ne' nel mondo, nei paesi anglosassoni sono una antica istituzione. Quello che e' nuovo e' la contingenza in cui questo cambiamento avviene: cioe' in un momento in cui la pressione a un cambiamento di mentalita', professionalita', di diversa allocazione e ridefinizione delle competenze decisionali, investe l'intera pubblica amministrazione. In questo contesto i vigili di quartiere diventano i "sensori" dei problemi di convivenza sia fra i cittadini che fra questi e la pubblica amministrazione. Massimo: Diventano anche i parafulmini, coloro a cui tutti si rivolgono per dar voce a cio' che non funziona. E quindi molto interessati a che l'intera macchina funzioni diversamente e meglio. (Continua) 3. RIFLESSIONE. MARINA FORTI INTERVISTA JOSEPH KI-ZERBO [Questa intervista, realizzata a Durba nin occasione della Conferenza dell'Onu contro il razzismo, abbiamo ripreso dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 settembre. Marina Forti e' giornalista, particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione. Joseph Ki-Zerbo e' uno dei piu' illustri intellettuali contemporanei] Joseph Ki-Zerbo, un anziano signore dal portamento regale nel lungo abito bianco ricamato, e' il decano degli storici africani. La sua Storia dell'Africa nera (1972, in Italia da Einaudi, 1977) ha segnato una svolta nella storiografia del continente africano: una sorta di "riscatto" dell'Africa cancellata o immiserita da secoli di quella rappresentazione coloniale che faceva cominciare la civilta' con l'arrivo degli europei. Nato a Toma nell'Alto Volta (oggi Burkina Faso) da una famiglia di contadini, ha compiuto i suoi primi studi in scuole missionarie e ha dovuto fare vari mestieri prima di poter arrivare a Parigi e seguirvi regolari studi superiori. Dopo il diploma all'Institut d'Etudes Politiques nel 1954, e due anni di post-laurea in storia alla Sorbona, si e' dedicato al suo paese, di cui e' stato deputato all'Assemblea nazionale. Di recente ha collaborato alla General History of Africa pubblicata dall'Unesco, l'organizzazione Onu per la cultura. Era a Durban nei giorni scorsi per partecipare al seminario promosso appunto dall'Unesco su "La via degli schiavi", la tratta degli schiavi neri dall'Africa alle Americhe: una catastrofe, dice, che ha cambiato la demografia del continente africano e il suo futuro. Marina Forti: Cos'e' che rende la tratta degli africani attraverso l'Atlantico un evento cosi' unico nella storia umana? Joseph Ki-Zerbo: Vede, la schiavitu' e' esistita in molte regioni, e' stata una fase importante dello sviluppo di quasi tutte le civilta' umane. Ma credo che i popoli neri abbiano subito un'esperienza della schiavitu' unica nel suo genere per la durata, per le dimensioni e per l'orrore. Sono queste le caratteristiche uniche dell'esperienza africana. Per quattro secoli e mezzo, dalla meta' del XV alla fine del XIX, sono venuti a cercare schiavi neri in Africa per trasportarli in altri continenti, con una progressione costante negli effettivi fino al 1830. Poi nel 1848 l'abolizionismo ha cominciato a produrre degli effetti - anche se non ha ancora fermato la tratta, anzi si e' creata una situazione ancora piu' terribile perche' gli europei venivano a fare guerre con armi ormai piu' sofisticate, conoscevano meglio i villaggi, era una caccia all'uomo mirata. E poi, le dimensioni: ci sono stime diverse sul numero degli schiavi presi, ma considerate che il Portogallo del sedicesimo secolo aveva appena un milione e mezzo di abitanti. L'Africa nera era un vivaio: i demografi stimano che avesse allora 100 milioni di abitanti. Gli europei conservarono gelosamente le loro tecnologie di navigazione o la polvere da sparo, benche' i re africani chiedessero maestri esperti alle loro corti, per istruite tecnici africani. Invece, usarono l'Africa come una riserva di manodopera... Faccio notare che l'Africa e l'Europa allora erano comparabili quanto a organizzazione sociale e politica, e anche economica. Ma le sue forze migliori furono prelevate sistematicamente. Su oltre quattro secoli sono stati presi tra 30 e 100 milioni di abitanti: i piu' forti, robusti, giovani, l'avvenire dell'Africa. Le incursioni dei negrieri erano come attacchi chirurgici, ben diretti a prelevare gli uomini e donne che gli servivano. Infine, l'orrore: l'essere umano in Africa e' stato considerato al pari del bestiame, selvaggi da ridurre a obbedienza e addomesticare. Presi a forza, obbligati a lavorare, sottomessi a un regime peggiore di quello riservato alle bestie. Mai la schiavitu' era stata marcata da un tale disprezzo umano. Allo schiavo che non obbediva si poteva tagliare le orecchie, la lingua, le mani. Uomini e donne neri erano chiusi insieme perche' producessero figli, come si fa con i cavalli. Inaudito! Non gli era riconosciuta nemmeno la qualita' umana: il nero africano era una merce. Pensi che quando si faceva l'inventario dei beni di una proprieta' in vendita si elencavano i neri come beni mobili: una casa, tanti carri, tanti negri... Giunsero a creare una moneta astratta per stimare gli africani, un'unita' di conto chiamata piece d'Inde. Corrispondeva a un negro perfetto: giovane, in piena forza. C'erano frazioni e multipli: una donna con un bambino facevano una piece d'Inde, due donne una piece e mezza. Per tutto questo, non vedo un altro popolo nella storia che abbia sofferto di un traffico del genere cosi' a lungo, e in dimensioni comparabili al popolo nero. Forti: Gli europei inoltre si davano giustificazioni di ordine legale, morale... Ki-Zerbo: Si', ma il complesso di superiorita' e' venuto dopo. E' stata la stessa tratta degli schiavi a sviluppare il razzismo. Si metta al posto dei portoghesi, quel milione e mezzo di abitanti, i grandi regni africani dell'epoca erano molto piu' popolosi di quello di Lisbona. Abbiamo le testimonianze dei viaggiatori arabi, venuti in Africa per primi seguiti poi dagli europei. Descrivevano una demografia abbondante, villaggi molto fitti, il benessere, l'avanzamento delle scienze come la pedagogia: sappiamo ad esempio che nel XIV secolo la citta' di Timbuctu aveva un tasso di alfabetizzazione piu' alto che nelle metropoli europee. Era in arabo, ma tutti i figli dei liberi erano scolarizzati. Ibn Battuta, il grande viaggiatore arabo che percorse sia l'Africa che l'Europa e l'oceano Indiano, dice che il Mali all'epoca era governato nella pace e della sicurezza, al contrario dell'Europa nello stesso periodo. L'imperatore del Mali nel quattordicesimo secolo fece il pellegrinaggio alla Mecca portando con se' tonnellate d'oro: tanto che nel mediterraneo il corso dell'oro si abbasso'. Il regno del Mali era segnato nelle carte del tempo, disegnate in Europa, perche' la sua reputazione era grande. Ibn Battuta scrisse un capitolo su "quel che c'e' di buono e di cattivo presso i neri": non approva che le donne vadano a torso nudo, ma riconosce che la giustizia e' molto rigorosa... Quando i primi portoghesi arrivarono nel regno del Congo si prostrarono e baciarono la mano del re come avrebbero fatto a Lisbona. No, il complesso di superiorita' e' cominciato piu' tardi. Con lo schiavismo si e' costruito poco a poco il disprezzo, fino al diciannovesimo secolo quando il razzismo e' diventato per cosi' dire "scientifico": quando si comincio' a dire che la scatola cranica degli africani era piu' piccola, che non erano capaci di capire certe cose. E' stata costruita un'ideologia che giustificava la pratica della schiavitu'. Forti: In questa conferenza si discute di "riparazioni". Si puo', e come, riparare a una colpa come la tratta degli schiavi? Ki-Zerbo: Ma e' gia' stato fatto in altri casi, ad esempio i tedeschi l'hanno fatto per gli ebrei. E' un problema di diritto e di etica. Il silenzio sulla tratta degli schiavi e' durato secoli. Oggi, dopo che il mondo ha adottato principi generosi e giusti sui diritti umani e dei popoli, non e' accettabile che il silenzio continui. Il parlamento francese ha riconosciuto che la schiavitu' e' un crimine contro l'umanita' perche' degli esseri umani non sono stati considerati come tali, e che e' stata disconosciuta troppo a lungo. Se seguiamo un principio di diritto, quando c'e' stato un torto deve seguire una riparazione. Sul principio non dovrebbe esserci discussione. E' sulle modalita' che qui discutono. La tratta dei neri ha permesso all'Europa di disporre del lavoro necessario a entrare nella fase dell'industrializzazione. L'Europa ha approfittato e si e' sviluppata mentre l'Africa sprofondava. Certo non si ripara alla vita di 50 o cento milioni di persone, al sangue versato, agli orrori, agli schiavi ribelli fatti a pezzi sulle navi negriere per darli in pasto agli altri; ci sono orrori impossibili da riparare. Ma cercare di diminuire gli effetti della tratta dei neri, questo non e' chiedere troppo. Una volta riconosciuto un crimine contro l'umanita', bisogna controbilanciare gli effetti del male fatto. Forti: Ma appunto: altri paesi non hanno riconosciuto, come la Francia, che c'e' stato un "crimine contro l'umanita'". Ki-Zerbo: Si', ma e' un ritardo nelle coscienza morale, etica e giuridica rispetto alle loro stesse leggi. Guardi: qui c'era l'apartheid, ed e' durato fin troppo a lungo. Durante la guerra fredda gli americani non volevano riconoscerlo perche' credevano che i loro interessi fossero minacciati. Quelli che oggi non riconoscono il torto fatto all'Africa dovranno riconoscerlo prima o poi, perche' questa lotta non si fermera'. D'altra parte e' una lotta non solo per i neri ma per la dignita' umana. Questi paesi ora non vogliono riconoscere cio' che e' chiaro come il sole per un calcolo di interesse immediato: temono di dover rinunciare a una parte delle loro ricchezze, quando il 20% dell'umanita' ha l'80% delle risorse: non gli basta? Gli stati badano solo all'interesse immediato: io dico che i popoli devono prendere il relais. E' un mostruoso ritardo delle coscienze, e va denunciato. 4. POESIA. IDA DALIA: COME LA VITA [La seguente poesia di Ida Dalia abbiamo estratto da AA. VV. (a cura di Mario Scalise, Atsuko Mizuguchi Folchi Vici, Carla Vasio), Haiku antichi e moderni, Vallardi Garzanti, Milano 1996, p. 247. Questo testo e' stato segnalato all'International Haiku Contest in occasione del quarantesimo anniversario della Gendai Haiku Kyokai, Tokyo 1987] Come la vita trasparente fantasma cala la Luna 5. POESIA. IMMA VON BODMERSHOF: IL VECCHIO MELO [Il testo seguente abbiamo tratto da Imma von Bodmershof, La meridiana. Haiku, All'insegna del Pesce d'Oro (Scheiwiller), Milano 1980, p. 37 (traduzione di Berta Burgio Ahrens). Imma von Bodmershof, figlia di Christian von Ehrenfels, fondatore della psicologia della forma, e' nata a Graz. Ha pubblicato racconti, romanzi e haiku (che hanno incontrato particolare interesse in Giappone e vi sono stati tradotti). Le sono stati conferiti vari premi letterari, tra cui il grande premio statale austriaco nel 1958] Il vecchio melo ha un solo ramo - ma gemma tocca gemma. 6. POESIA. HILDEGARD MARIA BINDER: I DICIANNOVENNI [La poesia seguente abbiamo estratto da Maria Teresa Mandalari (a cura di), Poesia operaia tedesca del '900, Feltrinelli, Milano 1974, p. 209. L'autrice, Hildegard Maria Binder, e' nata nel 1935, casalinga, ha pubblicato su riviste e antologie] * I diciannovenni occupati in svanite contorsioni trasformano l'ordinato disordine dei loro padri e portano vecchi cappelli sopra capelli lunghi mutano il torto in ragione e indossano camicie finemente ricamate di piu' non si puo' fare i diciannovenni nella loro crepuscolare raffinatezza assaporano i propri giochi servili e il moto di qualche dozzina di memorie a forcella che producono rumori i diciannovenni intricati nelle impalcature di volute oscurita' mostrano nella cute il colore dei quarantenni che li hanno generati portano a ripide vette la carriera a qualsiasi costo il vicino paga con una lacerazione non importa i diciannovenni costruiscono il proprio mondo recitano la formuletta tutti dobbiamo morire e infilano in bocca al bambino la canna del fucile hanno imparato a scaricarlo non in corsi speciali perche' non fanno che essere disponibili alle esigenze della civilizzazione 7. MATERIALI. PER STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE: DA GINO PICCIO A HAROLD PINTER * GINO PICCIO Profilo: impegnato in un lavoro comunitario di soldiarieta' utilizzando (e quindi reinventando creativamente e contestualmente) la metodologia di Paulo Freire. Opere di Gino Piccio: cfr. alcuni materiali in Leandro Rossi, Paulo Freire profeta di liberazione, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi 1998. * LUIGI PICCIONI Profilo: mpegnato sin dai primi anni '90 nell'ecopacifismo e nel commercio equo e solidale pisano, ha collaborato con Francesco Gesualdi nella redazione della "Guida al consumo critico" e alla diffusione delle sue tematiche in Italia grazie a molte decine di incontri pubblici. Di mestiere storico dell'ambiente e dell'ambientalismo, insegna presso l'Universita' degli Studi della Calabria. Ha pubblicato, tra le altre cose, Il volto amato della patria, ricostruzione delle vicende del primo movimento di protezione della natura in Italia, tra la fine dell'Ottocento e i primi anni '30 del Novecento. Ha curato l'edizione italiana del libro di Jeremy Brecher e Tim Costello, Contro il capitale globale, Feltrinelli, Milano. Collabora con il "Centro nuovo modello di sviluppo" di Vecchiano e con la Rete di Lilliput. * LILIANA PICCIOTTO FARGION Profilo: illustre studiosa della Shoah, ha svolto una fondamentale attività di ricerca, recupero, preservazione e trasmissione della memoria delle vittime. Opere di Liliana Picciotto Fargion: L'occupazione tedesca e gli ebrei di Roma, Carucci, 1979; Il libro della memoria, Mursia, Milano 1991; Per ignota destinazione. Gli ebrei e il nazismo, Mondadori, Milano 1994. * TONI PIERI Profilo: impegnato nella solidarieta' internazionale, e' nel viterbese una delle figure storiche dell'impegno ambientalista, pacifista, per i diritti e di solidarieta'. * FRANCA PIERONI BORTOLOTTI Profilo: storica italiana. Opere di Franca Pieroni Bortolotti: Socialismo e questione femminile in Italia (1982-1922), Mazzotta, Milano 1974; Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Einaudi, Torino 1975; Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia-Romagna, Vangelista, Milano 1978; La donna, la pace, l'Europa, Franco Angeli, Milano 1985. * MASSIMILIANO PILATI Profilo: e' impegnato nel Movimento Nonviolento * PIETRO PINNA Profilo: primo obiettore di coscienza nel 1950, collaboratore di Aldo Capitini e di Danilo Dolci, infaticabile promotore della nonviolenza, è una delle figure di riferimento per i movimenti e le iniziative per la pace. Opere di Pietro Pinna: La mia obiezione di coscienza, Edizioni del Movimento Nonviolento; numerosi suoi contributi sono stati pubblicati in vari volumi. * ENNIO PINTACUDA Profilo: nato a Prizzi nel 1933, laurea in giurisprudenza alla Cattolica di Milano, studi di teologia alla Gregoriana a Roma, e specializzazione in sociologia alla New York University. Gesuita, tra i protagonisti della lotta contro mafia a Palermo. Opere di Ennio Pintacuda: Breve corso di politica, Rizzoli, Milano 1988; La scelta, Piemme, Casale Monferrato 1993. Opere su Ennio Pintacuda: Pierluigi Diaco, Andrea Scrosati (a cura di), Padre Ennio Pintacuda. Un prete e la politica, Bonanno, Acireale 1992. * HAROLD PINTER Profilo: drammaturgo inglese, nato nel 1930. Autore anche di sceneggiature cinematografiche (è nota la sua collaborazione con Losey in film memorabili: Il servo, L'incidente, Messaggero d'amore). Intellettuale d'opposizione, di saldo impegno politico. Opere di Harold Pinter: il suo Teatro è edito in italiano da Einaudi, Torino. Opere su Harold Pinter: Gianfranco Capitta, Roberto Canziani, Harold Pinter, un ritratto, Anabasi, Milano 1995. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 225 dell'11 settembre 2001
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 226
- Next by Date: Stati Uniti - due modi di reagire
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 225
- Next by thread: Comunicato rete controg8
- Indice: