Re: Nasce una nuova Colombia: aiutiamola a crescere! CON L'EQUO E SOLIDALE????



IL CAVALLO E LA GRAMMATICA
equo e solidale
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F./PALA
 
 
 
Come non è disgraziato un cavallo
che non sappia di grammatica,
così non è infelice un uomo
senza grande coscienza e giudizio.
[Erasmo da Rotterdam, Elogia della follia]
 
 
A dire il vero, solo il termine latino classico equus sta a significare “cavallo”, per il più comune genere di “equino”, mentre, per l’“equità”, il concetto di “eguale” o “uguale” compare, nel latino molto più tardo, con la parola aequus, di cui peraltro non è accertata l’origine. Senonché, forse proprio l’accezione “equestre” avvicina i due termini. Infatti, se con ex equo si designa il combattimento tra contendenti, messi “alla pari” perché tutti a cavallo, con ex aequo si vuole indicare semplicemente l’essere “alla pari” in ogni circostanza, però con molti e ripetuti riferimenti a combattimenti (per lo più equestri) o accampamenti, ecc. Ora, lasciando da parte questioni etimologiche, può suscitare una certa attenzione questo curioso doppiosenso terminologico presente nella grammatica italiana. Ma la “grammatica” che qui si vuole discutere, e che è scarsamente nota, è quella economica, la cui non conoscenza, tuttavia, non fa “infelice” l’econo­mista, così “come non è disgraziato un cavallo”, secondo la pungente satira erasmiana. Fuori dal pretesto “equino-grammaticale”, occorre invece discutere a fondo sul significato di ciò che è divulgato sotto il nome di “equo e solidale”, sulle sue origini storiche, sulle sue implicazioni teoriche, sulla dettagliata analisi delle sue connessioni con il denaro e l’eticità, e in definitiva sulle sue contraddizioni.
Che si sia, ancora e soprattutto oggi, completamente immersi in un sistema economico sociale capitalistico, dove la forma imperialistica di esso è trionfante sull’intero mercato mondiale, non dovrebbe destar dubbi. È proprio all’apogeo del trionfo – per stessa definizione di “apogeo” – che ha inizio la discesa, la decadenza. Questa è la ragione per cui è all’ordine del giorno un vasto dibattito sul se, il come e il perché, possano modificarsi le attuali condizioni storiche. Senonché sembra un sogno irrealizzabile cercare di cambiare qualche dettaglio, sia pure euristicamente importante, senza trasformare l’intero processo reale da cui quei dettagli dipendono in tutto e per tutto. Supporre, anche soltanto supporre, che si possa perseguire l’equità entro il modo di produzione capitalistico – che per sua stessa definizione è basato sull’ineguaglianza sociale dei diritti di proprietà, riservati ai non produttori, mentre a questi ultimi spetta l’assoluta privazione di tutte le condizioni oggettive della produzione, che li costringe a mercificare con la vendita anche la soggettività della loro capacità di lavoro – sarebbe come ricercare l’elasticità nei cristalli, o anelare alla percezione di un odoroso profumo in prossimità di una discarica d’immondizia. Nondimeno, la possibilità di “nuovi mondi”, di maggiore “giustizia”, di uguaglianza, diritti, ecc., non costituisce affatto una novità, e non c’è politico o sognatore che non l’abbia pronunciata. E coloro tra i “politici” che non erano o sono mestatori (i più), declamatori opportunisti di parole vuote buone per tutti, furono detti utopisti, e così spesso tuttora vengono chiamati.
Proprio in riferimento a questi ultimi, tuttavia, la storia ha emesso le sue sentenze. Più di un secolo e mezzo fa Engels e Marx già lo sapevano. “L’importanza del socialismo e comunismo critico utopistico sta in rapporto inverso allo sviluppo storico. Nella stessa misura in cui si sviluppa e prende forma la lotta tra le classi, perde ogni valore pratico, ogni giustificazione teorica, quell’immaginario sollevarsi al di sopra di essa, quella lotta immaginaria contro di essa. Quindi, anche se gli autori di quei sistemi erano rivoluzionari per molti aspetti, i loro scolari costituiscono ogni volta sètte reazionarie. Cercano conseguentemente di smussare di nuovo la lotta di classe, e di conciliare gli antagonismi. Continuano sempre a sognare la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, la fondazione di "colonie in patria", e per la costruzione di tutti questi castelli in aria debbono far appello alla filantropia dei cuori e delle borse borghesi. A poco per volta essi cadono nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori, e ormai si distinguono da questi solo per la fede fanatica e superstiziosa nell’efficacia miracolosa della loro scienza sociale”.
Un’analisi circostanziata della presente vigenza del mercato mondiale unificato dal capitale transnazionale, e del suo funzionamento concettuale e pratico, è indispensabile per far luce sulle contraddittorie circostan­ze che presiedono a una non deperibile e fallimentare trasformazione sociale. Così, alla luce del tragico fallimento storico sarebbe altrettanto assurdo pensare oggi di ripercorrere, tali e quali, dogmaticamente, le strade della cosiddetta costruzione-del-socialismo. Si tratta, piuttosto, di interrogarsi seriamente sulle cause oggettive del collasso delle società di transizione dal capitalismo al “comunismo” (di errori soggettivi ce ne sono stati, e molti, ma non possono mai essere visti come la causa ultima di quel collasso). Per far questo non si può che indagare a fondo sulla conoscenza delle contraddizioni dell’imperialismo del XX sec. e di quelle società che nel mutevole mercato mondiale capitalistico erano, volenti o nolenti, inscritte. Solo in una fase avanzata di transizione so­cialista – sotto la cosiddetta “dittatura del proleta­riato” che sia subentrata alla precedente “dittatura della borghesia”, se di classi e di permanenza della loro conflittualità è opportuno parlare – sarebbe lecito presumere che simili obiettivi e nuovi rap­porti di potere siano proponibili e attuabili.
Le cose non stanno molto diversamente per i vari tentativi riformistici utopistici qua e là sperimentati. Anzi, in quest’altro caso quelle “magnifiche invenzioni” risalgono addirittura a un altro secolo prima, mettendo così a disposizione anche tutto il XIX sec. per sondare i motivi reali dei successivi fallimenti. Il dato di fatto è che – sotto il predominio mondiale del modo capitalistico di produzione – nessuno dei tentativi utopistici è andato a buon fine, durando ciascuno pochissimo tempo (pure assai meno dei vani tentativi socialisti). E in quelle circostanze si ha a che fare con parole d’ordine che rimandano agli obiettivi della piccola borghesia. Utopisti come Saint-Simon, Fourier, Owen e diversi altri nella prima metà dell’ottocento portavano comunque una carica innovativa, sia pur profondamente contraddittoria, che almeno astrattamente precorreva i tempi. In particolare, sia chiaro che Robert Owen – al quale qui si fanno maggiori riferimenti storici, per il suo vano ruolo “premonitore” (anche terminologico) sulla questione dello “scambio equo” – merita, nonostante tutte le incongruenze delle sue visioni, un certo qual apprezzamento e rispetto per l’epoca in cui agì.
Come spesso accadeva, e troppo spesso ancora accade, le parole d’ordine piccolo-borghesi prospettano rivendicazioni “radicalmente” anticapitali­stiche. Senonché simili risultati sarebbero perseguibili soltanto in una società in cui i rapporti di potere fossero già stati sovvertiti. Non viene, cioè, neppure posta la questione se ci sia la forza neces­saria per quel sovvertimento. Cionondimeno, si sa (o si dovrebbe presumere) di essere in un contesto e in una fase in cui la capacità di lotta, non solo dei “comuni­sti”, ma anche di semplici oppositori o “movimenti antisistema”, è ridotta all’os­so. Personaggi tipo O’Connor o Rifkin, o tanti altri della stessa risma, non tengono minimamente conto del fatto che se i lavoratori avessero tanta forza da uscire dalla sfera del mercato (mondiale) tanto varrebbe usare quella forza per liquidare il capitalismo stesso. Insomma, si vedrà come – teoricamente e storicamente, per fondare con solidità anche qualsiasi iniziativa pratica – ben altri rapporti di forza è necessario stabilire per provare a imporsi alla “logica della merce”. Un’accu­rata verifica storica mostrerà che, a maggior ragione per gli èmpiti volontaristici tutti interni al sistema economico sociale esistente, non c’è niente di nuovo sotto il sole.
Non è in discussione la scelta individuale di agire “volontariamente” (e a volte anche con venature di evidente romanticismo economico): questa si può riscontrare senza dubbi e può anche rivestire, in certe circostanze, una funzione in qualche maniera esemplare; del resto, chiunque – nelle società in cui predomina la forma salariale del lavoro, sottomesso al capitale come modo di produzione – decida di fare qualcosa contro il sistema prevalente (in associazioni di vario genere culturale o sociale, in organizzazioni sindacali o in partiti politici, in giornali, riviste o spettacoli in odio al potere, ecc.) deve necessariamente attuare ciò senza poter pretendere di ricevere una retribuzione qualsivoglia, cioè agisce volontariamente. È di un certo significato ricordare quanto asserivano, un po’ sconsolatamente, Marx e Engels, nella loro critica alla società capitalistica quali sostenitori della teoria del valore fondata attivamente sul lavoro umano sulla cui sola base si possono determinare i costi. La contraddizione personale faceva sì – questo essi stessi dicevano – che proprio per il loro lavoro (lavoro politico, in realtà) la “teoria del valore” non poteva applicarsi, dato che quel loro lavoro aveva costo nullo, essendo gratuito in quanto erogato volontariamente.
Ma, se si guardano in generale, le cose stanno diversamente. Un conto è considerare il comportamento personale, anche se oggettivamente richiesto dalle circostanze, altro è presumerlo e farlo ritenere accettabile e significativo sul piano universale. Ossia, detto altrimenti, l’errore, sovente drammatico, sta nell’attribuire a una qualsiasi attitudine circoscritta e limitata localmente una valenza che essa non può concettualmente avere perché non ripetibile dalla totalità delle persone che si trovino nelle medesime circostanze: la mera somma del generoso agire di tante persone è “cattiva infinità”. La volontà non riesce mai a piegare l’oggettività, se questa non presenta le condizioni necessarie richieste. Essa può esprimersi in un’attività significativa e utile (i diciassette anni trascorsi da Marx alla biblioteca del British museum per scrivere il Capitale possono essere un brillante esempio), ma da sola, in quanto tale, non può mai “cambiare il mondo”. È perciò grandemente nocivo mistificare la realtà, facendo credere che ci sia invece la possibilità di cambiarlo, e che simili azioni volontarie possano costituire la strada maestra da seguire. Semplicemente, basta assegnare a ogni azione i suoi scopi, guardando cinicamente in faccia la realtà, senza nasconderne i limiti effettuali dovuti a quell’ina­nità che le impediscono di raggiungere una valenza universale che non le può concettualmente competere.
 
Il problema posto – del cosiddetto “commercio equo e solidale” – va perciò inquadrato entro il modo capitalistico di produzione. Ovviamente, codesto problema ha una rilevanza circoscritta, ed è collegata a una serie importante di altre questioni. Ma qui esso è messo al centro dell’attenzione, sia pure per motivi contingentemente specifici, e quindi gli si può riservare un ruolo emblematico. Anzitutto, va anticipato che il problema stesso assumerebbe un carattere assai diverso se si trattasse di esaminarlo alla luce del predominio di un modo associato di produzione; e tanto maggiormente si diversificherebbe quanto più ci si addentrasse nella cosciente socializzazione della produzione e della vita. Dunque, per quanto si dirà sull’intero tema, è bene non dimenticare mai di riferirsi sempre alla forma produttiva dominante, che informa di sé tutto ciò che la circonda fintanto che essa rimanga egemone. Trascurare siffatta circostanza vuol dire semplicemente travisare l’intera faccenda, scambiare le cause con gli effetti e, in definitiva, confondere le acque.
Innanzitutto sul piano della teoria – dalla categorizzazione richiesta, alla totalità dei concetti che concretamente ne integrano la formulazione astratta – la funzione di ogni forma di commercio, di scambio, non può che essere riferita alle modalità in cui possa essere prodotta la generalità di quanto si voglia scambiare. Poi, ma in stretta connessione con la teoria, diviene indispensabile vedere, non la mera cronaca dei fatti, bensì la storia di quei concetti e le circostanze pratiche, economiche e sociali, che ne hanno reso possibile il pensiero. L’evoluzione di quella storia, pertanto, ne accompagna la trasformazione concettuale entro le categorie che la determinano. Quindi, con l’e­stensione illimitata, quantitativa e qualitativa, del capitalismo, le esperienze di un commercio per sua destinazione limitato e vieppiù ridotto non possono che esserne sovrastate. Si capisce perché, allora, i “pionieri” utopisti potessero coglierne, sia pur ambiguamente, le contraddizioni, mentre i loro epigoni moderni, non capendo il continuo e rapido mutamento di quelle circostanze generali, siano sempre più destinati a scivolare inevitabilmente nella “reazione” storica (in senso etimologico).
Un importante termine di confronto – peraltro suffragato anche dall’esperienza storica di molti protagonisti, a cominciare da quel Robert Owen, l’utopista inglese nato più di 230 anni fa, di cui si dovrà principalmente parlare – è fornito dall’esperienza delle cooperative. Come si avrà maniera di constatare, il rilievo esemplarmente più significativo è fornito dalle cooperative di produzione; tuttavia, l’esperienza oweniana cui qui si farà riferimento, direttamente connessa ante litteram al “commercio equo e solidale” è quella più riduttiva delle cooperative di consumo, relative allo scambio, al commercio, appunto. In effetti, la cronaca storica annota che fu proprio Owen il primo, nel lontanissimo 1832, a tentare vanamente l’esperimento di tali ba­zaar di consumo, così li nominò, che furono da lui stesso chiamati “equitable market”. Fu lì che cercò di far praticare uno scambio equo sulla base di “buoni”, corrispondenti al contenuto di lavoro dei prodotti da scambiare, al posto della moneta legale. Karl Marx, che pure apprezzò lo sforzo utopico di Owen (data l’epoca), non poté fare a meno di dire che un simile buono “non è denaro più di quanto lo sia un biglietto per il teatro”.
In effetti, come si vedrà tra breve, quel lavoro chiamato a prendere il posto del denaro, della moneta legale, è lavoro che non può mai diventare denaro, trasformarsi in esso, a meno che intervenga una banca a compiere tale operazione. Questa è una grande incongruenza, non soltanto pratica ma anche teorica, in un sistema economico che deve fare i conti con il mercato capitalistico dominante, il quale non è affatto insidiato da simile forma alternativa di scambio. Si può capire, entro certi limiti, l’illogicità di codesta iniziativa, se si pensa al periodo di grave crisi economica allora attraversata dall’Inghilterra (si veda più avanti). Il 1932 fu lo stesso anno in cui, a séguito di rilevanti movimenti nella società, venne approvata la “legge di riforma” parlamentare che infine segnò la sconfitta dei proprietari fondiari contro gli industriali, appoggiati dalla piccola borghesia e nella circostanza dai lavoratori. Tra l’altro, la lotta contro il monopolio aristocratico del gold standard era iniziata già nel 1819 (gli anni 1810 avevano segnato un altro periodo di crisi interna; il movimento dei “luddisti” per la distruzione delle macchine fu di allora), e ciò fornisce almeno una motivazione e­pocale per il tentativo utopistico di sostituzione del denaro direttamente col lavoro rappresentato da cedole.
Senonché la presenza egemonica del denaro rappresentato da moneta legale – fosse legata all’oro oppure no, comunque non riducibile immediatamente a lavoro – non poteva che imporre il ricorso al sistema bancario. Per quella ragione, lo stesso Owen dovette immediatamente introdurre, a fianco del mercato, anche la cosiddetta “equitable labor bank” per consentire la conversione dei ... “biglietti di teatro” in moneta legale. La cosa conteneva una palese incoerenza, le cui conseguenze sono qui rilevanti in generale, e non tanto però per la peculiarità di siffatti “buoni di lavoro” (adesso, e da molto tempo, essi non vengono neppure ipotizzati; li ripresero solo Pierre-Joseph Proudhon a metà del XIX sec. e Silvio Gesell, oscuro nume tutelare di John Maynard Keynes, dopo la I guerra mondiale) [non potendo dilungarsi su tutti tali temi, qui soltanto paralleli, e peraltro già ampiamente considerati, si rimanda a quegli scritti reperibili nella pagina di rete del dipartimento a http://dep.eco.uniroma1.it/~pala/testi.htm; per il primo, in particolare, al numero 193, Il prekeynesismo proudhoniano; per gli altri due, su tale specifica questione, al numero 135, Il lord, il profeta e il rozzo proletario].
La loro importanza comparativa attuale risiede, come si capirà meglio nel corso dell’esposizio­ne, nel fatto che – in un mercato, in estensione internazionale, dominato dal modo di produzione capitalistico, sempre più tendente verso forme monopolistiche e finanziarie – ogni operazione di scambio, prima o poi, de­ve confrontarsi col denaro mondiale, e con le valute (soprattutto pregiate) di riferimento. Non per caso, partendo dalla contraddittorietà di codesta constatazione, sia Owen che Proudhon, sia Gesell che Keynes, dovettero accedere a una curiosissima e inconsistente teoria dell’interesse, che lì portò tutti inevitabilmente a prospettarne una sollecita scomparsa tendenziale ... entro la dominanza del modo di produzione capitalistico.
La fisionomia teorica della questione, infatti, ancora oggi nei tentativi di “scambio equo”, si presenta così. Buoni lavoro o meno, la finalità di siffatto scambio vorrebbe partire dalla possibilità di sopprimere tutti i costi di intermediazione non necessari, che farebbero alzare i prezzi. Già Owen riteneva, appunto, che la cattiva distribuzione della ricchezza fosse causata dalla presenza di troppi intermediari. Pensava “prekeynesianamente” che una conseguente crescita del consumo popolare, più un virtuoso risparmio, bastassero a far sviluppare produzione e accumulazione. Senonché c’è da chiedersi, in una situazione di crisi e ristagno dell’ac­cumulazione, che cosa mai potessero consumare e risparmiare i lavoratori e dove e in che potessero investire i capitalisti. Adam Smith aveva in precedenza scritto che è la ripresa dell’accumulazione, che può avvenire solo se prospetta profitto, a causare anche l’aumento dei salari, i quali a loro volta potrebbero tradursi in maggior consumo popolare e risparmio. Ritenere di poter procedere a ritroso, facendo svolgere a questi ultimi effetti l’improprio ruolo di cause della ripresa, è puro non senso.
D’altra parte, la ricerca della riduzione o eliminazione dell’intermediazione, e dei suoi costi superflui, è già portata avanti, appena è possibile, proprio dal capitale produttivo, soprattutto in crisi. Perché faccia ciò è abbastanza evidente, in quanto suo obiettivo unico è la massimizzazione del profitto. Ora, lo “scambio equo” di Owen o il più recente “commercio equo”, più o meno solidale, puntano ugualmente a ridurre a zero il profitto commerciale (degli intermediari superflui, quello che una volta si chiamava anche profitto dei “compradores”). Ma ciò, in un mercato in cui i prezzi sono determinati dalla concorrenza capitalistica, equivale a dire che la quota sottratta all’intermediazione superflua non può scomparire, ma deve rifluire nel profitto industriale. L’illusione solidaristica sarebbe invece, con l’impossibile annullamento del profitto nel mercato capitalistico, di stabilire un rapporto commerciale “senza sfruttamento”. Inoltre, come si preciserà poi, anche i prezzi dello “scambio equo”, volendo includere altre forme di finanziamento e sostentamento oltre a essere gravate da perdita di concorrenzialità ed efficienza tecnologica, tipiche del capitale, saranno più alti di quelli di mercato; l’unico spazio che resta è la nicchia di mercato, più o meno certificato da un marchio di qualità.
Il problema da spiegare è sempre il medesimo: capire da dove vengano e dove vadano quei profitti. È intanto significativo chiarire subito il senso che assume il tentato ricorso alle cosiddette “banche eque di scambio”, quelle presunte senza interessi o quasi (lasciando al séguito della presente analisi spiegare perché esse non potessero tenere il passo con le banche ordinarie chiamate a fornire il denaro riconosciuto). I cooperatori – o si chiamino come si vogliano i partecipanti allo scambio equo – dovevano paradossalmente ricorrere, però, proprio a un’intermediazione in più non necessaria, quella bancaria, per convertire buoni lavoro in moneta. Ma anche oggi, che tale passaggio non è previsto, la soppressione dell’intermediazione – ammesso che già non sia fatta concorrenzialmente dal capitale stesso – non può eliminare la presenza del sistema creditizio e bancario per la gestione monetaria (prestiti e interesse, flussi di cassa e tassi di sconto). La difficoltà di finanziamento costituisce, infatti, uno dei maggiori ostacoli per i produttori locali protetti dall’“equità”.
Anche prescindendo per un momento da queste insolubili questioni monetarie, l’annullamento dei costi (e dei profitti) dovuti a quella intermediazione, presenta categorialmente due casi (limite) possibili: a. i costi eliminati rimangono tutti al profitto industriale, e i salari dei produttori restano uguali; in tal caso i capitalisti possono così riaccumulare ed espandere l’attività (sovraproduzione permettendo, il che in periodi di crisi mondiale neppure è dato); b. senza quei costi è possibile l’aumento dei salari dei produttori sottomessi al capitale dominante; ma in questo caso il profitto industriale resta insufficiente, come era prima dell’eliminazio­ne di quei costi di intermediazione, e il capitale non è in condizione di accumulare; così rimane la crisi come prima, e i salari crollano di nuovo. Il denaro necessario all’accumulazione – denaro “fresco”, come si suol dire – non si crea dal nulla, e da qualche parte deve pur scorrere. L’ignoranza della “grammatica” economica fa sognare e ritenere che il problema della formazione della ricchezza monetaria (astratta) in un mondo dominato dal capitale non esista, esorcizzandolo come don Ferrante fece con la peste. Sicché basterebbe economizzare da una parte, senza osare chiedere che cosa intanto succeda dall’altra: il nulla diventa positivo!
Il problema sta nell’esaminare la cosa nella sua totalità. In tutte le esperienze di equità nel consumo – che tanto ricorda l’avvio dell’affermazione del principio che poi sarebbe stato falsamente chiamato della “sovranità del consumatore” [cfr., nella citata pagina di rete del dipartimento, il numero 199, Sovrano di un regno del nulla] – si tace di che cosa avvenga nel frattempo nella sfera della produzione della ricchezza. Per giunta questa, nel mercato capitalistico imperante, avviene nella specie del valore (con plusvalore). L’economia politica di inizio ottocento era fin da allora incentrata sulla distribuzione del reddito anziché sulla produzione, che è innanzitutto produzione di capitale. Qualora ci si limiti a una mera questione distributiva – e il consumo, dipendendo da un semplice scambio, è questo – non si possono intaccare minimamente i rapporti di proprietà esistenti, e quindi le condizioni della produzione stessa. Anzitutto, il periodo successivo tutto ricomincerebbe alla medesima maniera. I rapporti di classe comprendono in essi la proprietà di alcuni (pochi) di contro all’espropriazione degli altri (molti). Una distribuzione “equa” non può cambiare questo stato di cose, se non per un attimo fuggente. Quella che oggi, a es., portandolo nientepopodimenoche da 1 a 2 $ al giorno, potrebbe raddoppiare il reddito di due miliardi di persone che si riappropriassero della ricchezza delle prime 500 famiglie al mondo [!], non può risolvere il problema.
Anzi, confondendo il reddito con il capitale, e quindi con l’accumulazione potenziale che questo implica, verrebbero meno anche le condizioni di una possibile riproduzione successiva. Ma se invece si considerano le condizioni sociali complessive della produzione – la produzione specificamente intesa nella sua unilateralità, e i susseguenti atti di circolazione – la sola distribuzione del reddito risulta incapace di spiegare quel­l’aumento netto di ricchezza, in qualsiasi forma appaia, che non può che derivare dalla produzione. Pertanto, non c’è scambio – tranne quello della forza-lavoro salariata come merce, perché poi il suo uso è del capitale – che possa migliorare le condizioni di qualcuno senza peggiorare quello di altri. E se non è una sottrazione di ricchezza (denaro) ai capitalisti operanti – perché, se di ciò stabilmente si trattasse, vorrebbe dire che ci sarebbero le condizioni per un’espropriazione, eventualmente mascherata, del capitale stesso, e di un tendenziale dissolvimento dell’egemonia del modo di produzione capitalistico – l’intero processo non può che tradursi in una qualsivoglia (o non si voglia) redistribuzione di reddito tra i lavoratori. Quest’ultimo, in effetti, è il “risultato” di ogni semplice circolazione del reddito, come scambio sia “equo” che iniquo.
Ciò che eventualmente può affluire in più nei salari dei produttori disagiati rientra in un sottocaso intermedio dei due casi limite sopra esposti, poiché l’eliminazione degli intermediari superflui, lasciando la piena efficacia al reinvestimento del profitto capitalistico, potrebbe far aumentare parzialmente i salari dei produttori soltanto a scapito del “pagamento” della forza-lavoro impegnata nello scambio, sia “equo” che iniquo. In realtà, si incrociano due tendenze. Da un lato, si estrinseca tutto l’aumento dello sfruttamento del lavoro commerciale nei mercati di consumo, dal grande commercio fino al “volontariato” vero o falso; ciò vuol dire che chi facesse veramente “volontariato” potrebbe disporre di entrate in altre forme di reddito (sarebbe l’“e­lemosina”, che in greco sta a significare elargizione mos­sa da pietà, come trasferimento solidale di reddito). Dall’altro lato, diviene definitivamente dirimente il fatto che il miglioramento tecnologico, soprattutto col macchinismo da parte della concorrenza capitalistica, abbassando notevolmente i costi di questa, spinge irrimediabilmente lo “scambio equo” verso il baratro. Quest’esperienza è proprio quella finale vissuta dai ba­zaar di Owen: il necessario ricorso al credito, al denaro bancario, ne ha costituito il colpo di grazia. Quest’ul­tima questione, relativa alla gestione monetaria, ha perciò rappresentato, e rappresenta tuttora, un nodo del presunto commercio equo insuperabile nel sistema capitalistico. L’altro è riconducibile al lavoro volontario. Si vedranno entrambi, confrontando poi l’e­sperienza del consumo solidaristico con altre forme, successivamente sviluppatesi, di organizzazione delle cooperative e del sindacato dei lavoratori.
 
La ricerca dei fondi, con cui finanziare solidaristicamente la pretesa equità nella società capitalistica, è il nodo dell’intera faccenda. La gestione monetaria connessa inevitabilmente a tale ricerca diviene, come accennato, il primo punto di convergenza, il tormentone di tutte le contraddizioni che essa comporta. Si è detto che, a questo livello di analisi teorica, non è più rilevante la circostanza se si tratti di moneta fittizia (buoni-lavoro come “biglietti di teatro”) o di moneta legale (emessa sulla base del denaro come capitale). È implicito che gli utopisti prima e i loro postumi imitatori ritardati – socialisti piccolo-borghesi e borghesi o fantasticatori di improbabile giustizia – abbiano fatto ricorso a impraticabili cedole, tra loro molto simili, simulacri del denaro vero. E dopo il grande precursore Owen, come già accennato, il curioso esperimento fu ripreso, in varie maniere, da imitatori quali Proudhon, Gesell e Keynes. Qui conviene limitarsi ad alcune considerazioni sul tasso di interesse prospettate, alla metà del XIX sec., da Pierre-Joseph Proudhon, colui che, a detta di Engels, dopo aver abbandonato Hegel, non capendo nulla della filosofia tedesca,”vive nel suo proprio cadavere fino all’ultimo stadio della putrefazione”. Dovendo, in una maniera o nell’altra, con o senza “buoni”, accedere al sistema bancario, è spontaneo per gente del tipo di Proudhon riversare tutte le responsabilità sulla banca centrale che, col suo monopolio, determinerebbe un aumento “artificioso” del tasso di interesse.
Con la trovata proudhoniana di quella che lui chiamò “liquidazione sociale”, si perverrebbe a una “sana” società borghese” (come ironizza Marx). Il fatto è che si prospetterebbe così la permanenza del modo di produzione capitalistico senza capitale: è, per dirla col poeta, “la contradizion che nol consente”! In Proudhon, per essere precisi, si tratta di un capitalismo infimo, piccolo piccolo, che non ha neppure quel respiro da rivoluzione industriale e meccanica che pur caratterizzava la precedente esperienza oweniana. Presso Proudhon, tuttavia, le cose appaiono nella loro forma più semplice, per cui è più agevole capirne le incongruenze. Tutto è riportato allo scambio in quanto tale che, essendo visto come “operazione puramente morale”, rifluisce im­mediatamente nella ricerca di una sua “equità”. Secondo lui, per i lavoratori il socialismo equivarrebbe al libero scambio, alla concorrenza di cui si ignorano le immanenti conseguenze capitalistiche.
Dice che “il commercio è una forza economica, stimola il consumo e pertanto [!] è una causa di produzione, principio creatore di valore; l’atto metafisico dello scambio, al pari del lavoro [!], produce ricchezza e realtà”. Facendo tali impropri, ma purtroppo attualissimi paragoni tra lavoro e consumo, per produrre “realtà”, senza chiedersi quale sia la classe sociale che dispone effettivamente del capitale, si può presumere che “la fortuna del commerciante è altrettanto legittima di quella del lavoro”. Conferma il “socialista” Proudhon stesso (ma come tanti suoi inconsapevoli epigoni moderni) che “nella produzione artigianale tutti sono liberi, uguali”. Sicché a interesse zero, la borghesia diventa classe rivoluzionaria, facendo infine sparire la scissione tra borghesia stessa e proletariato. Egli definiva “felicità rivoluzionaria” l’iniziativa della classe borghese che avrebbe condotto alla sua “fusione” con la classe proletaria; riassorbire apparentemente nella borghesia il proletariato – commentava Engels – era frutto di giochi di bussolotti pseudo-hegeliani.
Ma fu già l’utopista Owen che si schierò apertamente contro la lotta di classe, vedendo anche lui i capitalisti come “produttori”, in quanto erogatori di “lavoro”. Un secolo più tardi, lord Keynes ripeteva le stesse cose, sulle tracce peregrine di Silvio Gesell, il quale grottescamente scriveva che “per "lavoratore" s’intende qualsiasi persona che viva del suo lavoro. Contadini, artigiani, operai, artisti, preti, soldati, re [!!], sono tutti lavoratori. Nel si­stema economico attuale in antitesi al lavoratore c’è solo il rentier, il cui reddito consiste unicamente di interessi e che vive esclusivamente del lavoro altrui”. Sembra di aver riascoltato qualcosa del genere anche in tempi assai più recenti. Perciò Owen e “tutti quanti” predicavano collaborazione tra imprenditori e sindacato dei lavoratori, al fine di “riconciliare gli interessi di capitale e lavoro”, come lui stesso fece scrivere sulla sua lapide tombale. Il profitto, nella misura in cui debba esistere, è in ogni suo aspetto reso indifferente, sia esso industriale o commerciale, ed è dagli economisti equiparato a una forma di salario.
L’eccedenza del profitto sull’interesse è stata sviluppata nell’apologetica intenzione di rap­presentare il profitto non come plu­svalore, ossia come lavoro non paga­to, ma come salario del capitalista stesso per il lavoro reso. Al che allo­ra si contrapponeva, da parte dei so­cialisti, la rivendicazione che il pro­fitto venisse ridotto in pratica a ciò che esso pretendeva di essere in teo­ria, cioè al semplice salario di sor­veglianza”, annotava Marx. Sicché il “giusto prezzo” è dato dal costo di produzione più il “salario” del lavoro del commerciante; con esso si costituisce il “buon mercato”, contro il rincaro delle merci e l’arbitrio dei prezzi. È per tal via che si instaura uno “scambio equo”, dato che i proudhoniani consumatori permeati da simile “equità” sono a loro volta, nelle associazioni di “lavoratori”, anche produttori [si pensi a quanto in séguito formulato dal liberalsocialista Léon Walras, figlio di Auguste contemporaneo di Proudhon, nella classificazione marginalistica di ricchezza e risorse per i manuali di economia adottati in tutto il mondo]. Osservò Engels che c’era qui “un aspetto più carnale: il giusto prezzo dei bottegai – quattro franchi, monsieur, è il prezzo più giusto!”.
Ma qui, come volgarmente si dice, casca l’asino. Si torna alla domanda iniziale, in precedenza più volte posta: da dove proviene il denaro che, grazie allo “scambio equo”, può aumentare i salari dei produttori diretti senza colpire i “profitti” del “lavoro” di industriali e commercianti? In cambio di un prezzo equo e di una garanzia di buona qualità, il nuovo stato deve garantire agli imprenditori un guadagno certo e un fatturato. Il capitale, come modo di produzione dominante, c’è e non c’è: c’è o non c’è? I rapporti di proprietà (e di classe) non sono definiti, come le condizioni del loro passaggio tra industriali e associazioni di lavoratori. Ecco, allora, come il nemico da battere non debba essere individuato nel “profitto” [la teoria ancora oggi assolutamente dominante, ancorché obsoleta, predica che, al di là della sua presunta componente di “lavoro”, il tasso di profitto in equilibrio sarebbe zero, e chiama questo “punto di fuga” perché in quel punto il costo di produzione (compreso il “salario” del capitalista!) sarebbe uguale al prezzo di vendita, spingendo alla “fuga” di quanti non avessero “profitto” zero: resterebbe solo l’interesse]. Dunque, il capro espiatorio è additato nel denaro (quello vero e sonante) e nell’interesse, o meglio nel tasso d’interesse.
Così i capitalisti proprietari puri, sterilizzati astrattamente come tagliacedole parassiti, che vivono di rendite finanziarie, in una veste completamente e artatamente scissa dalla classe capitalistica cui appartengono, vengono individuati come percettori di interesse, i quali lentamente sono destinati ad annientarsi. Owen parlava di rinuncia volontaria al­l’interes­se, confidando nell’“abbondanza di capitale”: chi non ricorda la keynesiana “eutanasia del rentier”? Sosteneva Keynes, nella sua Teoria generale: “ho ragione nel supporre che i beni-capitale siano così abbondanti che l’efficienza marginale del capitale sia zero. Questa sarebbe la via più significativa per disfarsi gradualmente di molte delle discutibili caratteristiche del capitalismo. Sebbene il rentier sparirebbe, cionondimeno vi sarebbe ancora spazio per l’impresa”. Bontà sua, Keynes ammette che “questo stato di cose è affatto compatibile con alcune misure dell’individualismo”, ma ciò solo “significa l’eutanasia del rentier, e conseguentemente, l’eutanasia del crescente potere oppressivo del capitalista di sfruttare il valore-scarsità del capitale. L’aspetto rentier del capitalismo costituisce una fase transitoria destinata a scomparire appena questo lavoro sia compiuto”. Inutile aggiungere altro.
Di contro a codesto stato di cose, per gli “equi” non c’è alternativa che proporre una “banca del popolo”, astrattamente definibile come “banca nazionale” di “pubblica utilità”, capace di erogare “credito gratuito”, mandando quasi a zero gli interessi sul capitale. Tale credito gratuito potrebbe essere gestito dalle associazioni volontarie dei “lavoratori” (si ricordi: comprendente tutti, anche i capitalisti industriali e commerciali). L’interesse dovrebbe coprire solo quel minimo necessario per sostenere i costi di amministrazione (a un tasso massimo dello 0,5%). Proudhon, a nome degli “equi e solidali”, indica che la differenza con l’interesse corrente debba essere riservata al rimborso del capitale (sotto forma di annualità, cioè di ammortamento). Rimane sempre senza risposta la domanda da dove possano provenire i soldi in più per affrontare la nuova esigenza: ma forse è richiedere uno sforzo di ragionamento eccessivo a menti limitate quali quella di Proudhon. Per inciso, come conseguenza del quasi annullamento del tasso di interesse monetario, anche gli affitti delle abitazioni dovrebbero andare a zero, trasformando così il vecchio canone in “riscatto”. E la differenza? Semplice: la proprietà passerebbe in “solido” ai comuni che così potrebbero garantire “perpetuamente” [?!], a prezzo di costo, il domicilio ai locatari. Epperò questi ultimi, per effetto delle necessarie manovre sul tasso di interesse monetario, non potrebbero mai diventare proprietari effettivi delle case. È proprio il caso di dire che quello che è stato cacciato dalla porta (di casa) rientra dalla finestra!
Dunque, operando solamente sull’equità del commercio, di oggetti e moneta, si prova a eliminare l’inte­resse, ma non il profitto vero e proprio, perché ciò è impossibile nella misura in cui il modo di produzione capitalistico rimanga dominante. Sosteneva Marx che, finché rimane un rapporto inverso tra interesse e profitto – ossia, nella complementarità della classe capitalistica in lotta fratricida per la spartizione del comune plusvalore – e se diminuisce l’interesse reale, aumenta per ciò stesso la necessità di garantire la restituzione del credito concesso. Sicché, alla fine della fiera, ciò che aumenta è il prezzo del capitale, che, come si sa, per la capitalizzazione calcolata moltiplicando il rendimento per il tasso d’interesse, varia inversamente a quel tasso. Il capitale però poi, per operare, andrebbe comunque investito produttivamente. Se ciò non potesse avvenire, a causa della crisi e delle lotte connesse, si avrebbe allora a che fare con una “confisca” anche se mascherata, la qual cosa richiederebbe ben altre circostanze e forze.
Del resto, col mercato capitalistico imperante, sarebbe pure impossibile azzerare l’interesse a causa del­l’usura; lo stato non potrebbe competere con essa (se non assai parzialmente e assecondandola occultamente in varie maniere, e a meno di “cartolarizzare”, come si dice oggi, il debito pubblico, convertendone l’am­montare, variamente rappresentato da immobili o titoli, in obbligazioni negoziabili in borsa). Tutto ciò equivale unicamente a penalizzare i piccoli capitali (e a maggior ragione imprenditori “solidali” non capitalistici) poiché questi non possono dare le garanzie richieste dal sistema bancario, favorendo così ulteriormente usurai e speculatori. Se invece, per assurdo, tutto il plusvalore andasse, con un presunto profitto “equo”, alla grande industria, facendo sparire ogni interesse e rendita parassitaria, con tale interesse zero come base per la capitalizzazione non potrebbe esserci sviluppo. Diminuendo i costi di riproduzione, a causa del progresso della grande industria moderna, quell’interesse pressoché nullo non sarebbe mai sufficiente per l’ammorta­mento.
Senonché, ieri come oggi, viene suggerita un’altra strada per ovviare agli inevitabili inconvenienti di una indesiderata stagnazione. Ed è qui che la vessata questione del volontariato si ripresenta tragicamente, in un quasi perfetto parallelismo dal XIX al XXI secolo. In termini generali, essa si è già posta, risolvendola come inevitabile azione soggettiva (ancorché di massa) per chi voglia contrapporsi localmente alle regole dominanti: purché ciò avvenga nella piena consapevolezza dell’impossibilità che tale azione, in sé e per sé, sia in grado di sovvertire il sistema, cioè sia universalmente praticabile. Perdippiù, esaurita la vecchia spinta utopica, il cosiddetto volontariato attuale presenta non poche ulteriori incrinature. È cosa nota che sotto la voce “volontariato” nei paesi imperialisticamente sviluppati si nasconda una larga fetta di lavoro salariato sottopagato, precario o “nero”, se non addirittura gratuito, per generoso buonismo o per “elemosina” (nel senso anzidetto), se non addirittura per rabbonire ancestrali e nascosti sensi di colpa. Ma conviene prescindere, al momento, anche da queste ridondanze. Basterà qui ricordare solamente che, già all’epoca di Owen, praticamente la totalità delle iniziative “eque”, intraprese da lui o da altri, si reggeva su cospicue sovvenzioni sue o di finanziatori par suo. Tutte quelle “comunità” utopistiche si basavano, infatti, sul finanziamento da parte di ricchi sostenitori benpensanti (a cominciare appunto da lui stesso).
La sua convinzione “illuministica” era caratterizzata da un inguaribile paternalismo: a lui, come ai suoi colleghi “progressisti”, piaceva frequentare il “gotha” dell’intelligentsia e della nobiltà dell’epoca – filosofi, prìncipi, re e imperatori – tutti fior di reazionari, come lord Lauderdale o un nipote del conte de la Rochefoucauld. Si ricordi, a mo’ di esempio, che la sua più nota impresa, “capitalistica” a fin di bene, quella di New Lanark, annoverava anche la partecipazione di Jeremy Bentham, quel “genio della stupidità borghese”, come l’appel­lava Marx, che aveva mal copiato dall’enciclopedista francese Helvetius la cosiddetta “teoria dell’uti­le”. Non dovette essere un caso che utilitarismo più owenismo precorsero la moderna economia del benessere e del cosiddetto “stato sociale”, con alcune idee che ancora adesso vi si ritrovano. A tale consesso di “eccellenze” Owen chiedeva aiuto materiale e solidarietà morale, nonché intercessione legale presso il parlamento, persuaso di convincerle semplicemente con i suoi buoni motivi.
Cionondimeno, qualunque produzione, anche non competitiva o non richiesta, veniva comunque inizialmente finanziata gratuitamente da Owen stesso, cosicché i lavoratori beneficiari potessero produrre qualsiasi cosa per fare “denaro facile”. La sua fiducia negli altri, nel loro onore e onestà, era pressoché illimitata, il che non poteva che preludere a un collasso inevitabile. Del resto, senza finanziamenti iniziali, anche se poi non rinnovati, nessuno di quegli esperimenti avrebbe potuto avviarsi, dato che non si assisteva a provvedimenti favorevoli a tali iniziative. Anche i suoi soci spesso l’abbandona­vano al suo destino. Restato solo, la prosecuzione del tentativo di “scambio equo” senza oneri monetari, gli costò 2.500 £. L’acquisto di New Harmony, in Indiana (Usa), da u­na comunità di coloni tedeschi luterani lo pagò di tasca sua per 125.000 $. E così via, fino al loro precoce fallimento.
Quando, quasi sessantenne, tornò in Inghilterra, non conservava più niente oltre alle sue illusioni, e morì povero con una piccola pensione privata che gli era assicurata dai suoi figli. Ora, la storia che qui si sta seguendo è arrivata al punto in cui non si sa dove trovare i soldi in più per i lavoratori che producono direttamente le merci da scambiare equamente e solidarmente. Una diversa spartizione del profitto non risolve il problema, pena il ristagno dell’accumulazione o il fallimento delle imprese. La mancata innovazione tecnologica e organizzativa fa crollare sotto il peso della concorrenza capitalistica ogni sforzo parziale a essa contrario, anche per l’inadeguatezza dei soci lavoratori a produrre merci idonee alla vendita su un mercato generale. Quindi, con costi di produzione più elevati della media concorrenziale, potrebbe restare solo, come detto, l’occupazione di una “nicchia” di mercato, purché i prodotti lì portati abbiano realmente una qualità superiore non immediatamente confrontabile con la produzione industriale capitalistica di massa. Ma, in questo caso, non si potrebbe comunque minimamente parlare di possibilità di estensione universale di una tale esperienza all’intero mercato mondiale capitalistico. Rimane un’ultima possibilità, per reperire finalmente il denaro mancante, abbattendo i costi: il volontariato, cioè il “lavoro volontario”.
Non è un caso, dunque, che le più recenti prove di “commercio equo e solidale”, limitandosi programmaticamente e keynesianamente allo scambio per consumo [Attac – acronimo significante, per “associazione tobin tax aiuto consumatori” – insegna], facciano leva massicciamente su detto volontariato. Dalle Ong (più o meno grandi e riconosciute) alle Onlus (più o meno religiose) la mobilitazione di grandi masse di attivisti non pagati, che mettono in gioco la loro generosità, è determinante per la sopravvivenza stessa delle iniziative. A fianco di queste masse che lavorano gratuitamente – per “elemosina”,  come già etimologicamente spiegato – c’è poi uno stuolo di lavoratori salariati sottopagati, alcuni dei quali magari cominciano seguendo un analogo impulso, contentandosi poi di ricevere qualche briciola, comunque insufficiente per le norme contrattuali e di sussistenza, con le più svariate motivazioni “morali” (o moralistiche? – della serie “pulisci l’ambiente” gratuitamente, cosicché gli operatori professionali del settore restino beatamente disoccupati!). Infine, si annoverano anche gli emarginati che, pur di fare qualcosa, sono ridotti ad accettare, magari tramite raccomandazioni parrocchiali o simili, qualsiasi “lavoretto” a qualsiasi salario.
In fin dei conti – giacché di conti si parla – i primi con certezza piena, e i secondi almeno in qualche misura, possono disporre di altre fonti di reddito o di entrata con cui vivere (a volte anche notevolmente bene: tipo le distinte signore liberallaburiste di fine ottocento che amavano fare le “dame di carità”, in quel di Londra, ma solo per non essere costrette a vedere l’indegno spettacolo di scrofolosi mendicanti buttati sui marciapiedi del centro cittadino a elemosinare un penny; sia detto – e non solo per inciso – che quei fabiani pre-laburi­sti, e anticipatori dell’allora giovane Keynes, furono tra coloro che ripresero a piene mani, esaltandole, le proposte di “riforma” proudhoniane: la catena prosegue ...) [cfr., per una sintesi delle posizioni della “società fabiana”, una scheda e un commento a www.contraddizione.it/indice_generale.htm/58.gen.feb.97.zip]. Il terzo gruppo, quello degli emarginati, invece, racimola redditi salariali del tutto insufficienti alla bisogna: e le statistiche rilevano che questi lavoratori sono sempre di più. Il risultato è duplice. Da un lato, tali organizzazioni – in cui la “n” che si nasconde nelle loro sigle, e che dovrebbe stare per “non” (governative, lucrative, e via profittando), sarebbe meglio omettere – registrano crescenti immani guadagni, proporzionali alla loro rispettiva grandezza, prontamente reinvestiti in quelle e in altre meno trasparenti attività altrettanto ... “non” [cfr., di nuovo nella citata pagina di rete del dipartimento, il numero 197, Ong: Organizzazioni Non poco Governative]. Dall’altro, l’abbassamento, se non proprio l’annullamento (si pensi alla cosiddetta “obiezione civile” dei giovani di leva, prontamente scritturati da Caritas e altre organizzazioni) dei salari di tali collaboratori, può anche creare lo spazio monetario per trasferire una parte di tale ricchezza anche ai produttori diretti dei paesi dominati dall’imperialismo.
Dunque, è adesso evidente da dove possa provenire l’ammontare di denaro per pagare meno peggio i “lavoratori poveri” (labouring poor, li chiamavano ai tempi di Adam Smith, in Inghilterra, laddove l’obiettivo ultimo era giungere al “salario cinese” anche in Europa: ci siamo quasi!). Infatti – non potendo incidere significativamente e in maniera permanente sui profitti (industriali e commerciali), non riuscendo contemporanea­mente, in ambito capitalistico per quanto spiegato dianzi, ad azzerare i tassi di interesse (per i costi crescenti del denaro capitale, per l’usura concorrente e, in ultima analisi, per una crisi d’accumulazione che di per sé fa precipitare quei tassi in tutto il mondo allorché la sovraproduzione trionfa) – non ci resta che piangere. Ovverosia, non resta che trasferire – di nient’altro si può discorrere – alcune potenziali quote salariali (di benestanti in crisi d’identità, e quelle più alte o meno basse) alla retribuzione “equa” dei “poveri del mondo”. Insomma, siccome in molti, anche se non tutti ancora, hanno capito che non è cosa appellarsi alla filantropia dei padroni (Owen l’imparò a suo tempo di tasca propria), si impone con una sottile persuasione ideologica una “solidarietà” ai lavoratori dei paesi capitalisticamente più sviluppati; ma altro non è che una solidarietà coatta, la quale nulla ha a che fare con un’organica solidarietà di classe dei lavoratori. Quest’ulti­ma richiede tutto il tempo che occorre per costruire la coscienza – che è conoscenza – della classe lavoratrice, e non può essere imposta per editto o “ricevuta” per fede, come una grazia. Anzi, una simile coazione produce l’effetto esattamente contrario, tarpando le ali a un’autentica e autonoma solidarietà di classe.
Le forme di “associazione” di parte non fanno che rispecchiare la peculiare divisione in classi di ciascuna società di classe. Solo che in società precapitalistiche, e ancora agli albori di quella capitalistica, ogni tipo di associazionismo di lavoratori era vietato. La sua legalizzazione, in séguito conquistata, almeno formalmente (tranne eccezioni esplicitamente dispotiche), corrispondeva parimenti alla “libertà formale” e al­l’“uguaglianza” di tutti i cittadini, compresi i lavoratori, sul mercato e di fronte alla legge. Senonché, tutto il socialismo utopistico e piccolo-borghese, ipotizzando astrattamente e sognando una società di liberi e uguali, ha ipostatizzato tale forma, rincorrendo sùbito la perfetta identità dei soggetti e la società senza conflitti di classe o addirittura senza classi, come si è visto anche presso Owen. Perciò tutti quei costruttori di sistemi più o meno immaginari – e quello di Proudhon rappresenta un campione di oniricità – hanno sempre considerato come negativa qualsiasi forma associativa di classe, “nociva” al proletariato; se ne presumeva la dimensione limitatrice della libertà dei “lavoratori”, proprio perché di parte e non interclassista.
Le “loro” associazioni di “lavoratori”, tra le quali anche quelle di “consumo equo”, coerentemente alla loro visione analitica, come detto, dovevano comprendere tutti i produttori, capitalisti inclusi – fino al ... re – nella veste di “lavoratori”. Esse erano direttamente ispirate al corporativismo medievale, cui più recentemente – in una adeguatamente mutata forma “neocorporativa” – è ricorsa la mistificazione (si passi l’espressione) del “capitalismo sociale” in tutto il mondo. Quelle associazioni (“compagnie operaie”, le aveva pomposamente battezzate Proudhon) avrebbero dovuto fornire al pubblico i servizi utili a prezzo di costo. Le forze produttive moderne della grande industria, sviluppate dal capitale, dovevano essere viste come un sogno da Proudhon, e stavano talmente al di là della sua reale percezione del mondo produttivo che fin da allora, precorrendo inconsapevolmente i tempi attuali, le aveva definite “essenzialmente immateriali”.
Senonché, occorre saper distinguere quale sia, nel contesto sociale considerato, il modo di produzione do­minante. Non è, questo, un problema indifferente. Giacché, mentre nel mercato mondiale capitalistico prevale il conflitto tra grande capitale monopolistico finanziario e il resto dell’apparato economico (capitale minore, separato o artigianale, cooperative, ecc.), nella transizione socialista il fine della produzione, almeno concettualmente, si pone in maniera del tutto diversa. La questione, per quel che può circoscriversi all’interesse prevalente in questa sede, riguarda in particolare il sistema delle cooperative, e, come si dirà, specificamente delle cooperative di produzione. La differenza contestuale fa cambiare completamente l’impostazione del problema e la portata delle sue conseguenze. La prospettiva della produzione associata nelle cooperative muta completamente se deve o non deve fare i conti con il predominio del mercato (mondiale) dei capitali. Il credito, pure, che è fondamentale per gli sviluppi di entrambe le strutture – imprese capitalistiche e cooperative – ha destinazioni quasi opposte, come si è prima accennato, se le cooperative debbano avere a che fare con il sistema bancario del capitale monetario o quello che vorrebbe porre in essere una società socialista.
Per paragone storico, si pensi allo scambio di merci (semplici) sotto il dominio della società signorile – con la città, sia pure in crescita, ancora sottomessa alla campagna – e poi al successivo periodo in cui, divenendo egemone il modo di produzione mercantile, esso stesso si trasforma presentandosi immediatamente come modo di produzione capitalistico, capovolgendo il rapporto tra città e campagna. Per le cooperative della produzione associata dei lavoratori, le cose non vanno diversamente. Finché prevale il mercato capitalistico – delle merci e del denaro – le cooperative, per se stesse, ne vengono schiacciate e non sono in grado di rovesciarlo. Questo è il senso con cui Marx intendeva dire che “le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con l’unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo”. È opportuno vederne bene il significato.
Nel sistema capitalistico l’espropriazione si presenta come appropria­zione della proprietà sociale da parte di pochi individui. Ma non appena l’impresa è esercitata su una scala sufficiente­mente grande, essa può pagare il lavoro di direzione (lavoro, peraltro, che deriva dal carattere antagonistico comune a tutti i modi di pro­duzione, oltre a quello capitalistico, che si fondano sull’antagonismo di classe). Allorché ciò avvenga, il capitalista in quanto tale può scomparire dal processo di produzione come personaggio su­perfluo e rimane unicamente il dirigente come suo “fun­zionario” (del resto, lo stesso borghese, raggiunto il sufficiente sviluppo storico e culturale, la coscienza della sua classe, aveva considerato “superfluo” il proprietario terriero). Così, con lo sviluppo delle cooperative da parte dei lavoratori, al pari (ma all’opposto) di quello delle società per azioni da parte della borghesia, viene meno anche l’ultimo pretesto per confondere il profitto d’impresa – che l’economia tenta di commisurare all’attività e non alla proprietà – col salario di direzione, poiché è inutile che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista. “Un direttore d’orchestra – dice Marx – non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti dell’orchestra, come pure non appartiene alla sua funzione di direttore di occuparsi in qualsiasi modo del salario degli altri musicisti”.
L’importanza di un sia pur breve esame del movimento cooperativo (e lo si vedrà tra breve), e dei suoi limiti, serve per capire nella storia della lotta di classe dove debba collocarsi rispetto alle varie forme di associazionismo, da quello consumistico utopico a quello sindacale e politico. È bene perciò distinguere sùbito la differenza specifica che può e deve svolgere il cooperativismo nella semplice prospettiva di rimanere entro il modo di produzione capitalistico o in quella, assai più complicata, di capovolgerlo. Nel primo caso, si tenta proprio di trascurare il problema della funzione che possono avere le cooperative nella lotta di classe. Questa è una prospettiva riformatrice piccolo-borghese, che si accompagna all’ideologia dei padroni “progressisti”, e conferisce un’importanza alle cooperative in quanto tali; tanto che tende a prevalere sempre più, col tempo, il ridotto ruolo delle cooperative di consumo rispetto a quelle, concettualmente antagonistiche, di produzione. La differenza tra le due forme di cooperative risulta chiara da quanto qui diffusamente esposto; essa rimanda alla dominanza del modo di produzione – capitalistico o socialista – dato che solo con la produzione si crea ricchezza, mentre il consumo non può far altro che redistribuire l’esistente: quest’ultima, quindi, non può neppure indicare le possibili modificazioni della formazione economica sociale capitalistica esistente.   L’esaltazione delle cooperative serve così come sostegno delle “riforme”, senza mai provare a uscire fuori dal capitalismo, fino a quelle relative, per dirla con Lenin, “ai bagni municipali e ai cessi pubblici”.
Nel secondo caso, al contrario, la classe proletaria, pervenendo alla produzione associata, svela il carattere di socializzazione nascosto anche nella produzione capitalistica. Senza il sistema di fabbrica, con l’affida­mento a funzionari del lavoro di direzione, e così pure senza il sistema creditizio, che nascono dal modo di produzione capitalistico, non si potrebbe sviluppare la fabbrica cooperativa. Ma nelle fabbriche cooperative il carattere antagonistico del lavoro di direzione è soppresso, perché il dirigente è pagato dai lavoratori stessi, invece di rappresentare, di fronte ad essi, il capitale. L’antagonismo tra capitale e lavoro è concettualmente abolito all’interno di esse, delineando così le caratteristiche di un nuovo modo di produ­zio­ne. “Le fabbriche coope­rative degli stessi lavoratori – sostiene Marx – sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente”. I difetti del sistema vigente: questa è la contraddizione delle cooperative finché esse rimangono, anche se dal punto di vista della lotta d classe, entro il modo di produzione capitalistico.
Non rimanere o diventare semplici imprese commerciali, se non muta il modo di produzione, è perciò alla lunga, proibitivo. Era corretta opinione pratica anche di Lenin che il pieno funzionamento della produzione e dello scambio futuri possa essere appena preparato ora dalle cooperative, ma “potrà aver luogo solo dopo l’espropria­zione dei capitalisti”. Nella particolarità della storia italiana, dato anche il peso che nel prosieguo degli anni ha assunto il cooperativismo emiliano, può essere interessante riportare il parere negativo che in proposito espresse Gramsci, nell’insospettabilmente lontano 1921. “I riformisti portano come "esemplare" il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che l’Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia”, dove, appunto, l’esperienza mutualistica di quel “socialismo”, se guardata con occhi disincantati, mostrava già tutti i segni del fallimento, ossia del suo pieno inserimento nel sistema capitalistico. Il fatto è che, comunque, anche al di fuori del modo di produzione capitalistico, le cooperative in sé non sono affatto organizzazioni di classe (a differenza, a es., dei sindacati, cui si farà poi un fugace cenno). Era perciò Lenin che metteva “in guardia contro le illusioni cooperativistiche”, poiché, se non se spiega bene il carattere di proprietà privata (che permane sempre, seppure collettiva), è inevitabile prendere una strada sbagliata.
Quella, infatti, fu la strada seguìta anche dal ricordato interclassismo oweniano con il suo fallito tentativo di “scambio equo”. Come si ricorderà – e più avanti, in conclusione, se ne indicheranno le peculiari circostanze storiche economiche – esso fu da lui varato dopo l’abbandono della fabbrica modello di New Lanark e il clamoroso fallimento della comunità americana di New Harmony, al suo mesto ritorno in Inghilterra. La connessione tra i bazaar dello scambio equo e il cooperativismo solidale è evidente. Tralasciate praticamente senza effetto le cooperative di produzione, rimase la pratica, con i bazaar appunto, della cooperazione per il consumo. Attraverso codesto associazionismo per il commercio al dettaglio, ci si illudeva di poter procedere verso una più profonda trasformazione sociale, saltando dalla lotta alla disoccupazione contro il capitale, che come si vedrà era tornato a essere il problema centrale pure in quegli anni 1830, al monopolio della proprietà (privata) nel presunto nuovo ordinamento sociale.
Non diversa, ma ancor più deleteria, si era rivelata la precedente velleità di New Harmony. Non si vuole entrare qui nella cronaca delle visioni di Owen [non è questo l’oggetto specifico della presente analisi, che muove dall’utopia oweniana, e a essa si riferisce, unicamente per la sua assoluta, e misconosciuta, priorità rispetto a cose malamente ripetute nei decenni a venire, fino ad oggi]. La comunità dell’Indiana fu inizialmente costituita come una sorta di cooperativa, anche di produzione, da soci con capitale e soci senza. In tali circostanze, e sia per le caratteristiche peculiari anche di quella cooperativa sia per le concezioni di Owen stesso, era inevitabile la presenza di diritti alla proprietà privata. La situazione si mostrò ben presto come quella di qualsiasi altra città, per cui fu crescente il disinteresse per la “comunità” e il deterioramento di essa. L’illu­sione cooperativistica attrasse presto migliaia di aspiranti (ma solo un terzo del milione esageratamente previsto); tuttavia, in un clima da “corsa all’oro” stile Usa, quasi tutti i soci erano inadatti alla vita comunitaria, tecnicamente incapaci e incompetenti. Sicché, a causa del sovraffollamento e del conseguente caos e insoddisfazione, molti soci si staccarono formando piccole cooperative indipendenti – frutto della “proprietà privata” – e comunità separate, le quali, con un perfetto ordine protestante, erano legate anche da affinità religiose, in attesa del ... “secondo avvento” e del giudizio universale.
L’illusione cooperativistica aveva ripercorso tutte le tappe utopistiche e piccolo-borghesi. Una quindicina di anni dopo, alcuni epigoni di Owen – tessitori sul lastrico riuniti in una società di “pionieri equi” – dettero vita a quello che ancora oggi è reputato il primo esempio organico di cooperativa “moderna” [un primo tentativo nel 1830, sempre tra tessitori, ed un altro nel 1842, erano entrambi falliti per l’eccesso di credito promesso e che non era stato possibile erogare]. Si stava di nuovo in un grave periodo di crisi capitalistica (era l’Inghilterra del 1844), quando quei pionieri fondarono a Rochdale la loro cooperativa, sostanzialmente per il consumo di pochissimi generi di prima necessità. Si trattava, allora, per affrontare i grandi cambiamenti portati dalla rivoluzione industriale, di combattere contro povertà, disoccupazione, imbrogli, adulterazione e, in generale, crisi del potere d’acquisto. I salari erano scesi sotto il minimo, l’inquinamento era devastante, anche in mancanza di assistenza sanitaria pubblica, le statistiche dell’epoca dicono che l’aspettativa di vita a Rochdale era di appena 21 anni. I tentativi di interventi assistenziali pubblici o religiosi erano tutti falliti. In una tale situazione di crisi, la sottoscrizione come anticipazione sui salari settimanali (chiesta agli imprenditori, che rifiutarono) risultò troppo esigua. Fu così formata quella “cooperativa” pilota come società per azioni (1 £ ciascuna), richiedendo le quote ai “soci fondatori” con qualche poca disponibilità in più. Alcuni artigiani, diversi dagli operai tessili, aderirono più per utopia che per fame.
La piccola cooperativa di consumo iniziò le vendite, che però erano ostacolate dalla scarsa quantità offerta, dalla peggiore qualità delle merci e dai prezzi più alti di quelli praticati dalla concorrenza, rappresentata da altri negozianti tradizionali. Il piccolo sostegno che ricevettero i “pionieri” era attribuibile, perciò, solo al generoso riconoscimento della loro onestà e del buon intendimento dell’iniziativa. Se non era “elemosina”, poco ci mancava. Tuttavia, date le caratteristiche dell’“equità” del commercio, a prezzi superiori alla media, la cooperativa riuscì a tenere e rafforzare modestamente le proprie posizioni sulla base della sicurezza della qualità contro le adulterazioni. Perfino Marx, nel Capitale, fece menzione di quella esperienza. Tuttavia, poco dopo, sulla base del suo relativo consolidamento, la storia della cooperativa di consumo ha seguìto le sorti che la stessa teoria marxiana aveva già indicato. La cooperativa di Rochdale formò una spa per l’edilizia popolare; ma i prezzi delle case erano troppo alti per i lavoratori, sicché esse furono acquistate da chi aveva una più alta capacità di spesa. Dal 1870 alla fine del secolo, quella spa, col nome di Cooperative building society, divenne la maggiore affittuaria per i piccoli proprietari. Come volevasi dimostrare.
Il sindacato invece – almeno nel suo concetto, perché la sua effettualità ha mostrato ben altro (forse peggio delle cooperative) – differisce strutturalmente dalle cooperative, come dianzi detto, perché esso è costituito direttamente come associazione di classe, di una parte antiteticamente a un’altra. Forse non è un caso che – dopo ripetuti fallimenti, dai quali comunque, fino alla sua lapide tombale, non ha receduto – il grande precursore utopista Owen abbia provato, dopo il 1834, a spostare la propria attenzione e attività verso la costituzione delle trades union, i sindacati unificati dei lavoratori. I limiti, data l’epoca, erano comunque moltissimi, ma il suo tentativo a quel punto fu quello di riunire tutte le classi lavoratrici in un’unica grande organizzazione. Altri “socialisti” di varie tendenze – come Hodgskin, Thompson, Bray – concepivano, in quella fase contraddittoria, il nuovo movimento di massa dei lavoratori per lottare (in primo luogo, per la riduzione dell’orario di lavoro), e coerentemente spingevano maggiormente verso le cooperative di produzione diretta.
Il vecchio Owen si stupì e si indignò perché, di fronte a tali lotte, la risposta del governo fu semplicemente quella di arrestare esemplarmente i promotori. Nonostante questo, e nonostante le sue sincere proteste, il “cooperatore” Owen non accettò mai la divisione in classi della società, e la loro lotta; arrivò al punto di licenziare per questi motivi, sulla lotta di classe, il direttore del suo giornale cooperatore La crisi. Anche il suo ultimo tentativo di comunità cooperativa (1839) fallì per eccesso di generosità (in esso provò ancora una nuova parziale ripresa dell’esperimento dei “buoni lavoro”, che però finì miseramente nel localismo e nell’isolamento. In ogni caso, la sua visione – astratta e impraticabile quanto si vuole – stava ancora molto al di sopra di ciò che pragmaticamente, praticamente per fame e quindi giustificati materialmente, fecero i suoi epigoni di Rochdale. Ormai, però, tutto il nuovo movimento cooperativo già distingueva tra soci di capitali e coloni lavoratori agricoli (di lavoro), dovendo così necessariamente ricorrere all’assunzione di manodopera esterna (il che provocò successive scissioni nel movimento stesso). Il ritorno finale di Owen a forme personali di spiritualità non stupisce più di tanto; già nel 1862 alcune cooperative oweniane erano sotto la guida del “socialismo cristiano” e, non per nulla, oggi la sua esperienza è citata, forse proprio anche per quel finale rigurgito mistico, sul sito ufficiale dei “focolarini”.
 
Non si dimentichi, tuttavia, una serie di circostanze storiche assai importanti. Le attività sociali di Owen coincisero cronologicamente (a partire dal noto esperimento di New Lanark) con il periodo di Napoleone I, allorché Bonaparte (era il 18 brumaio 1799) rovesciò militarmente il “direttorio” che si era installato al potere dopo la rivoluzione francese. Nel corso degli anni 1810, la conclusione delle guerre napoleoniche, contro la stessa Gran Bretagna, bloccando anche in quest’ultimo paese la richiesta di produzione militare, in una situazione che già dava forti segni di saturazione per eccesso di sovraproduzione, provocò pure lì una crescente disoccupazione e un forte aumento della povertà. Fu a sèguito di tali situazioni, in Gran Bretagna, dell’inizio di crisi capitalistiche drammatiche e ricorrenti – fino ad allora praticamente sconosciute – che, nel 1824, Owen lasciò la fabbrica modello di New Lanark. Finita quell’esperienza, di fronte a una successiva grande crisi, degli anni 1830, avviò quella dei cosiddetti “villaggi della cooperazione”, noti anche come “colonie in patria”. Scopo di tutte quelle iniziative era sostanzialmente di combattere, contando sulla bontà dei benestanti finanziatori, l’enorme peso dovuto a povertà e sbandamento sociale.
La conoscenza di tali cause agenti è determinante. Vennero fornite ai cooperatori le basi di un “auto-aiuto” per una loro minima autosufficienza produttiva [“autoproduzioni”, si direbbe oggi], attraverso il versamento di un reddito che avrebbero potuto ottenere solo in cambio della prestazione di “lavori utili” alla società (ecco dove e perché nacquero i ... “lavori socialmente utili”: ossia, in una grave situazione di crisi postbellica – grande novità di fine XX sec.!) [cfr., nella citata pagina di rete del dipartimento, il n.107 – Oltre la sfera del tuono]. Senonché, scriveva Marx a Engels nel settembre 1868 quali fossero i limiti intrinseci di simile auto-aiuto. Si riferiva allora al­la classe operaia tedesca, ma ciò oggi vale universalmente: “la cosa più necessaria è che essa cessi di fare agi­tazioni con il permesso delle superiori autorità. Una razza addestrata così burocraticamente deve fare un corso completo di "auto-aiuto"”. Ossia, piuttosto sarcasticamente, se un siffatto “corso completo” non sviluppa davvero, in maniera autonoma, la capacità di costruire la coscienza della solidarietà di classe, la “razza burocratica” non può che affidarsi passivamente all’“etero-aiuto” delle autorità.
La considerazione della grandezza di Owen non risiede tuttavia in ciò che ha continuamente provato a fare senza mai riuscirci. Piuttosto va ricercata nel fatto che è stato uno dei primi “moderni” capaci di rompere con quello schema convenzionale dominante che avviluppava tutta la falsa “cultura” dell’epoca. Rileggere e risentire – oggi – le “stesse” identiche proposte, dopo quasi due secoli, come se fossero trovate di una novità eccezionale, è sconfortante. Quindi, tutto sommato, si può ben capire, perché Owen – qui preso, è bene ripeterlo, come emblema e inizio di tutta un’epoca – non abbia poi saputo disfarsi della sua formazione culturale illuministica. La cultura “rivoluzionaria” dei suoi tempi – allorché dominava la cultura borghese – non poteva che fare affidamento e incentrarsi sulla “scoperta” dell’individualismo. Conseguentemente Owen riteneva che per prima cosa si sarebbe dovuto cambiare l’uomo nel suo atteggiamento, migliorare ciascun individuo. La sua etica dell’auto-aiuto partiva da lì, era solo formalmente autonoma, affidandosi al paternalismo eterodiretto fornito da un “aiuto” esterno. Era un suo convincimento fisso che la povertà determinasse incultura (il che è indubbiamente vero, ma occorre capirne le cause ultime), e che quindi le susseguenti cattive condizioni di lavoro portassero a peggiori risultati.
Perciò, confidando nell’intelletto, riteneva sufficiente un’istruzione di massa fin dall’infanzia. L’istruzio­ne popolare data alle classi povere, secondo lui, avrebbe pertanto distrutto l’aristocrazia: senza chiedersi che cosa se ne sarebbe dovuto fare della borghesia rampante, e se, anzi, a un tale attacco contro l’aristocrazia non ci stesse già abbondantemente provvedendo quest’ultima, come poi la storia ha dimostrato. Il “Nuovo mondo morale” fu da lui concepito e scritto nel 1824, subito dopo l’abbandono della fabbrica modello di New Lanark. In quella concezione si ritrova, tal quale, l’affermazione secondo cui un “nuovo mondo” ... è possibile! Questa è la novità odierna!! Il sogno della possibilità di un “nuovo mondo” senza concorrenza [ma il capitalismo dov’è finito: boh?!], era fin da allora basato sul convincimento maniacale di Owen che negli anni 1820 l’intero pianeta fosse già entrato nell’era dell’abbondanza.
È istruttivo capire come queste prime visioni Owen le sviluppò, dall’inizio del 1800, con l’esperienza “ri­voluzionaria” della fabbrica di New Lanark. Lo stretto contatto con la realtà produttiva non lo aveva ancora fatto fuggire per la tangente assolutamente utopica, equa e cooperativistica. Nutriva da sempre, in un paese come il suo, altamente industrializzato per l’epoca, un odio viscerale per la concorrenza, da lui presa a simbolo del capitale che praticava la lotta di classe (ma, suo malgrado, la concorrenza, la lotta di concorrenza, c’era – e c’è – e ha finora vinto; tant’è che Proudhon, di fronte a condizioni economiche più retrograde, preferì tagliar corto e assimilarla tout court in nome del “socialismo”). Cionondimeno, l’applicazio­ne di principi razionali in fabbrica sembrava fornirgli un motivo in più, a causa dei migliori risultati così raggiunti. La sua procedura di rigido controllo dei lavoratori – con quella meticolosa e comparativa osservazione del rendimento su ogni posto di lavoro, che lui chiamava “monitoraggio silenzioso” da parte di supervisori, ma da interiorizzare personalmente – riusciva a procurare più alti profitti con meno ore di lavoro. Parallelamente, centralizzando anche la distribuzione, tutti i più piccoli negozi “concorrenti” privati vennero chiusi.
Insomma, prima dell’utopia astratta e illusoria, si può ora ben comprendere quale fosse la base materiale – la fabbrica della rivoluzione industriale e meccanica – che spinse il genio di Owen al di là delle convinzioni del suo tempo. La fuga in avanti venne in séguito, con il sogno del raggiungimento dell’equità distributiva e consumistica sotto l’egida del capitale “buono” e solidale. Owen pagò di persona il prezzo di quel sogno. Si capisce, senza bisogno di alcuna spiegazione ulteriore, che l’aver parlato abbastanza diffusamente di Owen non significa aver effettuato sulla sua opera una specifica analisi; piuttosto quella sua opera, e la sua stessa persona, rappresentano gli indispensabili punti di riferimento per troppe baggianate odierne, giunte con quasi due secoli di ritardo. Si suol dire che, se la grande storia compare a due riprese, la prima volta è in tragedia e la seconda è in farsa. E di ciò che utopisticamente si predica nel XXI sec., che dire?
Poco dopo di Owen, ciò che si presentava con farsesca tragicità, non mancava di far presto la sua comparsa. Proudhon, come ricordato, è stato un campione di ciò. Al di sotto dell’equità reciproca dello scambio, che in lui nascondeva banalmente una “solidarietà” commerciale di tipo corporativo, non dimenticava mai la “ne­cessità” delle aziende [ci mancherebbe altro!] alla quale occorreva provvedere con l’autotassazione. È qui che introduce quella gran novità odierna del “contratto” di scambio (non dispotico come da lui attribuito a Rousseau) tra liberi cittadini. Precorrendo tempi a noi tristemente noti, Proudhon afferma che “se faccio un contratto con tutti i cittadini, sono sicuro che quella è la mia legge”: ci sembra di aver sentito ripetere di recente simili nefandezze. Sicché, con un colpo da maestro di moralismo, degno dei migliori portavoce governativi contemporanei, conclude che chi rifiuta liberamente il contratto è un “selvaggio”, fuori dalla comune!
Le supposte equità, solidarietà e cooperazione di questo tipo, non dimostrano altro che – su precise documentazioni storiche – il prevalere dell’opposizione piccolo-borghese al capitale: ai bottegai serve solo per salvare se stessi. Se è vero – come scrissero nel 1848 Engels e Marx – che “il socialismo piccolo-borghese ha smascherato gli eufemismi ipocriti degli economisti” (dovuti a divisione del lavoro, concentrazione, stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, miseria del proletariato, anarchia della produzione, crisi, guerra di sterminio tra nazioni), ciò è stato fatto da parte loro soltanto per restaurare i “vecchi rapporti di proprietà” (il corporativismo ne è un esempio): si tratta di un’utopia reazionaria. “Tutta la variopinta genìa di oscuri riformatori desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali per garantire l’esistenza della società borghese”, i suoi rapporti di proprietà, le sue condizioni di vita, “senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano”. Vuole solo “miglioramenti amministrativi che non cambino affatto il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma, nel migliore dei casi, diminuiscano alla borghesia le spese del suo dominio”. C’è molto di diverso nelle attuali alchimie di supponente consumo equo e solidale e distributivistiche?
Un “socialismo” di tal genere diviene facile preda, non già della classe proletaria in lotta, bensì delle ideologie più mistiche e astratte. “Non c’è cosa più facile che dare una tinta socialista all’ascetismo. Il "socialismo sacro" è soltanto l’acquasanta con la quale il prete benedice la rabbia degli aristocratici” – scrivevano i due – aggiungendo che, nelle visioni oniriche dell’ottocento (ma anche oggi è uguale) si preferisce declamare a vanvera sugli “interessi dell’essere umano, dell’Uomo in genere, che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà”. Non per niente, Camillo Benso conte di Cavour definiva tutte le iniziative sociali tese ad alleviare le pene dei poveri come l’unica “carta legale” capace di togliere al comunismo la lotta di classe in alternativa a tali azioni. Ignorare, ancora all’avvio del XXI sec., tutte queste più elementari leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, significa non conoscere l’abicì della “grammatica” economica; per dirla sarcasticamente con Erasmo, non si è infelici limitandosi alle sensazioni del “cavallo”!
Da un lato, tutto ciò conferma l’intuizione “rivoluzionaria”, cioè di rovesciamento, per cambiare la società esistente, degli utopisti (tra i quali Owen riveste un ruolo da protagonista indiscusso, quasi pari a quello più nitido di Saint-Simon). D’altro lato, la ripetizione dopo quasi due secoli di quelle visioni non può che scadere nello stantìo e nel vuoto far girare all’indietro la ruota della storia. Gli epigoni odierni delle “trovate” utopistiche del XVIII sec., se non altro, dimostrano appieno di ignorare totalmente la storia di un dèja vu. Quella conoscenza è in grado di mostrare quali debbano essere le condizioni minime necessarie per avviare un programma di trasformazione sociale. È in questo senso preciso che è stato sottolineato come perfino la supposta costruzione-del-socialismo sia stata caratterizzata da un’insufficienza di condizioni materiali esistenti e di conoscenze dettagliate delle contraddizioni del capitalismo della propria epoca. “Ogni sollevamento rivoluzionario, anche se i suoi scopi appaiono ancora molto lontani dalla lotta di classe, è destina­to a fallire – scrissero Engels e Marx – fino a che la classe operaia rivoluzionaria non abbia vinto, e che ogni riforma sociale resta un’utopia fino a che la rivoluzione e la controrivoluzione non si siano misurate con le armi in una guerra mondiale”. Armi e guerre a parte, nell’era atomica e nel XXI sec., senza lotta niente può mutare.
 


Cristiano Colombi <ccolombi at tiscali.it> ha scritto:
Care/i amiche e amici,
ecco un'altra iniziativa dell'Ass. S.A.L. che prevede, questa volta, due
appuntamenti in collaborazione con la Bottega del Mondo "Popolinsieme" di
Via Zuccoli a Talenti e con il Linux Club di via di Libetta a Garbatella.
Quando i protagonisti dei nostri progetti per la dignità, la promozione
umana e la giustizia in America Latina sono a Roma cerchiamo sempre di
rendervi partecipi della loro amicizia e della loro passione, farvi
incontrare la loro lotta e le loro speranze. Cosi' avviene per Ivonne
Oviedo e per la Colombia un paese al quale ci siamo avvicinati da alcuni
anni.
Vi preghiamo di diffondere l'invito ad amici e persone interessate. Vi
aspettiamo!

Cristiano (Associazione SAL)
__________________________________________________________

Associazione S.A.L. onlus
Solidarietà con l'America Latina


Nasce una nuova Colombia:
aiutiamola a crescere!
Campagna di sostegno a realtà educative in Colombia


Mercoledì 23 novembre ?- ore 18,00
Presso la Bottega Popolinsieme - Via Luciano Zuccoli, 74
(Quartiere Talenti)

§ Incontro con Ivonne Oviedo, responsabile della Fondazione
"Pequeño Trabajador" di Bogotà
§ Presentazione del progetto attraverso fotografie e immagini
§ Un dolce, un the, una bevanda... dai prodotti del Commercio Equo
e Solidale!!!


Giovedì 24 novembre - ore 21,30
Linux Club - via di Libetta, 15c
(Metro B - S. Paolo)

§ Incontro con Ivonne Oviedo, responsabile della Fondazione
"Pequeño Trabajador" di Bogotà
§ Presentazione del progetto attraverso fotografie e immagini
§ Musica dal vivo a cura di Barbara Cestoni e Antonello De Lisi
componenti del gruppo Chiloe

Ingresso libero per i soci del Linux Club.
Nell'occasione il contributo per la tessera di socio ordinario di ¤ 5,00
sarà devoluto al 50% alla Campagna di solidarietà con la Colombia
dell'Associazione SAL.

Da più di 40 anni in una situazione di conflitto interno, la Colombia è il
più complesso paese latinoamericano. L'Associazione SAL lancia una campagna
di sostegno a favore di realtà educative che permettono a bambini e ragazzi
di crescere nell'autonomia e nella responsabilità, consapevoli della grave
crisi politica ed economica del loro paese.

Ivonne Oviedo porterà la testimonianza della Fondazione "Pequeño
Trabajador", costituita da un gruppo di giovani educatori ispirati da una
scelta di fede maturata nelle comunità ecclesiali di base, che propone
un'educazione liberante ed una formazione pedagogica ed esperienziale
secondo lo stile dei NATs (Niños y Adolescentes Trabajadores).

Accompagnerà la serata il repertorio di musica tradizionale
latinoamericana, con brani della canzone d'autore, di Barbara Cestoni e
Antonello De Lisi, componenti del gruppo Chiloe.

Per informazioni:
Associazione S.A.L. onlus
info at saldelatierra.org
347 5730360

--
Mailing list Latina dell'associazione PeaceLink.
Per ISCRIZIONI/CANCELLAZIONI: http://www.peacelink.it/mailing_admin.html
Archivio messaggi: http://www.peacelink.it/webgate/latina/maillist.html
Area tematica collegata: http://italy.peacelink.org/latina
Si sottintende l'accettazione della Policy Generale:
http://www.peacelink.it/associazione/html/policy_generale.html



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