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Da Adista 80/05 Intervista di Claudia Fanti ad Ademar Bogo della direzione del MST
- Subject: Da Adista 80/05 Intervista di Claudia Fanti ad Ademar Bogo della direzione del MST
- From: Serena Romagnoli <md1042 at mclink.it>
- Date: Fri, 11 Nov 2005 17:27:03 +0100
ROMA-ADISTA. Si torna, in America Latina, a parlare di socialismo, ma esiste realmente la possibilità che la teoria si traduca nella creazione di una società nuova? Ne abbiamo parlato, in occasione del Sesto Incontro dei Comitati europei di appoggio al Movimento dei Senza Terra, svoltosi a Roma dal 28 al 30 ottobre (v. Adista n. 77/05), con Ademar Bogo, tra i fondatori del Mst, membro della Direzione nazionale e uno dei leader che influenzano maggiormente le decisioni del più importante movimento popolare del Brasile. Di seguito l'intervista. Cristianesimo e marxismo sono sempre convissuti armoniosamente all'interno del Movimento dei Senza Terra. Quanto è attuale questo binomio? Abbiamo imparato a interpretare il marxismo in una visione contadina. Quelli tra noi che provengono dalla Chiesa sono entrati in contatto per la prima volta con la teoria marxista attraverso la Teologia della Liberazione, ma la Chiesa conservatrice ha impedito che studiassimo Marx. E noi allora lo abbiamo fatto per conto nostro, attraverso l'organizzazione di corsi di formazione. I militanti più preparati conoscono il marxismo, ma esiste una grande quantità di persone che entra nel Movimento senza saper nulla in proposito, solo sotto la spinta della necessità o dietro l'ispirazione del Vangelo. Ma non c'è alcuna incompatibilità. Il nostro problema non è teorico. A noi interessa un'articolazione delle forze sociali in grado di creare una nuova società, una società che abbia caratteristiche completamente opposte a quelle de capitalismo. Per molti di noi questa società nuova può essere solo socialista, ma in una forma peculiare, latinoamericana, capace di abbracciare la nostra cultura, e anche la religione. Perché nella pratica del Mst la mistica, come voi chiamate la celebrazione degli ideali e dei valori comuni, occupa uno spazio tanto importante? La mistica è fondamentale. Per quanto il concetto provenga dalla religione, noi lo interpretiamo secondo una visione antropologica. L'essere umano non può esaurirsi nell'istinto di sopravvivenza o nella soddisfazione di necessità materiali. L'essere umano vive anche di sentimenti, di volontà, di sogni, di utopie, e anche questi dobbiamo prendere in considerazione nel portare avanti la lotta di classe. L'unità politica di un'organizzazione non si mantiene se non si coltiva la dimensione affettiva, l'allegria, la festa, il sentimento di fraternità, la commemorazione delle vittorie, quel senso del bello a cui i contadini non sono mai stati educati. L'essere umano è il "pezzo forte" della convivenza tra le specie: se lui non sta bene, non tratterà bene neppure le altre cose. Da un punto di vista antropologico, la cultura contadina possiede un forte senso di appartenenza, principalmente familiare. Se il movimento non ha caratteristiche familiari, le persone non si trovano a loro agio. C'è poi un aspetto contemplativo, che non è solo religioso: nella cultura contadina si sa osservare, e si dà il tempo alle cose perché si sviluppino: si pianta un seme e si resta a contemplare la crescita della pianta, finché non arriva il momento del raccolto. E nell'attesa c'è spazio per immaginare a programmare. Questa caratteristica deve essere presente anche nell'organizzazione: all'interno della mobilitazione e della lotta ci devono sempre essere momenti in cui si fa silenzio. O in cui si ascoltano quei suoni, quella musica, che nelle città si sono perduti: il canto degli uccelli, la pioggia, il vento. Un'organizzazione senza allegria, senza musica, diventa oppressiva. E le persone si scoraggiano. Infine, vi è l'aspetto della devozione: i contadini sono devoti per natura. E questa devozione, rispetto all'organizzazione, si esprime attraverso la simbologia, la bandiera, l'esempio offerto dai grandi leader dell'umanità riguardo alla possibilità di acquisire un grado superiore di umanità all'interno della convivenza sociale: l'esempio di Che Guevara come grande riferimento latinoamericano, come modello di solidarietà, di lavoro volontario, di offerta della propria vita per la liberazione dei poveri. Tutto questo è mistica: una dimensione opposta a quella del consumo, dell'appropriazione, della proprietà privata. E la mistica include la questione di genere, nel senso che incentiva la donna alla partecipazione e, attraverso questa, alla trasformazione di certe forme di comportamento maschile. La questione dell'uguaglianza, infatti, non va solo discussa, ma praticata. Nel dibattito sul rapporto, di coesistenza o di esclusione, tra via elettorale e mobilitazione sociale cosa insegna il caso del Brasile? La lotta sociale è la via per ottenere i cambiamenti. In assenza di conflitto sociale, le idee e le prospettive politiche dei movimenti sociali subiscono una deformazione. Quando vengono meno le differenze di classe, si cerca una conciliazione negoziata e questa è sempre pregiudiziale per i più deboli. Se manca un processo rivoluzionario, nella società si impone la ricerca di una soluzione intermedia. È questo il caso brasiliano. Noi non viviamo un momento rivoluzionario in Brasile: le forze sociali sono disarticolate e il processo di trasformazione è paralizzato. In questo contesto, la candidatura di Lula ha fatto sì che gli obiettivi di tutti gruppi sociali fossero canalizzati nella via elettorale. L'elezione, svoltasi al di fuori di un processo rivoluzionario, in un quadro segnato dalla ricerca di un accordo con la classe dominante, ha dato come frutto un governo riformista incapace di portare avanti le riforme a causa dell'opposizione del capitale. I movimenti sono stati cooptati e si è persa la possibilità di fare quello che sta riuscendo invece a Chávez in Venezuela, dove è in corso un processo rivoluzionario. La lezione che si può trarre è, per prima cosa, che la conciliazione di classe impedisce tale processo. Quando si accetta di negoziare, si interrompe il conflitto e si finisce per essere annientati. In secondo luogo, senza lotta sociale, il Parlamento, per quanto presenti al suo interno persone degne, diventa uno spazio al servizio della classe dominante: se non c'è pressione esterna al Parlamento, questo si piega alle esigenze del capitale. In terzo luogo, il processo elettorale, al di fuori di una prospettiva rivoluzionaria, corrompe gli individui che entrano nella macchina pubblica, perché questi si trovano ad aver a che fare con altri valori, con altri principi, e passano ad utilizzare gli stessi metodi usati dai capitalisti, perché affrontarli sul loro stesso terreno significa usare le loro stesse tecniche, quelle del marketing. E per questa strada si abbandona gradualmente quella forma tradizionale di militanza che è la formazione politica, la persuasione delle persone a livello ideologico, non solo sentimentale. Quel che è avvenuto in Brasile è che siamo stati sconfitti da questo cambiamento di prospettiva, che ha visto il partito e la leadership politica puntare sulla capacità personale e non su quella dell'organizzazione popolare. E noi oggi non siamo in condizioni di reagire, perché abbiamo subìto per 20 anni un processo di destrutturazione dei movimenti sociali, sotto i colpi inferti da un lato dalla globalizzazione neoliberista, che annulla l'organizzazione sindacale, crea disoccupazione, e smobilita la classe operaia, dislocando in vari punti del Paese e del mondo i mezzi di produzione, e dall'altro lato da una visione ingenua in base a cui si ritiene che negoziando con la classe dominante la classe lavoratrice ottenga dei benefici. Cosa significa che, come ha affermato João Pedro Stedile, non è il momento di piantare insalata, ma alberi? Significa che i cambiamenti che noi vogliamo non avverranno a breve termine. Esiste un settore della sinistra brasiliana che, deluso dalla direzione del Partito dei Lavoratori, ha cercato una soluzione di emergenza. Non serve a niente però creare un altro partito politico della stessa natura del Pt, impegnato nella disputa a livello elettorale. Per noi la soluzione è di medio e lungo termine. Abbiamo bisogno di piantare alberi, cioè, di organizzare il popolo, formare leader, elaborare una teoria della trasformazione sociale che sia adeguata ai nostri obiettivi. Quanta consistenza hanno le novità che si sono registrate negli ultimi anni a livello latinoamericano? È possibile parlare di un nuova era per l'America Latina? Abbiamo sofferto almeno un decennio di stagnazione dei movimenti sociali, abbiamo perso tutti i partiti politici rivoluzionari, come sono stati in passato il Fronte sandinista in Nicaragua e il Fronte Farabundo Martí nel Salvador. La perdita di una forma organizzativa e di un'elaborazione rivoluzionarie ha fatto sì che tutte le forze sociali si volgessero verso la via elettorale. Con successo, come mostrano le vittorie elettorali in Ecuador, Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Cile. Ma non c'era preparazione sufficiente per approfittare di questo momento storico, perché manca una forza politica che possa canalizzare lo scontento sociale in una nuova proposta politica di cambiamento. Con Chávez sembra sorgere un'altra possibilità: quella di scommettere, in un determinato momento, su un'alternativa istituzionale per cambiare la correlazione di forze. Dov'è la speranza? Nelle contraddizioni interne al capitale. Dopo essersi appropriato delle risorse industriali, il capitale ha bisogno ora di ricchezze naturali per risolvere la sua crisi interna. Pertanto, la lotta sarà ora per il territorio, un territorio abitato da indios e contadini, che ne faranno le spese. Vi sarà allora una reazione generalizzata nei campi di tutta l'America Latina, e noi possiamo già contare sul grande coordinamento di Via Campesina per articolare questa forza e far ripartire la mobilitazione di massa. In Brasile abbiamo 53.9 milioni di persone sotto la soglia della povertà. Si pensa di gestire questo problema attraverso la distribuzione di alimenti. Ma sarà impossibile alimentare questa popolazione per molto tempo. Vi sarà allora una reazione spontanea urbana, una reazione cosciente, politica. E sommando la reazione dei campi a quella urbana noi pensiamo che sarà possibile, nei prossimi anni, creare le condizioni per riprendere il processo di trasformazione interrotto negli anni Œ80.
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