Da Adista 80/05 Intervista di Claudia Fanti ad Ademar Bogo della direzione del MST



ROMA-ADISTA. Si torna, in America Latina, a parlare di socialismo, ma esiste
realmente la possibilità che la teoria si traduca nella creazione di una
società nuova? Ne abbiamo parlato, in occasione del Sesto Incontro dei
Comitati europei di appoggio al Movimento dei Senza Terra, svoltosi a Roma
dal 28 al 30 ottobre (v. Adista n. 77/05), con Ademar Bogo, tra i fondatori
del Mst, membro della Direzione nazionale e uno dei leader che influenzano
maggiormente le decisioni del più importante movimento popolare del Brasile.
Di seguito l'intervista.

Cristianesimo e marxismo sono sempre convissuti armoniosamente all'interno
del Movimento dei Senza Terra. Quanto è attuale questo binomio?
Abbiamo imparato a interpretare il marxismo in una visione contadina. Quelli
tra noi che provengono dalla Chiesa sono entrati in contatto per la prima
volta con la teoria marxista attraverso la Teologia della Liberazione, ma la
Chiesa conservatrice ha impedito che studiassimo Marx. E noi allora lo
abbiamo fatto per conto nostro, attraverso l'organizzazione di corsi di
formazione. I militanti più preparati conoscono il marxismo, ma esiste una
grande quantità di persone che entra nel Movimento senza saper nulla in
proposito, solo sotto la spinta della necessità o dietro l'ispirazione del
Vangelo. Ma non c'è alcuna incompatibilità. Il nostro problema non è
teorico. A noi interessa un'articolazione delle forze sociali in grado di
creare una nuova società, una società che abbia caratteristiche
completamente opposte a quelle de capitalismo. Per molti di noi questa
società nuova può essere solo socialista, ma in una forma peculiare,
latinoamericana, capace di abbracciare la nostra cultura, e anche la
religione. 

Perché nella pratica del Mst la mistica, come voi chiamate la celebrazione
degli ideali e dei valori comuni, occupa uno spazio tanto importante?
La mistica è fondamentale. Per quanto il concetto provenga dalla religione,
noi lo interpretiamo secondo una visione antropologica. L'essere umano non
può esaurirsi nell'istinto di sopravvivenza o nella soddisfazione di
necessità materiali. L'essere umano vive anche di sentimenti, di volontà, di
sogni, di utopie, e anche questi dobbiamo prendere in considerazione nel
portare avanti la lotta di classe. L'unità politica di un'organizzazione non
si mantiene se non si coltiva la dimensione affettiva, l'allegria, la festa,
il sentimento di fraternità, la commemorazione delle vittorie, quel senso
del bello a cui i contadini non sono mai stati educati. L'essere umano è il
"pezzo forte" della convivenza tra le specie: se lui non sta bene, non
tratterà bene neppure le altre cose. Da un punto di vista antropologico, la
cultura contadina possiede un forte senso di appartenenza, principalmente
familiare. Se il movimento non ha caratteristiche familiari, le persone non
si trovano a loro agio. C'è poi un aspetto contemplativo, che non è solo
religioso: nella cultura contadina si sa osservare, e si dà il tempo alle
cose perché si sviluppino: si pianta un seme e si resta a contemplare la
crescita della pianta, finché non arriva il momento del raccolto. E
nell'attesa c'è spazio per immaginare a programmare. Questa caratteristica
deve essere presente anche nell'organizzazione: all'interno della
mobilitazione e della lotta ci devono sempre essere momenti in cui si fa
silenzio. O in cui si ascoltano quei suoni, quella musica, che nelle città
si sono perduti: il canto degli uccelli, la pioggia, il vento.
Un'organizzazione senza allegria, senza musica, diventa oppressiva. E le
persone si scoraggiano. Infine, vi è l'aspetto della devozione: i contadini
sono devoti per natura. E questa devozione, rispetto all'organizzazione, si
esprime attraverso la simbologia, la bandiera, l'esempio offerto dai grandi
leader dell'umanità riguardo alla possibilità di acquisire un grado
superiore di umanità all'interno della convivenza sociale: l'esempio di Che
Guevara come grande riferimento latinoamericano, come modello di
solidarietà, di lavoro volontario, di offerta della propria vita per la
liberazione dei poveri. Tutto questo è mistica: una dimensione opposta a
quella del consumo, dell'appropriazione, della proprietà privata. E la
mistica include la questione di genere, nel senso che incentiva la donna
alla partecipazione e, attraverso questa, alla trasformazione di certe forme
di comportamento maschile. La questione dell'uguaglianza, infatti, non va
solo discussa, ma praticata.

Nel dibattito sul rapporto, di coesistenza o di esclusione, tra via
elettorale e mobilitazione sociale cosa insegna il caso del Brasile?
La lotta sociale è la via per ottenere i cambiamenti. In assenza di
conflitto sociale, le idee e le prospettive politiche dei movimenti sociali
subiscono una deformazione. Quando vengono meno le differenze di classe, si
cerca una conciliazione negoziata e questa è sempre pregiudiziale per i più
deboli. Se manca un processo rivoluzionario, nella società si impone la
ricerca di una soluzione intermedia. È questo il caso brasiliano. Noi non
viviamo un momento rivoluzionario in Brasile: le forze sociali sono
disarticolate e il processo di trasformazione è paralizzato. In questo
contesto, la candidatura di Lula ha fatto sì che gli obiettivi di tutti
gruppi sociali fossero canalizzati nella via elettorale. L'elezione,
svoltasi al di fuori di un processo rivoluzionario, in un quadro segnato
dalla  ricerca di un accordo con la classe dominante, ha dato come frutto un
governo riformista incapace di portare avanti le riforme a causa
dell'opposizione del capitale. I movimenti sono stati cooptati e si è persa
la possibilità di fare quello che sta riuscendo invece a Chávez in
Venezuela, dove è in corso un processo rivoluzionario. La lezione che si può
trarre è, per prima cosa, che la conciliazione di classe impedisce tale
processo. Quando si accetta di negoziare, si interrompe il conflitto e si
finisce per essere annientati. In secondo luogo, senza lotta sociale, il
Parlamento, per quanto presenti al suo interno persone degne, diventa uno
spazio al servizio della classe dominante: se non c'è pressione esterna al
Parlamento, questo si piega alle esigenze del capitale. In terzo luogo, il
processo elettorale, al di fuori di una prospettiva rivoluzionaria, corrompe
gli individui che entrano nella macchina pubblica, perché questi si trovano
ad aver a che fare con altri valori, con altri principi, e passano ad
utilizzare gli stessi metodi usati dai capitalisti, perché affrontarli sul
loro stesso terreno significa usare le loro stesse tecniche, quelle del
marketing. E per questa strada si abbandona gradualmente quella forma
tradizionale di militanza che è la formazione politica, la persuasione delle
persone a livello ideologico, non solo sentimentale. Quel che è avvenuto in
Brasile è che siamo stati sconfitti da questo cambiamento di prospettiva,
che ha visto il partito e la leadership politica puntare sulla capacità
personale e non su quella dell'organizzazione popolare. E noi oggi non siamo
in condizioni di reagire, perché abbiamo subìto per 20 anni un processo di
destrutturazione dei movimenti sociali, sotto i colpi inferti da un lato
dalla globalizzazione neoliberista, che annulla l'organizzazione sindacale,
crea disoccupazione, e smobilita la classe operaia, dislocando in vari punti
del Paese e del mondo i mezzi di produzione, e dall'altro lato da una
visione ingenua in base a cui si ritiene che negoziando con la classe
dominante la classe lavoratrice ottenga dei benefici.

Cosa significa che, come ha affermato João Pedro Stedile, non è il momento
di piantare insalata, ma alberi?
Significa che i cambiamenti che noi vogliamo non avverranno a breve termine.
Esiste un settore della sinistra brasiliana che, deluso dalla direzione del
Partito dei Lavoratori, ha cercato una soluzione di emergenza. Non serve a
niente però creare un altro partito politico della stessa natura del Pt,
impegnato nella disputa a livello elettorale. Per noi la soluzione è di
medio e lungo termine. Abbiamo bisogno di piantare alberi, cioè, di
organizzare il popolo, formare leader, elaborare una teoria della
trasformazione sociale che sia adeguata ai nostri obiettivi.

Quanta consistenza hanno le novità che si sono registrate negli ultimi anni
a livello latinoamericano? È possibile parlare di un nuova era per l'America
Latina?
Abbiamo sofferto almeno un decennio di stagnazione dei movimenti sociali,
abbiamo perso tutti i partiti politici rivoluzionari, come sono stati in
passato il Fronte sandinista in Nicaragua e il Fronte Farabundo Martí nel
Salvador. La perdita di una forma organizzativa e di un'elaborazione
rivoluzionarie ha fatto sì che tutte le forze sociali si volgessero verso la
via elettorale. Con successo, come mostrano le vittorie elettorali in
Ecuador, Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Cile. Ma non c'era
preparazione sufficiente per approfittare di questo momento storico, perché
manca una forza politica che possa canalizzare lo scontento sociale in una
nuova proposta politica di cambiamento. Con Chávez sembra sorgere un'altra
possibilità: quella di scommettere, in un determinato momento, su
un'alternativa istituzionale per cambiare la correlazione di forze.
Dov'è la speranza? Nelle contraddizioni interne al capitale. Dopo essersi
appropriato delle risorse industriali, il capitale ha bisogno ora di
ricchezze naturali per risolvere la sua crisi interna. Pertanto, la lotta
sarà ora per il territorio, un territorio abitato da indios e contadini, che
ne faranno le spese. Vi sarà allora una reazione generalizzata nei campi di
tutta l'America Latina, e noi possiamo già contare sul grande coordinamento
di Via Campesina per articolare questa forza e far ripartire la
mobilitazione di massa. In Brasile abbiamo 53.9 milioni di persone sotto la
soglia della povertà. Si pensa di gestire questo problema attraverso la
distribuzione di alimenti. Ma sarà impossibile alimentare questa popolazione
per molto tempo. Vi sarà allora una reazione spontanea urbana, una reazione
cosciente, politica. E sommando la reazione dei campi a quella urbana noi
pensiamo che sarà possibile, nei prossimi anni, creare le condizioni per
riprendere il processo di trasformazione interrotto negli anni Œ80.