LATINOAMERICA - Mar del Plata: l'America Latina non è più il cortile di casa.



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Diffondiamo l'articolo del nostro collaboratore Gennaro Carotenuto sul
vertice di Mar del Plata che ha riunito 33 capi di stato del continente
americano meno uno, Fidel Castro, non invitato per imposizione di uno degli
ospiti, e che si è concluso con il più pieno fallimento del progetto di
unione neoliberale del continente americano, l'ALCA (Area di Libero
Commercio delle Americhe). Non solo: si è concluso con l'ennesima
dimostrazione  che almeno l'America Latina atlantica, quella che si
riconosce nel Mercosur e che comprende i due giganti, Argentina e Brasile,
più il Venezuela, più Cuba, non risponde più al volere della Casa Bianca,
quello che per decenni si è chiamato "Washington Consensus".

Mar del Plata: l'America Latina non è più il cortile di casa.


Va fatta subito chiarezza su di un punto: tra i 33 convitati
dall'anfitrione argentino Nestor Kirchner, il meno liberale di tutti era
proprio lo statunitense George W. Bush. Questi ha provato per l'ennesima
volta ad imporre un trattato di libero commercio, l'ALCA, che liberale lo è
solo a senso unico.

I paesi dell'America Latina, nell'ultimo quarto di secolo, prostrati da
debito estero e dittature militari filostatunitensi, hanno già concesso
tutto il concedibile. Le loro economie sono già aperte e privatizzate e
sono da decenni terreno di caccia delle multinazionali straniere. I
rapporti di produzione e sindacali sono regrediti ad un medioevo selvaggio
che ha moltiplicato il numero dei poveri e degli indigenti. Sono dati sotto
gli occhi di tutti. Nonostante ciò per l'America Latina tante concessioni
sarebbero giustificate in cambio dell'apertura dell'enorme mercato
statunitense per i propri prodotti.

Tutti i latinoamericani (Argentina post-default compresa), continuano
diligentemente a pagare un debito estero iniquo ed asfissiante. Di nuovo:
basta studiare i dati macroeconomici per convincersi dell'inefficienza del
neoliberismo che non solo produce miseria, ma anche retrocessioni nello
sviluppo visto che i prodotti latinoamericani a maggiore valore aggiunto e
tecnologicamente avanzati, sono proprio quelli che soffrono di più. Tutti i
latinoamericani hanno già concesso agli Stati Uniti molto oltre il logico,
l'utile, l'equo, l'umano. Lo hanno fatto nella speranza di vedere aprirsi
almeno una porticina sullo sterminato mercato statunitense per i prodotti
latinoamericani. Ma George Bush e i suoi ad aprire non ci pensano per
niente. Sacerdoti della fede neoliberale non sono così ingenui da
applicarla pedissequamente per loro stessi.

Così non è Hugo Chávez per estremismo o Nestor Kirchner per freddezza a far
saltare il tavolo di un accordo che se fosse minimamente equo porterebbe
effettivi benefici anche all'economia latinoamericana. È George Bush a far
saltare quel tavolo marcando il proprio stesso fallimento, nella
convinzione imperiale che tutto gli sia dovuto e nulla debba concedere in
cambio. È George Bush l'estremista. Sono gli altri a dovere eliminare
completamente le barriere doganali, ma gli Stati Uniti non sono disposti in
cambio a ridurre i loro dazi. Sono gli altri a dovere distruggere e
privatizzare ma gli Stati Uniti in cambio non sono disposti a diminuire
neanche di un centesimo lo spropositato assistenzialismo con il quale
drogano il mercato in settori come l'agricoltura e l'industria. Contadini
boliviani che guadagnano 30 dollari al mese producono un grano o un riso o
un mais più caro e fuori mercato rispetto agli ultrassistiti omologhi
statunitensi che ne guadagnano 3.000. È qui che salta il tavolo. Gli Stati
Uniti continuano a pretendere di imporre leggi a paesi stranieri, ma non
sono disposti a nulla concedere. Ne ha pagato le spese perfino il Canada,
stritolato dall'accordo di libero scambio non meno del Messico. L'ALCA
quindi è saltato per l'incapacità culturale degli Stati Uniti di
raggiungere un accordo che fosse conveniente per entrambi i contraenti.

Per George W. Bush quello di Mar del Plata è dunque un fallimento di
portata storica, e non importa se la stampa italiana tergiversa
sull'appoggio degli ascari Fox o Uribe, messicano e colombiano
rispettivamente. Fallisce per la prima volta la strategia imperiale
dell'imposizione. La dura realtà per Bush non sta solo nel disprezzo
unanime della società civile mondiale manifestatosi con rigogliosa bellezza
anche a Mar del Plata. La dura realtà per Bush è che oggi ci sono in
America molti dirigenti politici che non sono disposti a firmare qualunque
cosa in cambio dell'opportunità di una foto con l'inquilino della Casa
Bianca e qualche piatto di lenticchie sotto forma di tangenti.

Oggi in America Latina non c'è più un isolato idealista facilmente
isolabile o assassinabile. Oggi ci sono molti dirigenti latinoamericanisti
e progressisti che hanno ben chiaro non soltanto il mandato popolare ma
anche il concetto d'interesse nazionale. Oggi per la prima volta si
profilano nel continente dei solidi portatori di interesse -stakeholders
direbbero gli anglofili- che possono far valere la non convergenza di
questi rispetto a quelli della potenza imperiale. Questi portatori di
interesse coincidono almeno in parte con la società civile, i movimenti
sociali, e le classi popolari.

Non è credibile che George W. torni a quel tavolo domani con la testa
cosparsa di cenere. Ma qualcuno dovrà farlo per lui e accettare di trattare
da pari a pari almeno con il blocco regionale del Mercosur che con il
Venezuela ed una Cuba mai così poco isolata, insieme valgono i due terzi
dell'economia latinoamericana. Oppure Washington (come fa da 200 anni)
sceglierà ancora una volta la via dell'abuso, degli omicidi mirati, della
delegittimazione, del gioco sporco, delle invasioni militari, del
compromesso con le aristocrazie sulle quali si sono appoggiati per imporre
al continente le dittature militari che sono costate quasi un milione di
morti. È un cammino che diventa difficile, come il fallimento del colpo di
stato dell'11 aprile 2002 a Caracas ha dimostrato. Nonostante tale
evidenza, a Washington qualcuno sta organizzando non soltanto gli omicidi
di Fidel Castro o di Hugo Chávez, ma anche quelli di Kirchner, Lula e
perfino di Tabaré Vázquez o Nicanor Duarte se fosse necessario. Allo stesso
modo è nel mirino da sempre Evo Morales, che il quattro dicembre, se non lo
ammazzeranno e non ci saranno brogli, diventerà il primo presidente
socialista e non bianco della storia della Bolivia, e il messicano López
Obrador, solido candidato delle sinistre nelle elezioni del prossimo anno.

Di fronte a un trionfo così importante sulla strada della costruzione
dell'Unità Latinoamericana -che o sarà antiimperialista o non sarà- passa
in secondo piano perfino la straordinaria mobilitazione popolare del
controvertice. Gli europei accettano con difficoltà di non avere il
monopolio della coscienza politica nel pianeta. Ma forse la primavera di
Mar del Plata segna davvero un passaggio di consegne. Come afferma da
sempre Hugo Chávez, non può non essere il Sud del mondo a prendere per mano
il pianeta nel cammino verso la liberazione. E il Sud, per prendere in mano
il proprio destino, rifiuta l'ALCA e cammina verso l'ALBA (Alternativa
Bolivariana per le Americhe), il primo accordo che si basa sulla
solidarietà e la cooperazione e non sulla competizione sleale e i patti
leonini.

La grande stampa italiana si è distinta come sempre per disinformazione,
occultando il valore della sconfitta storica statunitense scegliendo
l'aspetto da questa considerato folcloristico della presenza di Diego
Armando Maradona. Quotidiani come la Repubblica vi si accaniscono. Per
l'ineffabile Omero Ciai, che normalmente scrive di America Latina dalla sua
casa di Miami, Maradona avrebbe grugnito ripetutamente solo due parole:
"assassino", "monnezza", quest'ultima chissà perché in napoletano e non in
castigliano. Per fortuna via Internet sono disponibili le registrazioni
degli interventi di Maradona a smentire la pessima stampa fintoprogressista
italiana.

Questa, come non ha perdonato a Maradona di aver rotto il monopolio storico
del Nord nel calcio, vincendo da uomo del Sud con la maglia del Napoli,
così non gli ha perdonato di essere sopravvissuto al pozzo della droga
nella quale aveva contribuito a gettarlo. Cocainome, gravemente obeso,
plurinfartuato, Maradona doveva morire ma è stato salvato dalla medicina
cubana, altra colpa imperdonabile.

Non solo non è morto il ragazzo di Villa Fiorito, una delle più tristi
Villa Miseria del Gran Buenos Aires, ma è uscito fuori dal tunnel, è rinato
ed è cosciente di sé e del suo posto nel mondo come uomo e come
latinoamericano. La sua militanza politica lo testimonia. Come non perdona
Maradona, così la stampa italiana continua a non perdonare Hugo Chávez. E
qui dovrebbero essere i lettori italiani a non perdonare una stampa che da
sette anni rifiuta di spiegare ai propri lettori la realtà venezuelana per
rifugiarsi nel dileggio e nell'offesa verso quello che è oramai un grande
dirigente popolare e mondiale.

Quest'informazione indecente non spiega e non perdona Chávez, perché non
vuole spiegare né perdonare questo universo latinoamericano, contadino,
operaio, indigeno, cittadino, che viene da lontano e si organizza
pacificamente come un esercito di formiche, e che non sussurra più ma
oramai grida consegne sulle quali l'Europa sorride sprezzante senza mai
capire. Consegne come Unità Latinoamericana e Socialismo.

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