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pinochet rientra in cile
- Subject: pinochet rientra in cile
- From: PIER LUIGI GIACOMONI <rhenus at libero.it>
- Date: Fri, 03 Mar 2000 15:33:07 -100
Rendiamo pubblico il dossier apparso oggi venerdi' 3 marzo su "la stampa" sulla vicenda pinochet. Col rimpatrio del generale exdittatore expresidete, exaguzzino di un popolo, si chiude un capitolo di storia che molti hanno seguito sperando che segnasse una svolta di importanza storica. Sara' ilfuturo a dirci se tale svolta davvero c'e' stata o se hanno prevalso puramente e semploicmente le ragioni dell'economia e della politica internazionali. e' un peccato, ad esempio, che negli articoli qui ripresi non si faccia alcuna menzione delle pesanti ingerenze economiche che hanno pesato sulla decisione finale di Jack Straw e del governo spagnolo. Il tutto avviene mentre il Cile imbocca, non senza apprensioni, una difficile tappa della sua transizione. In essa la figura del generale Pinochet si colloca come un macingo difficile da rimuovere. Pare giusto fare gli auguri al cile e ai cileni: se riusciranno a giudicare il loro vecchio massacratore si dimostreranno piu' bravi dei tribunali del cosidetto 2mondo libero". plg ------------------------------------------------------------------------------- LONDRA. Il governo inglese ha negato l'estradizione del generale Pinochet, che è subito partito per il Cile. PERDONO IMPOSSIBILE di Igor Man LA STAMPA è in edicola mentre il 707 di Pinochet atterra a Santiago del Cile, «città di dolore» come la definì La Pira. Ma nella «città di dolore» c'è chi esulta e si ubriaca: dopo 16 mesi di arresti domiciliari a cinque stelle, nel Surrey, Pinochet torna a casa. L'associazione dei desaparecidos chiede venga tolta l'immunità parlamentare al dittatore il quale, quando lasciò il potere nel marzo del '98, si fece nominare senatore a vita. In teoria Pinochet potrebbe essere spogliato dell'immunità: la decisione dipende dal giudice Juan Guzman Tapia, istruttore dei 58 procedimenti depositati contro il dittatore, accusato in primo luogo di genocidio. Epperò, l'esercito accetterà mai che il «suo» comandante venga tradotto in giudizio? C'è da dubitarne. Protettore della vorace «borghesia di gestione», l'esercito cileno è conosciuto per il suo impeto sanguinario. Gli viene dalla «scuola di guerra» contro gli Araucani. Nel 1906, dopo il terremoto di Valparaiso, la lega dei portuali venne liquidata dai soldati massacrando 8 mila operai. Sotto la presidenza del probo Eduardo Frei, durante uno sciopero a El Salvador, i militari dispersero la folla a fucilate: una strage. Il comandante della piazza era un oscuro generale di 52 anni, padre di cinque figli, professore di geografia: Augusto Pinochet. Venti giorni prima del golpe, fu il presidente Allende a nominarlo capo dell'esercito. Salvador Allende aveva 64 anni, amava i fiori e i cani, era di una galanteria un po' all'antica. La sua tragedia fu quella di essere al tempo stesso un non violento e un appassionato rivoluzionario. Credeva in una evoluzione pacifica verso il socialismo nella legalità borghese. Troppo tardi scoprì che «non si può cambiare un sistema partendo dal governo, bensì dal popolo». E il popolo era stanco del caos provocato dall'infantilismo politico del Mir, dal settarismo inconcludente del pc. Nel fatale 1973, sull'orlo della guerra civile, funzionava il richiamo all'ordine. Da qui il consenso per Pinochet all'indomani del golpe. Dopo quattro anni il consenso si perse per strada; troppo tardi: Pinochet era diventato il Totopoderoso regista infame d'una buia dittatura. Un amico cileno, esule oramai trapiantato a Roma, mi dice come appaia soltanto sterile, oramai, dire che i patrioti non vogliono vendetta bensì giustizia. Ma prima che il dittatore si ritiri in qualche villa ben protetta a consumare quanto gli resta da vivere, perché non fargli provare il castigo del bugliolo? A Villa Grimaldi, quando un patriota ancorché torturato taceva, prima di ucciderlo gli scherani di Pinochet gli ficcavano la testa nei suoi stessi escrementi. «Visto che soffre di incontinenza, basterebbe ficcargli il viso nel pannolone». I cileni non vogliono vendette, non si illudono che venga resa giustizia ai martiri della dittatura ma pretendono che nessuno dimentichi chi è stato e cosa ha fatto Pinochet. La tragedia del Cile ora comprende anche il ritorno, l'impunità del dittatore. Povero, caro Cile. Come dice un lacerante verso di Machado: «Tengo una pena una pena, que casi puedo decir que yo no tengo la pena, la pena me tiene a mi». Superfluo tradurre. L'imputato Pinochet torna a Santiago Ai Comuni si grida «vergogna», Jospin annulla la visita in Cile LE ULTIME ORE DEL DITTATORE IN GRAN BRETAGNA di Fabio Galvano Libero, a dispetto di un dossier che pareva inchiodarlo alle sue responsabilità. Libero in nome degli stessi motivi umanitari che la sua polizia segreta aveva sempre negato alle vittime della dittatura cilena. Libero, ma duramente provato da un tormentone giuridico che si protraeva da oltre 16 mesi; e tutt'altro che sicuro d'averla scampata, se è vero che in Cile si riaccende la campagna per un processo. Augusto Pinochet Ugarte, arrestato il 16 ottobre 1998 da Scotland Yard in seguito alla richiesta d'estradizione avviata dal giudice spagnolo Baltasar Garzón, ha lasciato ieri la sua prigione dorata - la villa di Wentworth, nel Surrey - per ordine del ministro degli Interni britannico Jack Straw, che ha attuato le «intenzioni» - di rimetterlo in libertà, appunto - espresse due mesi fa e successivamente oggetto di un'ennesima battaglia legale. Erano le 13,10 - pochi minuti prima che Straw prendesse la parola ai Comuni fra grida di «vergogna» dai banchi della sinistra laburista - quando il Boeing 707 dell'aviazione cilena si è levato dall'aeroporto militare di Waddington, nel Lincolnshire, diretto a Santiago. L'aereo, trasformato in ospedale volante, era da alcune settimane in attesa sulla pista di un altro aeroporto militare, quello di Brize Norton. Alle cinque del mattino si era spostato facendo addirittura ipotizzare una partenza alla chetichella di Pinochet, prima che fosse dato l'annuncio della sua liberazione. Invece tutto è avvenuto nel rispetto delle leggi. L'ex dittatore cileno ha avuto la notizia alle 8, dopo una notte quasi insonne trascorsa nell'attesa della decisione di Straw. In tarda mattinata un convoglio di sei auto, con scorta di motociclisti della polizia, lo ha prelevato dalla sua villa: 240 chilometri verso il Boeing, un'ultima occasione - per il generale - di vedere la dolce campagna inglese che un tempo amava e che mai più rivedrà. Il tormentone giudiziario, fatto di sentenze e di ricorsi, di giudici e di Lord imparruccati, è finito senza che i governi del Belgio, della Francia, della Svizzera e della Spagna - i Paesi che avevano contestato le intenzioni di Straw - e tantomeno le organizzazioni umanitarie guidate da Amnesty International ritenessero di impugnare quest'ultimo atto, o che la pubblica accusa del governo di Sua Maestà ritenesse di poter inanellare nuove imputazioni a carico dell'ex dittatore. L'estradizione, ha spiegato Straw ai Comuni, «semplicemente non era più possibile»: per motivi medici, come avevano accertato gli esami cui Pinochet era stato sottoposto due mesi fa. «Un processo in queste condizioni - ha detto il ministro - avrebbe violato la Convenzione europea dei diritti umani». E ha aggiunto: «Questa decisione è stata responsabilità mia e non del governo». Il passo - atteso, forse inevitabile, ma non per questo meno controverso - ha suscitato un coro di proteste in tutto il mondo. Dal presidente francese Chirac, il quale ha insistito che «le responsabilità del generale Pinochet vengano chiarite in Cile o da qualunque altra parte», al suo primo ministro Jospin, che ha annullato un viaggio in Cile; dal ministro degli Esteri spagnolo Matutes, che ha parlato di «un sapore amaro» lasciato dalla vicenda, ad Amnesty International, che parla di «un colpo forse mortale alle speranze delle vittime del suo regime». Eppure, come ha rilevato lo stesso Straw, la vicenda ha sancito il principio che chi commette delitti contro i diritti umani «non può presumere di farla franca in alcun luogo». E' un uomo distrutto quello che è tornato ieri sera in Cile; e a parte i suoi fedelissimi, che a lui inneggiavano nelle ore decisive mentre il generale - ha riferito un amico - trascorreva le sue ultime ore inglesi davanti alla tv guardando il torneo Atp di tennis a Santiago, soltanto la signora Thatcher ha difeso a spada tratta la decisione di Straw: «E' stato un nostro fedele amico durante la guerra delle Falkland e questo governo lo ha premiato imprigionandolo per 16 mesi: la sua salute è a pezzi, la reputazione dei nostri tribunali è macchiata, vasti capitali sono stati sprecati per una vendetta politica». Pinochet è costato al contribuente inglese oltre quattro miliardi di lire. Bene, diranno molti, che sia partito. LA TORTUOSA SAGA ANGLO-CILENA di Mario Ciriello LONDRA E' partito. Finalmente. Quando l'aereo militare cileno, con a bordo Pinochet, ha spiccato il volo e lasciato quest'isola, la maggioranza degli inglesi ha tirato un sospiro di sollievo. Non per simpatia verso il dittatore, ma perché la saga durava da troppo tempo, era divenuta una complessa e confusa contesa fra schiere di avvocati, una battaglia in cui sempre più difficile era ravvisare e rammentare le sofferenze delle molte vittime del tiranno cileno. Ben 16 mesi sono passati dal giorno in cui il generale fu arrestato in una clinica di Londra, dopo un intervento chirurgico alla schiena. Spontanea è la tentazione di vedere nella vicenda un «pasticciaccio» britannico, di giudicare con severa ironia la condotta delle autorità di Londra. Ma non sarebbe corretto. Fin dall'inizio il ministro degli Interni, Jack Straw, si è trovato prigioniero di una densa matassa di leggi nazionali e internazionali, ogniqualvolta sperava di averne pescato il bandolo, nuove inceppi gli impedivano di agire. Ancora ierimattina, poche ore prima del decollo dell'aereo per Santiago, l'ambasciatore francese a Londra informava Straw che Parigi voleva che Pinochet fosse interrogato da un proprio magistrato, Roger le Loire, sulla scomparsa di cittadini francesi in Cile negli Anni 70.Certo, vi furono momenti in cui Straw avrebbe potuto liberare Pinochet e concedergli di tornare in patria, che è quanto volevano e chiedevano i numerosi amici del generale, capeggiati da Margaret Thatcher e diverse figure della destra Tory. E Straw avrebbe forse potuto cedere alle pressioni della sinistra laborista e di vasta parte del pubblico, e accelerare l'estradizione in Spagna di Pinochet. Ma Straw non ha ceduto a nessuno e ha scelto la via più lunga e più difficile, quella dei tribunali. Sono stati i giudici britannici a pronunciarsi su tutte le istanze legali avanzate dalle varie parti, dai governi stranieri, dalle organizzazioni come Amnesty International, da chi cercava la liberazione di Pinochet mediante un mandato di Habeas Corpus. Soltanto alla fine, persuaso dal «Medical Report» del declino mentale di Pinochet, Jack Straw ha deciso di agire: e di far sì che i quattro Stati, Spagna, Belgio, Francia, Svizzera, ansiosi di proseguire le pratiche per l'estradizione, non avessero il tempo di rivolgersi a una alta corte inglese. Certo, l'intera operazione poteva essere forse condotta meglio, ma sarebbe ingiusto, oggi come oggi criticare il ministro. Si è comportato sempre con la massima correttezza, nel rispetto della legge. E in parte dobbiamo a lui la storica sentenza della Camera dei Lords, che priva di ogni immunità, ovunque siano, i capi politici e militari macchiatisi di sangue. «L'avevo previsto» Garzón: sono triste per tutte le vittime MADRID «Non sono arrabbiato. Lo prevedevo da tempo». Questo il primo commento del giudice Baltasar Garzón alla liberazione di Augusto Pinochet secondo fonti a lui vicine. Il giudice inquirente non ha nascosto però la sua delusione. «Sento molta tristezza per le vittime». Ha ricordato che restano in vigore sia l'ordine di cattura internazionale sia quelo di estradizione che diventeranno effettivi nel caso in cui Pinochet decida di uscire un'altra volta dal suo paese. Garzón non può chiedere l'etradizione al Cile perchè fra questo Paese e la Spagna non esiste una convenzione bilaterale in questo campo. In mattinata, Garzón aveva fatto un ultimo tentativo per prevenire il rimpatrio di Pinochet presentando un appello contro la decisione e inviandolo per fax direttamente a Londra, senza passare per il tramite del governo spagnolo. La Spagna - attraverso il ministro degli Esteri, Abel Matutes - aveva fatto sapere di non avere intenzione di ricorrere contro la decisione del ministro dell'Interno britannico Jack Straw.[Ansa-AdnKronos] UN RIENTRO TRA LACRIME E GAGLIARDETTI reportage La mezza vittoria del generale Il neopresidente Lagos: lo processeremo noi di Mimmo Càandito E' arrivato furtivo, come le faine. Come gli animali che temono la luce del giorno, e sanno bene perchè. Pinochet è di nuovo in Cile, un vecchio malandato che si regge sul bastone; i medici inglesi dicono anche che è rimbambito. Ma non tutti gli credono, molti hanno dovuto imparare che le ragioni della politica spesso sovrastano il desiderio degli uomini semplici; e da sempre la coscienza dei giusti teme la beffa dei potenti. L'aereo era partito di nascosto, e di nascosto è arrivato. Pinochet è un dittatore in fuga. La legge inglese lo ha lasciato in libertà, però lui se l'è data a gambe levate prima che un ultimo ricorso di Garzón o di Amnesty International potesse bloccargli nuovamente la strada che lo portava via dalla sua comoda prigione londinese. E' scappato, ignominiosamente ma come ogni uomo ha diritto di fare, anche un dittatore. E ad attenderlo qui, all'aeroporto di Santiago, non v'era certamente tutta la gran folla che in questi mesi s'era voluto far credere. Torna un vecchio, un vecchio umiliato, non più il dittatore in pensione che dallo scanno vitalizio del Senato poteva permettersi ancora di condizionare la vita politica del suo paese. Ci sono stati 17 mesi, per preparare questa «Operazione Ritorno». E tutto era stato provato e riprovato infinite volte, con la cocciutaggine paziente che solo i militari sanno avere. L'«Operazione» era una missione militare. Ma non perchè toccasse alla forza aerea l'organizzazione logistica del volo e dell'accoglienza del vecchio generale; no, molto più realisticamente era un fatto militare perchè qui i militari sono ancora un corpo separato dello Stato, e hanno prerogative e poteri di fatto che nessun'altra istituzione può pensare di contrastare. Il generale era una «cosa loro», e nessuno poteva metterci il naso. Anzi, nei giorni più aspri della crisi londinese i militari non avevano avuto alcun ritegno ad attaccare - con un'asprezza che nessuna democrazia oserebbe permettere -la «ignavia dei politici», incapaci di riportare subito in patria il «loro» comandante. Su quell'aereo attrezzato come un ospedale volante Pinochet è apparso stanco e provato, anche a chi ha potuto vederne da lontano il passo incerto e la sollecitudine di coloro che gli danzavano premurosi d'intorno. Ma l'uomo è un mentitore incallito, ha tradito i suoi giuramenti, ha tradito il presidente che gli aveva assegnato il comando dell'esercito, ha tradito molti suoi compagni d'armi, ha lui stesso confessato che ama portare gli occhiali scuri perchè gli occhi rivelano sempre la verità. Questa è materia d'antropologia, chi ha l'animo del mentitore non perde negli anni quel suo vizio; anzi, lo rafforza. Eccolo qui, dunque, di nuovo. Eccolo tra i suoi sostenitori, che ieri hanno fatto festa come se avessero vinto la battaglia del Beagle. Ma anche eccolo tra i suoi avversari, che ieri hanno pianto come se i loro morti fossero morti di nuovo. Però tutto quel pezzo di Cile che ieri ha cantato, sventolando per un'intera giornata al sole dell'estate australe la bandiera nazionale, sa comunque che la festa è amara, perchè il ritorno di Pinochet è soltato una tappa, la prima tappa, d'una storia giudiziaria tutt'altro che chiusa. E quanto agli altri, quelli che sempre hanno sfilato per le strade di Santiago portando in aria le vecchie foto sbiadite dei loro desaparecidos, essi sanno che hanno perso soltanto la prima battaglia, e che ora però la guerra della legittimità giuridica continua come prima, anche più di prima. L'immunità parlamentaree non è poi un baluardo insuperabile. «Lo processeremo, sì lo processeremo, perchè se no vorrebbe dire che la nostra è una democrazia castrata»: Ricardo Lagos, il presidente cileno che giurerà il prossimo 11 marzo, ha tenuto a sottolineare che l'argomento centrale della strategia diplomatica per riportare Pinochet a casa non è stato un semplice escamotage. A camminare però in queste ore per le strade di Santiago, s'avverte bene che una spaccatura profonda divide oggi il Cile. E' una spaccatura nuova, tuttavia, diversa da quella che in passato ha tagliato a mezzo questo paese, ponendo da una parte i sostenitori della dittatura e dall'altra i suoi avversari. Il Cile d'oggi è invece diviso tra coloro - non sono molti - che ancora si battono per un giudizio su Pinochet e la gran massa anonima della società, invece, che osserva da lontano le tensioni aspre, le parole forti, il desiderio comunque di un recupero della giustizia, che i pochi militanti della memoria difendono in una solitudine inquieta. ®Per• noi faremo ugualmente trionfare la giustizia¯, ha detto ieri Eduardo Contreras, l'avvocato che per primo ha posto davanti ai tribunali cileni una richiesta d'imputazione per omicidio e tortura. FONTE: LA STAMPA - VEN. 3/3/2000 ------------------------------------------------------------------------------- PIER LUIGI GIACOMONI rhenus at libero.it Net-Tamer V 1.11.2 - In Prova ------030030200013015047NTI--
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