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marxismo e nonviolenza



Capitini: marxismo e nonviolenza
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    CONSIDERAZIONI DI UN MARXISTA SUI RAPPORTI TRA MARXISMO E NONVIOLENZA

di NICOLA BADALONI


     Nella sua relazione, Bobbio affermava poco utile prendere in 
considerazione, ai fini dell'argomento in questione, il problema dei "fini 
ultimi", proponendo di incentrare invece la discussione sulle "tecniche" 
elaborate dall'esperienza delle lotte politiche, specialmente nel nostro
paese.

     Non nascondero' il mio accordo con lui per quanto riguarda la
necessita' di richiamare la teoria della nonviolenza da un terreno
superiore alla realta' effettiva delle lotte sociali, alla concretezza
di esse, ma non accogliero' le raccomandazioni di riserbo intorno al
problema dei "fini ultimi".

     Muovendo dall'analisi della storia umana finora trascorsa, Bobbio
conclude pessimisticamente sulla storia futura, in quanto cio' che
ispira oggi l'azione di grandi masse di uomini e che agisce da
propulsore per fondamentali mutamenti storici e' da Lui considerata non
una realta', ma una prospettiva metafisica o puramente filosofica.

     Proprio perche' ritengo ingiustificato questo pessimismo, trovo
essenziale il richiamo ai "fini ultimi", che sono tutt'altro che
escogitazioni di filosofi, ma risultato di una lunga maturazione della
coscienza delle grandi masse popolari, che ha reso la classe operaia
capace di fermare la grande offensiva fascista - a cio' spinta non solo
da interessi di classe, ma anche da ben concrete motivazioni ideali.

     Tali motivazioni ideali non sono sogni o speranze o "fini ultimi"
nel senso in cui Bobbio deprecava l'introduzione nell'ambito del
discorso, ma la stessa scienza della politica (quella di cui lo stesso
Bobbio e' cosi' fine ed intelligente teorico), ormai socializzata: non
e' un caso che le masse popolari mostrinocontinuamente oggi, molto piu'
di quanto non sia avvenuto in passato, di essere in grado di reagire
positivamente alle provocazioni di violenza, riconoscendone
evidentemente le motivazioni politiche profonde. Il gioco di Pareto il
quale, nel 1921, teorizzava la strategia della tensione, teorizzava la
violenza rossa affinche' fosse possibile la violenza di segno opposto,
cioe'la repressione (che lui immaginava ovviamente giolittiana e non
fascista, ma questo qui non e' essenziale), oggi avrebbe scarse
possibilita' di riuscita: ma allora non era ancora incominicato quel
processo di demistificazione della strategia della tensione che,
divenuto grande fenomeno di massa, ha fatto in seguito fallire tutti i
calcoli ed i disegni dei politici e degli scienziati. Certo il processo
di acquisizione non e' del tutto compiuto, ma tali osservazioni servono
a giustificare il mio sostanziale ottimismo sulla progressiva
maturazione politica della classe operaia italiana e il mio conseguente
rifiuto di guardare le cose dell'oggi attraverso l'ottica falsante
della pretesa immobilita' della storia.

     Proprio perche' ci viviamo dentro, siamo forse portati a
trascurare gli elementi di novita' dell'attuale esperienza storica, che
vede una presenza cospicua di masse popolari condizionare la vita
politica del nostro paese.

     Ora questa maturazione non e' evidentemente riducibile ad un
semplice problema di "tecniche", ma ha a che fare con il problema dei
"fini". Il fine ultimo del comunismo, quali che siano state le tappe (e
le deviazioni) della sua storia, e' senza dubbio la liberta': ma una
liberta' che, fin dalle opere giovanili di Marx di critica
dell'economia politica, non sia mai disgiunta dalla comunita', nel
senso che gli aspetti sociali non siano piu' momenti estranei alla vita
dell'individuo, ma che la vita dell'inidviduo si possa arricchire di
questi momenti sociali. E' proprio partendo da queste premesse che Marx
ha denunciato la riduzione dell'uomo, nella societa' capitalistica, a
semplice prestatore di forza lavoro, proponendo, con cio' stesso, una
societa' diversa, la societa' dei produttori  che cooperano tra loro,
che scambiano tra loro non piu' merci, ma la loro intelligenza e le
loro capacita'. Nella nuova societa'la cooperazione (a livello
politico, ma anche economico) non sara' piu' forzata, come nel sistema
capitalistico, bensi' frutto della scelta libera degli individui,
capaci di riconoscere il proprio interesse e, nello stesso tempo,
l'interesse complessivo della societa': sara' cooperazione consapevole.
Il corrispettivo della cooperazione consapevole nel comunismo e', per
Marx, nel sistema capitalistico, la violenza: dapprima aperta e
sfacciata alle origini (si ricordino le splendide pagine a questo
proposito di un celebre capitolo del Capitale), poi abituale, struttura
stessa di movimento della societa' stessa. Nel capitalismo maturo la
violenza si e' formalizzata, spersonalizzata, regolarizzata attraverso
l'impostura del contratto e le forme giuridiche ad esso connesse, ma
non per questo ha cessato di essere tale. A questa violenza impersonale
e formale Marx ha sempre categoricamente escluso che avesse un senso
rispondere con atti di violenza individuale: svelando il carattere di
violenza della societa' capitalistica e togliendo alla classe dominante
il monopolio della scienza politica e di quella economica e delle stesse
scienze in generale, attraverso un lungo processo di assimilazione
sociale della cultura e del sapere, le forze produttive nel loro lato
soggettivo, cioe' gli individui sociali, sarebbero arrivati a sentirsi
proprietari della societa' nel suo complesso. La dialettica marxista
sostiene che il capitalismo si rovescia per le sue interne
contraddizioni, ma anche perche' gli uomini diventano tutti
compartecipi, "azionisti" (per usare un termine capitalistico) di
quella societa' che li vorrebbe semplice forza lavoro. Non e' un caso
che Marx passi gli utlimi anni della sua vita a leggere Morgan e i
grandi etnologi del suo tempo, che gli fornivano elementi a sostegno
della naturalita' del carattere comunitario della societa' umana,
carattere che andava pero' unito al problema del massimo sviluppo
possibile delle forze produttive nel loro lato soggettivo: non si
trattava di vagheggiare un ritorno al comunismo primitivo, ma di fare
della scienza, divenuta patrimonio comune, passando attraverso la
critica, una forza propulsiva, antidogmatica, antireificante, capace di
prospettare un fine, una meta del tutto nuova, perche' in grado di
unire ai caratteri comunitari dell'umanita' primitiva l'eredita' della
scienza come disponibilita' sociale del sapere.  Unendo questi
elementi, la possibilita' di creare un potere alle spalle delle masse
diventa sempre piu' difficile: questa e' la grande fede che anima noi
marxisti e, nonostante tutti i limiti a cui e' andato incontro durante
le fasi della sua storia, questo rimane il fine ultimo del marxismo
stesso ed e' anche la chiave esplicativa di tanti aspetti, per altri
versi incomprensibili, della storia del nostro presente.

     Rimane a questo punto da trattere il problema che Bobbio ha
chiamato delle "tecniche" e che per me, visto quanto detto prima, si
identifica con lo stesso problema delle formazione delle nuove forme
storiche. Marx ci ha dato, secondo me, un quadro teorico solo in
apparenza necessitato dello sviluppo della storia, perche' il passaggio
tra societa' capitalistica e comunismo non e' riducibile a un rapporto
di potere, per cui, elaborate da parte della classe operaia tecniche
appropriate, la vittoria sull'antagonista di classe risulterebbe
automatica. Ponendo la questione in termini di semplici tecniche",
cadrebbe il presupposto, indispensabile invece per evitare ogni
automatismo, di uno sviluppo di civilta' che porta alla nascita di una
nuova forza storica, la classe operaia, che non e' la vecchia
classe operaia che ha semplicemente affinato i suoi strumenti di lotta
di classe, ma una classe nuova, capace di diventare classe dirigente,
perche' ha assimilato socialmente la scienza e, proprio per cio', e'
immune dagli errori della scienza individualistica come lo scientismo e
la mitologizzazione della scienza stessa. Al di fuori della formazione
(Bildung) di questa nuova forza storica, il problema delle "tecniche"
ha poco senso.

     Certo il problema della nuova formazione si porta dietro quello
della diversita' delle situazioni e dei tempi storici: lo stesso
leninismo non e' la tecnica della presa di potere in generale, ma in
una certa forma di societa', contraddistinta dall'arretratezza della
vecchia comunita', da un lato, e, dall'altro, dall'insufficienza del
nascente capitalismo, per cui la soluzione che la classe operaia russa
offre con la creazione di un'avanguardia (il partito bolscevico)
naturalmente riflette questa situazione. Questo non significa, per
altro, che il concetto leninista dei rapporti di forza non sia un
concetto necessario; infatti dietro, l'incapacita' di valutare i
rapporti di forza si nascondono, oltre che l'impotenza, il sogno e
l'utopia - d'altronde, pero', dietro il loro esclusivo privilegiamento,
sta in agguato lo stalinismo, in cui l'eredita' dello sviluppo
industriale e la necessita'di non rimanere indietro su questo piano per
non essere piu' deboli, soffocarono lo sviluppo armonico della societa'
e uccisero la tolleranza.

     Ma, per tornare al nostro paese, la nostra storia e' legata
all'esperienza del fascismo, cioe' alla violenza aperta che ha visto
l'alleanza dei ceti medi con i grandi gruppi industriali contro la
classe operaia: ed e' legata al fondamentale contributo di quel grande
capo rivoluzionario che fu Gramsci, il quale, proprio negli anni in cui
la natura del fascismo si faceva piu' evidente, elaborava la necessita'
di una fase democratica di passaggio al socialismo. Certo egli la
immaginava estremamente breve, quasi una divaricazione tra la brevita'
dei tempi politici e la lunghezza dei tempi storici, ma non per questo
la reputava meno necessaria. E forse non sara' inutile sottolineare la
differenza tra la teoria gramsciana e quella engelsiana della
democrazia, per Engels semplicemente fase in cui la lotta di classe ha
modo di svilupparsi tramite avanzate e alleanze altrimenti impossibili.
Per Gramsci, invece, la democrazia e' un fatto ormai estraneo alla
classe borghese, di cui essa, in epoca di dominio monopolistico, non ha
piu' bisogno: l'esperienza italiana gli mostra che ormai l'unica
interessata a sostenere la democrazia e' la classe operaia, non perche'
la democrazia sia il socialismo, ma perche' e' pur sempre luogo di
transizione verso forme piu' libere di societa' (tale idea maturera',
in seguito, nella fase ultima del pensiero di Togliatti). Se la classe
operaia non vigilasse sulla democrazia, essa verrebbe immediatamente
travolta: lo abbiamo visto, proprio in questi ultimi anni, nel
Meridione, attraverso una lotta democratica popolare, si voglia essa
chiamare violenta o nonviolenta.

Prima di concludere, soltanto una precisazione riguardo a uno degli
interventi precedenti, in cui si citava Lenin nel mentre si
esemplificavano le lotte sindacali come forme di lotta nonviolenta.
Forse vale la pena di sottolineare che non sempre le lotte sindacali
sono state ritenute - specie da parte borghese - lotte nonviolente:
Sorel, autore di Considerazioni sulla violenza, che passa appunto per
un teorico di essa, teorizza la presenza della classe operaia in forma
massiccia nell'ambito della societa' dei produttori (che e' poi proprio
quello che lenin interpreta come nonviolenza).

     Concludendo: alla domanda se potrebbe esistere oggi in Italia la
democrazia senza la presenza di una grande forza storica organizzata
intorno ai partiti operai, dubito si potrebbe rispondere
affermativamente. La classe operaia oggi e' la sentinella della
democrazia, non coinvolta nel sistema, ma non abbastanza al di fuori da
rendere inutile il suo intervento; e questa e' una realta' sulla quale
bisogna meditare. Siamo in un periodo storico (del resto previsto da
Marx) di profonda trsformazione delle figure sociali e delle stesse
istituzioni e perche' cio' avvenga devono essere evitati scontri e
violenze, sia perche' gli stessi tempi di trasformazione siano
accelerati, sia perche' siano rese impossibili ricadute all'indietro.

     Questa mi sembra la specificita' dell'esperienza storica di oggi:
alla strategia della tensione siamo in grado di rispondere non nel
senso pacifista piccolo-borghese, per cui il tutto e' risolto a un
dialogo interno al sistema, ma vigilando sulla democrazia, non perche'
essa si mantenga qual e', ma perche' abbia modo di svilupparsi
ulteriormente, cioe' si realizzi quel fine di cui dicevamo prima. E il
fascismo e' violenza, e anzi ne e' la teorizzazione e la prassi piu'
coerente, la vera e coerente nonviolenza non puo' che essere la difesa
della democrazia.


in "Marxismo e Nonviolenza"  Genova 1977  Ed. Lanterna
a cura del Movimento Nonviolento
atti del convegno omonimo del 1975