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crescita impossibile e fine del progresso
- Subject: crescita impossibile e fine del progresso
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 12 Jan 2011 06:45:07 +0100
da il manifesto
Sabato 4 Dicembre 2010 Crescita impossibile e fine del progresso di Guido Rossi - Carla Ravaioli - 01/11/2010 Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa? Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di
fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso
economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro:
aumentare produzione e produttività, a tutti i costi.
Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione », con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori». Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a
scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro,
alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell’attività
umana è presente anche nell’ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene
che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra
tutti i popoli. Che non è vero.
E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se
n’è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.
E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccato livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l’intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò? Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della
crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E,
attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma
anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora
si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne
occupa.
Veramente l’ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema
che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza
senso... Si crea una società di cui l’unico scopo è il dovere di crescere
economicamente: d’altronde in base a parametri del tutto sballati, come il
Pil,
che non considerano affatto la qualità della vita. Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi… Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione? No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato... E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale. Non c’è dubbio. Anche su questo sono d’accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come Portando Clausewitx all’estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha. E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare... Perché l’ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare... Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra… Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l’ideologia che ha
vinto. Ed è un’ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a
caso ho citato l’ultima enciclica di Ratzinger.
Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l’1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto... Certo. Ma lei dimentica un’altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più,
della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre
l’economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi
comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta:
devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede
alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L’arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l’economia ha conquistato un predominio assoluto. A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della
disoccupazione tecnologica, il progresso l’hanno regalato al capitalismo: mentre
la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per
ripensare l’intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in
mano al capitale.
Dopotutto il progresso l’ha inventato lui… e se l’è tenuto ben stretto… Be’ per la verità l’ha inventato la scienza.... La quale è comandata dalla stessa ideologia… Anche perché hanno bisogno di finanziamenti... Però all’origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c’è il pensiero di uno scienziato... Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto… che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali. Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo. Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un’idea in testa. Questa è la verità. Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica. E non esiste una globalizzazione giuridica tra l’altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suomezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c’è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavorominorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta. E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali
d’altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come
si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma
nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.
Ma la ragione c’è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un’ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l’economia ha il sopravvento e s’impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo. Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un’opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno…
Non ci provano perché manca l’ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un’ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia. Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un’autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale. Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia …Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...
Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l’accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c’è una rivoluzione vera cosa si fa? Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni… secondo il modello storico… Che non è più possibile, ovviamente... Appunto. Per questo parlavo di BrettonWoods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l’autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati. Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l’ho scritto più volte… Perché l’Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi… E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil… Be’ sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell’Assemblea generale dell’Onu del ’48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall’economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista… Però io credo che l’utopia sia decisamente meglio dell’apocalisse: che è l’alternativa che ci aspetta. Guido Rossi è stato ordinario di diritto commerciale nelle Università di Trieste, Ca' Foscari di Venezia, Pavia e Milano, ed Emerito nell'Università L. Bocconi, poi docente di Filosofia del Diritto nell'Università Vita- Salute San Raffaele. Presidente della Consob dall’81 all’82, eletto senatore per la Sinistra Indipendente nella X Legislatura (1987- 1992), ha promosso le legislazioni antitrust, sulle Opa e sull'insider trading. Nell’89 ha sovrinteso ad operazioni finanziarie come l'acquisizione del Credito Bergamasco da parte del Crédit Lyonnais. È stato alla presidenza Ferfin-Montedison, e in seguito una prima volta alla guida della Telecom Italia. Ha tutelato per un anno gli interessi della banca olandese Abn Amro. Nel maggio 2006 è diventato, in seguito a «Calciopoli», commissario straordinario della Federazione Calcio. Vi rimarrà solo tre mesi. Il 15 settembre 2006, dopo le dimissioni di Marco Tronchetti Provera, viene nominato di nuovo presidente di Telecom Italia, incarico che lascerà nell’aprile 2007. Nel 2008 è consulente della Fiat nel tentativo di rilanciare la società in crisi. È direttore della Rivista delle Società dal 1975. È autore di diversi volumi tra i quali «Trasparenze e vergogna. Le società e la borsa», Il Saggiatore, 1982; «Il ratto del Sabine», Adelphi, «Il conflitto epidemico», Adelphi; «Capitalismo opaco» (con Federico Rampini), Laterza, 2005; «Il gioco delle regole», Adelphi, 2006, «Il mercato d'azzardo », Adelphi, 2008; «Perché filosofia», Editrice San Raffaele, 2008. |
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