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scacco matto all'interesse generale.Teoria dei giochi ed economia
- Subject: scacco matto all'interesse generale.Teoria dei giochi ed economia
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 13 Oct 2006 06:53:05 +0200
dal manifesto.it sett.2006
Scacco matto all'interesse generale Antagonismo incomplet e strategie di negoziazione sono espressioni per indicare che non sempre il conflitto è a «somma zero» Pubblicato per Bruno Mondadori l'inedito volume «La strategia del conflitto» del Nobel per l'economia 2005 Thomas C. Schelling. Un classico della teoria dei giochi applicata all'economia Tra dilemma del prigioniero e competizione, tra individualismo e tensione a cooperare. Un libro da leggere per meglio comprendere le politiche economiche del passato e presente governo Luigi Cavallaro Gli enfatici commenti sull'esistenza di una «spaccatura» nel nostro paese, che le ultime elezioni politiche avrebbero rivelato più drammatica di quanto non fosse percepibile dai sondaggi d'opinione, testimoniano che, per la stragrande maggioranza dei nostri maîtres a penser, il conflitto rappresenta uno stato patologico del sistema sociale, per il quale è necessario ricercare cure e medicamenti. Non è questo, tuttavia, l'unico modo in cui ci si può rapportare all'esistenza di un conflitto. Senza scomodare i marxisti, per i quali notoriamente la storia è fatta di lotte di classi, è altrettanto ampia (benché da noi minoritaria) la schiera di studiosi che danno invece per scontato che non esiste società senza conflitto e reputano pertanto più opportuno dedicarsi allo studio dei comportamenti di quanti vi prendono parte. Variano, semmai, gli approcci all'analisi di tali comportamenti: ci sono coloro che cercano di coglierne tutta la complessità risultante dalle componenti irrazionali e/o inconsapevoli che sempre allignano nelle motivazioni e nelle rappresentazioni degli attori del conflitto e ci sono coloro che invece li analizzano in quanto comportamenti razionalmente orientati alla «vittoria». È chiaro che, in questo secondo caso, l'analisi cessa di essere descrittiva per diventare normativa, trattandosi di individuare le «regole» da seguire quando si voglia davvero «vincere» la competizione. Ed è altrettanto chiaro che un approccio normativo richiede un certo grado di astrazione, tanto maggiore quanto più supponiamo che l'irrazionalità domini le rappresentazioni e le azioni dei partecipanti alla competizione. Poiché, però, non abbiamo elementi per ritenere che gli umani siano in preda alla follia, né per escludere che quest'ultima sia una forma raffinatissima di razionalità, non è detto che si tratti di un'astrazione empiricamente irrilevante. Supponiamo allora di vestire i panni di uno di codesti studiosi «normativi» e di dover individuare un modo per consentire all'Unione di «vincere» la competizione con i propri avversari. Poiché le elezioni sono ormai passate, non discutiamo di programmi ma di politiche: bisogna cioè comprendere quali politiche possano consentire all'Unione di strappare consensi nell'ambito di quel 49,73% degli elettori che ha preferito l'offerta politica della Casa delle libertà (senza ovviamente perdere per strada i propri). Legami strategici Sappiamo che, in questo momento, sono al vaglio dei policy-makers del centro-sinistra due alternative. Un esempio della prima, sostenuta dalla maggioranza dell'Unione, è l'editoriale di Ferruccio de Bortoli apparso sul Sole-24 Ore di domenica 30 aprile: bisogna affrancarsi dalle richieste non compatibili con lo stato delle finanze pubbliche e procedere alle necessarie correzioni di bilancio, cercando al tempo stesso di non pregiudicare la (precaria) ripresa in atto. Un esempio della seconda, timidamente avanzata da alcuni esponenti di Rifondazione comunista, è l'articolo di Emiliano Brancaccio pubblicato su questo stesso giornale il 22 aprile scorso: siccome esiste un «legame politico» fra conti esteri e conti pubblici, in ragione del fatto che l'attuale assetto dell'Unione europea esonera i «paesi forti» dall'effettuare politiche espansive per contribuire al riequilibrio e impone ai «paesi deboli» (come l'Italia) di rimediare ai loro deficit attraverso politiche economiche restrittive, svendite dell'industria nazionale e riduzione del lavoro a variabile dipendente, bisogna infrangere il tabù e affrontare lo squilibrio nei conti esteri attraverso l'emissione di titoli pubblici sul mercato europeo. Supponendo che entrambe perseguano lo stesso obiettivo, quale delle due è la migliore? Per rispondere, bisogna muovere da due premesse. La prima è che un problema del genere è un problema di «strategia», nel senso che il termine possiede nell'ambito della teoria dei giochi, dov'è impiegato per designare quella particolare categoria di giochi in cui la mossa migliore per ciascun giocatore dipende da ciò che fanno gli altri. La seconda premessa è che l'esistenza del conflitto e l'obiettivo di vincerlo non negano l'esistenza di interessi comuni né di interessi conflittuali fra i partecipanti: si tratta, piuttosto, di una situazione in cui c'è sia dipendenza, sia opposizione. La politica, in altri termini, non è un caso di «conflitto puro», in cui gli interessi dei due (o più) antagonisti sono completamente opposti; di conseguenza, «vincere» non vuol dire «vincere sui propri avversari», bensì «guadagnare rispetto al proprio sistema di valori». Si badi bene: avere «interessi comuni» non significa avere «valori comuni», ma semplicemente essere sulla stessa barca e dover cercare un modo per evitare che si capovolga. Sotto questo profilo, anzi, è necessario chiarire non solo che la «razionalità», nell'ambito della strategia del conflitto, non è altro che la logica interna ad un dato sistema di valori, ma soprattutto che ci sono casi in cui codesta «razionalità» può diventare un'incapacità strategica, dando luogo ai paradossi di cui Max Weber ci ha spiegato essere intessuta l'«etica della convinzione». Per convincercene, supponiamo che l'Unione decida di dar retta a de Bortoli e vari una maximanovra da 30 miliardi di euro, per approssimarsi al ripristino dell'avanzo primario. Se una cosa c'insegna il quinquennio 1996-2001 è che le conseguenze sociali delle «politiche di risanamento» si sono avvertite maggiormente là dove più forte è il consenso della Casa delle libertà, vale a dire fra le imprese del Nord-Est (che, benché gratificate dalla maggiore flessibilità immessa nel mercato del lavoro, hanno visto sparire, con l'adozione dell'euro, i margini di profitto prima assicurati dalla politica delle svalutazioni competitive) e la popolazione meridionale (che ha visto peggiorare senza scampo le proprie condizione di vita a seguito della chiusura dei rubinetti della spesa pubblica). Poiché è ragionevole attendersi che identiche politiche generino identiche conseguenze, c'è spazio per supporre che la maximanovra condurrebbe ad un inasprimento dello scontro con la parte «berlusconiana» del paese, che il Cavaliere avrebbe agio di cavalcare proclamando il (già) minacciato lo sciopero fiscale; e se a ciò si aggiunge che Rifondazione non potrebbe sopportare l'ennesima ricetta di «lacrime e sangue» senza perdere il proprio elettorato, c'è spazio per concludere che l'effetto finale della «razionalità risanatrice» sarebbe la caduta del governo Prodi e l'apertura di una stagione nella quale Berlusconi potrebbe nuovamente riproporsi come «uomo della Provvidenza». Basta la previsione di un consimile fallimento strategico a far preferire l'altra alternativa? Per rispondere, bisogna in primo luogo riconoscere che, sempre dal punto di vista della teoria delle decisioni strategiche, la relazione fra Ulivo e Rifondazione non è di natura dissimile a quella fra Unione e Casa delle libertà. Che si tratti, in altri termini, di una «partnership precaria» o di un «antagonismo incompleto» non muta per nulla i termini del problema: si tratta pur sempre di capire che la maggior parte delle situazioni conflittuali sono «situazioni negoziali», in cui cioè esiste la possibilità che certi risultati possano essere migliori (o peggiori) per entrambi. Il che, se conferma che la politica non è un caso di «conflitto puro», dimostra anche che non è sempre un caso di conflitto «a somma zero». Una comunicazione convincente
Un esempio famoso di conflitti di tal genere ce lo racconta Paul Watzlawick. Un ufficiale francese, durante uno dei molti disordini verificatisi nella Parigi dell'Ottocento, riceve l'ordine di sparare sulla «canaille», cioè sulla marmaglia, e conseguentemente ordina ai suoi soldati di mettersi in posizione di tiro contro la folla. Poiché i suoi uomini, a differenza della folla, sono armati, egli è certo di avere la meglio; tuttavia, è altrettanto certo che una strage inasprirà gli animi e, in prospettiva, acuirà quegli scontri che il suo intervento mira invece a sedare. Mentre sulla piazza cala un silenzio raggelante, estrae quindi la spada e grida: «Signore, signori, ho ricevuto l'ordine di sparare sulla canaille, ma vedo davanti a me un gran numero di cittadini onesti e rispettabili. Li invito perciò ad allontanarsi per essere certo di sparare solo sulla canaille». Ed ecco che, in pochi minuti, la piazza si svuota: l'intervento dell'ufficiale ha tratto la situazione fuori dal contesto che fino a quel momento conteneva la truppa e la folla e l'ha «ricontestualizzata» in modo da farla risultare accettabile a entrambe le parti. Non c'è dubbio che il risultato rappresenti un guadagno rispetto al sistema di valori dell'ufficiale, ma - e qui sta il punto - la sua strategia viene premiata perché si fonda su una «comunicazione convincente» che, pur ribadendo la propria impossibilità di sottrarsi all'obbligo di sparare, riesce a tener conto di ciò su cui l'altra parte non avrebbe ceduto, vale a dire una resa senza condizioni. Qui balza evidente l'importanza che, in una negoziazione, assume l'«agenda»: fra i principali mezzi d'indennizzo della controparte c'è infatti la concessione su altre materie, tant'è che uno dei modi in cui ciascuno dei due contendenti può assicurarsi una posizioni di vantaggio consiste nel tenere isolate contrattazioni sulle quali è invece possibile istituire una relazione. Sotto questo profilo, bisogna riconoscere che l'idea di ripristinare la «scala mobile», che circola in alcuni ambienti politico-sindacali della sinistra radicale, rappresenta un elemento capace di indebolire l'alternativa delineata da Brancaccio: da un lato, perché l'ala liberal dell'Unione potrebbe farla propria per scambiarla con un depotenziamento à la Ichino del contratto nazionale; dall'altro lato perché, per motivi che qui non mette conto indagare, il common sense associa all'indebitamento pubblico la minaccia d'inflazione e la scala mobile è uno strumento che enfatizza la dinamica ascensionale dei prezzi; nessun governo, quindi, accetterebbe di giocare con l'Unione europea la partita del deficit ipotizzata da Brancaccio in presenza di una miccia di tal genere. D'altra parte, riconoscere la necessità di una politica dei redditi antinflazionistica quale contropartita dell'opzione favorita non significherebbe, per Rifondazione, sposare l'assetto che ha governato le nostre relazioni industriali nell'ultimo decennio: è anzi evidente che quest'ultimo ha fallito nel suo obiettivo principale, cioè convincere le imprese che tentare di variare la distribuzione del reddito con l'arma del rialzo dei prezzi è controproducente. Punizioni negoziabili
Il motivo è semplice. Come si ricorderà, l'essenza della politica dei redditi si riassume nel concetto di «inflazione programmata»: governo e parti sociali si accordano sull'obiettivo di inflazione da conseguire in un certo periodo e i lavoratori accettano di negoziare aumenti salariali coerenti con l'inflazione ipotizzata; se alla fine del periodo considerato l'inflazione dovesse rivelarsi più alta di quella prevista, saranno le imprese a pagare la differenza. Come in tutti i giochi di reciprocità, la tenuta dell'accordo - il fatto cioè che prevalgano comportamenti cooperativi rispetto a quelli competitivi - dipende dalla credibilità delle «punizioni»: è chiaro che, se qualcuna delle parti coinvolte ha motivo di ritenere di poter «competere» (cioè di poter tradire l'accordo) senza incorrere in alcuna punizione, troverà conveniente «defezionare». Per le imprese, in particolare, la punizione è credibile solo se esse sanno per certo che qualunque innalzamento dell'inflazione rispetto a quella programmata le esporrà comunque a pagare salari più alti. Il problema è che il famoso «lodo Ciampi» del luglio 1993 prevede che, in caso di scostamento fra l'inflazione programmata e l'inflazione effettiva, la misura del riallineamento debba essere oggetto di «contrattazione» fra le parti sociali. Il che non implica soltanto che i lavoratori debbono negoziare per due volte la misura del proprio compenso, ma che le imprese sono incentivate a tenere comportamenti «inflazionistici», dal momento che la presenza di un significativo scostamento fra l'inflazione programmata e quella reale consente loro di contrattare da una posizione di forza: quanto più si concede sul lato del recupero dell'inflazione, tanto più si risparmia su diritti, tempi di lavoro, ferie. Se a ciò si aggiunge che la misura del recupero dipende anche dalla quantità di inflazione «importata» e che ciò ha sempre incentivato le imprese ad innalzare i prezzi in presenza di rincari delle fonti energetiche, piuttosto che ad ammortizzare i maggiori costi con incrementi di produttività (e qui forse può cogliersi una delle ragioni dell'aggravarsi del declino della nostra struttura industriale), si comprende come non «la» politica dei redditi ma quella politica dei redditi sia la principale responsabile della spaventosa perdita di potere d'acquisto dei salari negli ultimi dieci anni. Con altre regole, idonee a distruggere la «potenza di rappresaglia» delle imprese, le cose sarebbero potute (e potrebbero ancora) andare in termini diversi. Queste considerazioni abbiamo tratto dalla lettura di un vecchio ma non invecchiato libro di Thomas C. Schelling, La strategia del conflitto, pubblicato originariamente nel 1960 e adesso presentato per la prima volta in edizione italiana, per la cura di Michele Alacevich (Bruno Mondadori, pp. 360, € 28). Nella prefazione, l'autore - premio Nobel per l'economia 2005 - ricorda di aver gradito più di tutti l'apprezzamento che gli venne da John Strachey, economista marxista britannico e ministro della Difesa nel primo governo laburista del dopoguerra: «semplicemente, il mio libro gli aveva fatto comprendere la possibile esistenza di un conflitto a somma non-zero». Sarà forse il caso che anche a Palazzo Chigi se lo procurino. |
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