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decrescita un dibattito aperto
- Subject: decrescita un dibattito aperto
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 17 May 2006 06:31:04 +0200
da pensare la decrescita di paolo
cacciari
Introduzione alla decrescita Ciclicamente, a sinistra, si riaccende un antico litigio tra economisti ed ambientalisti, tra scienziati sociali e scienziati delle varie forme della vita presenti sulla terra su come sia possibile (e, prima ancora, se sia possibile) "coniugare" le ragioni della preservazione della natura e quelle della qualità della vita delle popolazioni umane, misurata anche in termini di reddito, consumi e accesso a servizi. Volendo semplificare molto, si tratta di una divergenza di opinione tra chi ritiene che la questione ambientale abbia uno spessore specifico autonomo, irriducibile alla razionalità del calcolo economico e perciò debba essere assunta dalla società come un a-prìorì, una precondizione per la governarne mondiale (la natura vista come un bene indispensabile, quindi indisponibile alla negoziazione mercantile, alla stregua dei diritti fondamentali alla vita, alla salute, alla libertà e alla dignità della persona) e chi, dall'altra, ritiene che essa sia risolvibile solo collocandola all'interno di un mutamento sociale dei rapporti di produzione e delle strutture di potere, che rimane quindi il campo privilegiato dell'agire politico, quello "vero", l'unico capace di determinare risultati concreti spostando i rapporti di forza tra le classe e i poteri in gioco. A sostegno della seconda tesi, quella che potremmo definire del "primato della politica", mi piace ricordare, paradossalmente, proprio un vecchio scritto militante di due pionieri dell'ambientalismo: Commoner e Bettini. Se si va all'origine di ogni problema ambientale si scopre una realtà fondamentale: alla radice della crisi non sta il modo in cui l'uomo interagisce con la natura, ma il modo in cui gli uomini interagiscono tra loro: cioè per risolvere i problemi ambientali dobbiamo risolvere i problemi della povertà, dell'ingiustizia razziale e della guerra. Come dire: soltanto una grande rivoluzione sociale capace di modificare i rapporti di produzione e di potere potrebbe salvarci dalla catastrofe ecologica. A sostegno della prima tesi (quella che chiede di porre il mondo fisico e biologico al centro di ogni azione politica e che pone i fondamenti della bioeconomia), per continuare nel gioco dello scambio delle pani, è di rigore ricordare la teoria dei limiti naturali contrapposta a qualsiasi modello di sviluppo economico ipo-tizzabile (non solo quelli del mercato e del "socialismo reale", ma anche quelli che passano sotto le sofisticate formule della compatibilita e della sostenibilità elaborata dall'economista Georgescu-Rogen: "Neppure lo stato stazionario è compatibile con un ambiente limitato'"'. Un modo per dire che nessuna rivoluzione sarà salvifica se non ci farà uscire dal mito della crescita economica illimitata. Le due posizioni, sulla carta, non sembrano inconciliabili. Tutte e due, infatti, non negano l'esistenza di una progressiva crisi ambientale planetaria e concordano sulla necessità di fuoriuscire dalle leggi dell'economia capitalistica (di mercato, più o meno regolamentato e pianificato). Tutte e due riconoscono che il processo di snaturalizzazione della natura e di disumanizzazione dell'umano (devastazione e alienazione) è parte di una unica logica. Proviamo solo ad immaginarci quale inferno sia destinato a diventare un mondo in cui le proiezioni demografiche (al 2015) indicano che i tre quarti della popolazione saranno concentrati in 40 megalopoli6. Una urbanizzazione forzata oltre che dalle guerre, dalle carestie e dalle epidemie, anche dai "rifugiati ambientali": 10 milioni di persone costrette ogni anno a migrare a causa delle "catastrofi lente" come la desertificazione e l'insterilimento dei suoli agricoli, l'erosione delle coste, la salinizzazione delle falde acquifere, il disboscamento delle foreste, l'esaurimento delle risorse idriche7. Le descrizioni di Engels o Dickens delle condizioni di vita nelle coketown inglesi della rivoluzione industriale sembrano racconti per bambini in confronto alla baraccopoli di Korogocho di Nairobi che ci ha fatto conoscere Alex Zanotelli o alla Bombay di Salaam Bombay! o alle Città morte americane di Mike Daviss. Per la prima volta nella storia nel 2007 la popolazione urbana supererà quella delle campagne^. E non si tratta di una libera scelta, di una preferenza tra "stili di vita" rurali o cittadini. Si viene a creare, così, la situazione descritta da Vandana Shiva per l'India: "Un gran numero di contadini che erano autosufficienti sono stati allontanati dall'agricoltura e non hanno il potere d'acquisto necessario a comprare gli alimenti prodotti e distribuiti secondo crìteri commerciali"10. C'è chi ha descritto l'immane processo di inurbamento dell'ultimo ventennio in Cina (dal 19% al 36% della popolazione) come la creazione di un esercito di riserva mondiale al servizio della produzione industriale. L'umanità si sta accalcando nello 0,19% di superficie terrestre occupato da insediamenti urbani che generano una "impronta ecologica"11 ben superiore alla intera superficie della terra, essendo le città - come ricordava il maestro dell'ecologia E. P. Odum - "sistemi eterotrofi", organismi di fatto parassitari che per nutrirsi e ricavare l'energia necessaria alla propria sopravvivenza hanno bisogno di altri individui. Troppo facile ironizzare sul rovesciamento dell'antica funzione civilizzatrice svolta dalle città medioevali: "Stadtluft Macht Frei" ("l'aria di città rende liberi") che lo storico Cipolla, da poco scomparso, ricordava riferendosi alle città tedesche delXIII secolo che offrivano "opportunità al servo delle campagne, al mercante e all'artigiano intraprendente". Oggi, le periferie della megalopoli sono il luogo della esclusione^. Come ha scritto Marco Revelli "La nuova metropoli è senza società, a-sociale, inabitabile, vuoto di relazioni, di legami e di socialità [...] un serraglio di classi e ceti in odore di morte". Nonostante sia a tutti chiaro l'avvicinarsi di catastrofi umane, prima che ambientali, le divergenze politiche tra ambientalisti ed economisti emergono pesanti non appena si passa alle proposte di cosa e come fare per provare a delineare una strada per una transizione dal capitalismo a nuove forme economiche e sociali meno distruttive ed inique. Vari, impegnati tentativi di integrare dentro un quadro teorico unitario le questioni ambientali e sociali, alla prova dei fatti, non sono riusciti ad influenzare le volontà politiche delle sinistre di cultura marxista e ambientalista. Insamma, non c'è condivisione sulle terapie da adottare. La controprova di questa difficoltà è data dal fatto inconfutabile che non è ancora nato un vero, influente movimento "rosso-verde", a cui comunque sarebbe obbligatorio affiancare il colore rosa e l'intero iride dell'arcobaleno, per indicare le altre principali contraddizioni che minano le fondazioni della società umana: discriminazione di genere e natura violenta del potere. La violenza dell'uomo sull'uomo, sulla donna, sulla natura rimane l'elemento ordinatore dei rapporti di produzione e di potere, quindi sociali, nel capitalismo. Ma non solo qui. Per dirla con Edgar Morìn, la violenza sta nel "potere del potere"; è presente in epoche stanche e con orientamenti sociali diversi, quasi si trattasse di un elemento antropologico culturalmente radicato, tale da farci pensare di vivere ancora nella preistoria della civiltà. Se è così, alludere ad una società di liberi ed eguali, ad una democrazia sostanziale di comunità capaci di auto-organizzarsi al proprio interno e di rapportarsi all'esterno secondo principi di cooperazione e reciprocità, senza esercitare violenza nella utilizzazione e distribuzione delle risorse del pianeta né tra le "genti" (sempre più divise da patriottismi nazionali, etnici, tribali, religiosi), né tra i generi (separati tra lavoro produttivo e riproduttivo e di cura), né tra le generazioni (contrapposte tra le presenti e le future), né tra Nord e Sud del mondo, né tra le classi... significherebbe davvero avere in mente un'idea di società in radice inconciliabile con l'attuale. Un percorso politico di riconoscimento e cooperazione tra individuo, specie, società. In un vecchio scritto, pubblicato nel 1991, Ernesto Balducci afferma: A mio giudizio, l'emergenza ecologica chiede alla classe operaia non già di mettere in secondo ordine la sua critica al capitalismo ma semmai di svelarne fino in fondo la contraddizione che esso apre non solo, come era evidente ai tempi di Marx, all'interno del processo di produzione (la contraddizione tra capitale e lavoro) ma, più radicalmente, all'interno dello stesso processo con cui il lavoro umano trasforma la natura. La contraddizione economica interna ad una contraddizione ben più profonda, quella antropologica. La prima lasciava intatto il progetto globale della rivoluzione industriale e metteva in questione soltanto il rapporto tra i suoi attori, il capitalista e il lavoratore: la seconda mette in questione il progetto industriale in quanto tale. Pur credendo ancora in una rì-finalizzazione degli strumenti della tecnica applicati alla produzione, Claudio Napoleoni, lo stimato autore degli Elementi di economia politica (Firenze, 1980), negli stessi anni, giungeva ad analoghe drastiche, chiare conclusioni: Non potremmo più limitarci ad immaginare un nuovo modello di sviluppo; la frase "nuovo modello di sviluppo" è priva di senso: se si tratta di un nuovo modello, questo non è più un modello di sviluppo [...]. Non credo che sia vero che si possa risolvere contemporaneamente il problema di una maggiore quantità di crescita e di una modifica della qualità dello sviluppo. Napoleoni era impegnato negli ultimi tentativi di tenere ancorato il Partito Comunista Italiano ad una visione di trasformazione anticapitalistica della società e stava criticando il Programma di medio periodo presentato da Reichlin in un seminario interno, nel gennaio del 1988, in piena deriva social-liberal-democratica, dove - a parole e con consueta doppiezza - la Dirczione occhettiana tentava di tenere assieme mercato e valori tradizionali solidarìstici del movimento operaio. Napoleoni così argomenta: In realtà il maggior sviluppo quantitativo, il raggiungere traguardi determinati sul terreno della competitivita internazionale, significa rafforzare tutte le tendenze negative del sistema [...] la separazione del lavoro e i bisogni, è il dominio del mercato come meccanismo impersonale e la fine dell'autonomia dell'uomo e della sua soggettività. [...] È il piano, insomma, in cui si riprende la tematica dell'inclusione dell'uomo moderno dentro meccanismi, non importa se pubblici o privati, che lo dominano, ne espropriano l'autonomia, ne fanno l'elemento di una macchina; è anche il piano questo in cui si parla di distruzione della natura e di questione femminile. Interessante notare che nello stesso perìodo analogo dibattito era aperto in Francia e Germania ad opera soprattutto di Andre Gorz. A fronte del nuovo Programma di lungo periodo elaborato dalla Spd21, peraltro molto avanzato, Gorz ne rileva le ambiguità: L'imperativo economico del rendimento è fondamentalmente diverso dall'imperativo ecologico del risparmio. La razionalità ecologica consiste nel soddisfare i bisogni materiali al meglio con una quantità più ridotta possibile di beni [...] quindi con un minimo di lavoro, di capitale e di risorse naturali. Invece, la ricerca del massimo rendimento economico consiste nel vendere con un profitto più alto possibile e un massimo di produzioni realizzate con il massimo dell'efficienza, cosa che esige una massimizzazione dei consumi e dei bisogni [...] segno della razionalizzazione ecologica può riassumersi con lo slogan "meno ma meglio". [...] la modernizzazione ecologica esige che gli investimenti non servano più alla crescita ma al calo dell'economia, vale a dire al ridimensionamento della sfera governata dalla razionalità economica nel senso moderno del termine. Ora, dopo tanti anni di afasia, una nuova occasione per una ripresa del confronto ci è offerta dalla critica alla globalizzazione messa in campo dai movimenti altermondialisti e dalla diffusione di pratiche di lotta e di esperienze fuori e contro mercato. Tra questi il "movimento antiutilitarista nelle scienze sociali" che nel suo Manifesto sulpost-sviluppo scrive: Di fronte a una globalizzazione che rappresenta il trionfo planetario del tutto-è-mercato, bisogna concepire e promuovere una società nella quale i valori economici smettano di essere centrali (o unici). L'economia deve essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. [...] Si tratta di mettere al centro della nostra vita significati e ragioni d'essere diversi dall'espansione della produzione e del consumo. Su questa linea va anche l'Appello lanciato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo che da molti anni opera sul versante del consumo e del commercio responsabile ed ispira movimenti e reti sociali2*. Un filone di pensiero che attinge ampiamente alle note tesi avanzate già nei primi anni '70 del secolo scorso da Ivan Illich contro ['"ideologia dello sviluppo illimitato", gli effetti perversi, "controproduttivi "del "sovrasviluppo " industriale, la necessità di affermare una "austerità equilibratrice e gioiosa". Ma questa idea, secondo cui bisognerebbe perseguire una decrescita (è questa la parola incriminata, il nome di una eresia in corso) volontaria, consapevole e selettiva delle produzioni e dei consumi industriali, per scendere dalle spalle delSudpovero delmondo, ridurre la dipendenza dall'importazione di materie prime e lasciare qualche speranza di futuro alle generazionifuture, suscita stizzite reazioni in molti economisti e politici anche della sinistra. C'è chi la intende come una autentica provocazione snobistica e moraleggiante ai danni delle masse povere del mondo (le popolazioni più indigenti hanno ancora bisogno di accrescere anche quantitativamente i loro consumi), c'è chi la critica anche sul piano delle politiche economiche pratiche. I nostri economisti temono che sposare le ragioni della natura per la cui conservazione vengono richiesti cospicui investimenti possa comportare (a parità di produzione sociale e di quote destinate a profitti e rendite) un drenaggio di plusvalore ai danni della massa salariale. Quindi, dal punto di vista del funzionamento economico, nelle attuali concrete circostanze e negli attuali rapporti di forza tra le classi^ sarebbe meglio non enfatizzare le questioni ambientali e, tantomeno, sostenere il bisogno di una decrescita economica. La decrescita non sarebbe altro che un modo per dire recessione, declino, disoccupazione. L'esito sarebbe un ulteriore depauperamento delle classi povere. Così la proposta finirebbe per configurarsi come un gratuito favore concesso ai gruppi economici dominanti, alle forze del padronato che hanno da sempre tutto l'interesse di pagare meno la forza lavoro, contenere i salari, diretti e differiti, a favore di profitti e rendite. In definitiva l'ambientalismo non sarebbe altro che un Cavallo di Troia della borghesia (vedi la schiera di "contesse illuminate" e di "colonnelli verdi" che popolano fin dall'inizio i partiti verdi) per tenere i poveri lontani dai nostri livelli di vita. Per contro, i sostenitori della decrescita giurano che il loro obiettivo non è impoverire i poveri, ma al contrario sottrarli al loro destino e affermano che l'idea di limitare le produzioni e i consumi inutili e dannosi è l'unica realmente capace di indicare la via di fuoriuscita dalla trappola produttivista e consumistica, riuscendo a porre davvero in discussione l'essenza dei rapporti sociali che legano e subordinano il lavoro al capitale. Nessun "sacrificio", nessuna austerità imposta dall'alto per "patto di stabilità" o " legge finanziaria" o per politica dei redditi, nessun romantico pauperismo, quindi, ma rìdefinizione del concetto di ricchezza (svincolata dall'idea di valore mercantile) nel nome dell'equità, della responsabilità e dell'accettazione della finitezza delle risorse naturali™. L'idea della decrescita o di una società "oltre lo sviluppo" non è distante
dall'ipotesi di Walden Bello sulla "deglobalizzazione".
Insomma, a me pare che persista a sinistra un confuso intreccio con continui salti logici tra piani diversi del discorso, teorico e pratico; tra narrazioni di altre società possibili e rivendicazioni immediatamente esigìbili; tra l'esigenza di affermare forti principi etici che devono presidiare l'azione sociale e l'urgenza di fissare programmi minimi di governo. Quasi sempre, però manca una verìfica sul campo, un confronto sulle esperienze vive in atto, sui conflitti in corso, così come \ sulle "buonepratiche"che amministrazioni locali, gruppi di cittadini, famiglie e individui singolarmente mettono in atto nella propria vita quotidiana. Spesso quindi il confronto politico si trasforma in una Babele, a volte persino grottesca, tra persone animate da sincere intenzioni, molto radicali e antagoniste e che si accusano reciprocamente di muoversi più o meno consapevolmente all'interno di logiche funzionali all'avversario. Su questi argomenti la discussione è aperta da molto tempo e si ha la sensazione che tutto sia stato già detto e scritto. Il mio, quindi, è solo un tentativo di appuntare i termini della questione, senza alcuna pretesa di "chiudere il cerchio "dellapolitica ambientale della sinistra. Aggiungo solo che in questo scritto uso il termine decrescita come concetto sintetico che intende significare de-costruzione delle modalità concrete (produzione, consumo, accumulazione di capitale) con cui si realizza la crescita economica nelle società industrializzate e bisogno di ri-fondare una teoria di politica economica che affidi a forme di lavoro e di scambio socialmente ed ambientalmente sostenibili la fornitura di beni e servizi equamente distribuiti^. In mio aiuto giungono le numerose riflessioni che negli ultimi anni, dai
Social forum di Porto Alegre, si stanno svolgendo attorno al concetto di "beni
comuni". L'idea è quella di "sognare" (per usare il linguaggio di Petrella^) una
nuova economia dove sia possibile a chiunque produrre e procurarsi i beni
necessari senza limitare capace di indicare la via di fuoriuscita
dalla trappola produttivista e consumistica, riuscendo a porre davvero in
discussione l'essenza dei rapporti sociali che legano e subordinano il lavoro al
capitale. Nessun "sacrificio", nessuna austerità imposta dall'alto per "patto di
stabilità" o " legge finanziaria" o per politica dei redditi, nessun romantico
pauperismo, quindi, ma rìdefinizione del concetto di ricchezza (svincolata
dall'idea di valore mercantile) nel nome dell'equità, della responsabilità e
dell'accettazione della finitezza delle risorse naturali.
L'idea della decrescita o di una società "oltre lo sviluppo" non è distante
dall'ipotesi di Walden Bello sulla "deglobalizzazione"31.
Insamma, a me pare che persista a sinistra un confuso intreccio con continui salti logici tra piani diversi del discorso, teorico e pratico; tra narrazioni di altre società possibili e rivendicazioni immediatamente esigìbili; tra l'esigenza di affermare forti principi etici che devono presidiare l'azione sociale e l'urgenza di fissare programmi minimi di governo. Quasi sempre, però manca una verìfica sul campo, un confronto sulle esperienze vive in atto, sui conflitti in corso, così come \ sulle "buonepratiche"che amministrazioni locali, gruppi di cittadini, famiglie e individui singolarmente mettono in atto nella propria vita quotidiana. Spesso quindi il confronto politico si trasforma in una Babele, a volte persino grottesca, tra persone animate da sincere intenzioni, molto radicali e antagoniste e che si accusano reciprocamente di muoversi più o meno consapevolmente all'interno di logiche funzionali all'avversario. Su questi argomenti la discussione è aperta da molto tempo e si ha la sensazione che tutto sia stato già detto e scritto. Il mio, quindi, è solo un tentativo di appuntare i termini della questione, senza alcuna pretesa di "chiudere il cerchio "dellapolitica ambientale della sinistra32. Aggiungo solo che in questo scritto uso il termine decrescita come concetto sintetico che intende significare de-costruzione delle modalità concrete (produzione, consumo, accumulazione di capitale) con cui si realizza la crescita economica nelle società industrializzate e bisogno di ri-fondare una teoria di politica economica che affidi a forme di lavoro e di scambio socialmente ed ambientalmente sostenibili la fornitura di beni e servizi equamente distribuiti^. In mio aiuto giungono le numerose riflessioni che negli ultimi anni, dai Social forum di Porto Alegre, si stanno svolgendo attorno al concetto di "beni comuni". L'idea è quella di "sognare" (per usare il linguaggio di Petrella^) una nuova economia dove sia possibile a chiunque produrre e procurarsi i beni necessari senza limitare Introduzione le stesse possibilità ad altri esseri umani, senza "recare danno o sofferenze ad alcuno", come ricorda Prestipino. Molto semplicemente, servirebbe mettere in pratica un semplice, antico concetto "etico-politico" di libertà e giustizia in cui ognuno sviluppi l'accortezza di non fare ad altri quello che non vorrebbe fosse fatto a sé stesso. O, in positivo: "Assicurare a tutti le stesse possibilità di fare, secondo le attitudini o inclinazioni di ciascuno, e le stesse possibilità di avere, secondo le proprie necessità"^. Insamma, nientemeno che un comunismo per il nuovo secolo! 18 |
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