quando l'urbanistica sfugge di mano 5 : urbanistica fai da te



da repubblica.it
lunedi 10 ottobre 2005
 
Le città crescono senza governo oggi vince l’urbanistica fai da te

Le aree dismesse attraggono gli interessi convergenti di finanzieri, politici e burocrati senza in realtà portare alcun beneficio alle metropoli. Soltanto nei piccoli centri, dove le giunte funzionano, salirà la qualità della vita

STEFANO FERA

C’era una volta l’urbanistica. C’era una volta, cioè, l’arte di costruire le città, che era non solo l’arte di abbellirle, ma era soprattutto l’arte di decidere come dovessero crescere, espandersi e modificarsi. E non c’è bisogno di andare troppo indietro a ripescare papi postavignonesi, né monarchi megalomani, né Prefetti della Senna. Basta andare agli anni ‘70 del Novecento, quando ancora, con buona pace delle diàtribe condominiali tra urbanistiurbanisti e urbanistiarchitetti, nel miraggio di una società, se non proprio rivoluzionata, almeno riformata, ancora si credeva che le città si potessero progettare sulla base di logiche, vuoi scientifiche, vuoi empiriche, comunque diverse dalle semplici, inesorabili logiche del mercato immobiliare. Insomma, c’era una volta l’urbanistica che, quando voleva aprire una strada o una piazza, nel corpo vivo della città come in un campo di grano, l’apriva e basta, colle buone o colle cattive, con la moral suasion o con l’esproprio. La città andava avanti seguendo un suo disegno, più o meno bello, più o meno sensato, ma comunque un disegno che aspirava a una visione globale volta a coniugare la parte col tutto. Oggi sappiamo che questa idea e questa pratica dell’urbanistica non possono più darsi. La forma della città non può più essere governata da nessuno, né, tanto meno, disegnata da nessuno. E non è solo questione di complessità, come amiamo ripeterci, ma è soprattutto perché non esiste autorità in grado di opporsi, da un lato alla forza della rendita fondiaria, dall’altro, alla totale burocratizzazione del governo della città e del territorio.
La percezione della debacle urbanistica è netta a partire dai primi anni ‘80, quando, col crollo delle illusioni ideologiche e rivoluzionarie, la disciplina sembra ridursi all’arredo urbano. Gli unici interventi praticabili nell’arco degli effimeri cicli amministrativi sono ormai il rifacimento di pavimentazioni, nonché la moltiplicazione di fioriere, panchine e lampioni. A risollevarne le sorti depresse giunge provvidenziale la legge Tognoli del marzo ‘89, in virtù della quale ha inizio l’epopea dei cosiddetti "parcheggi fai da te". Non c’è scantinato, cortile, giardino o qualsivoglia pertugio all’interno del territorio urbano che non sia debitamente scandagliato e sondato al fine di ricavarne il massimo numero di posti auto. La legge Tognoli fa scuola e insegna che la fantasia popolare, in materia d’urbanistica, ha punti da dare alle più accese immaginazioni architettoniche. Dal piccolo al grande il passo è breve. Si capisce ben presto che la stessa tecnica del parcheggio fai da te può essere applicata con profitto alle grandi aree industriali dismesse. La ricetta è semplice. Si prenda un ex insediamento industriale, il più grande possibile, preferibilmente all’interno di una città del Nord, magari in zona non troppo periferica, o comunque ben servita da infrastrutture viarie e ferroviarie, nonché dal sistema dei trasporti pubblici. Si crei una cordata di investitori, possibilmente pochi ma buoni. Si dia incarico a qualche professionista dello star system internazionale, magari anche ricorrendo ad un agile concorso ad inviti, tanto per non sembrare troppo autocratici. Quindi, come nel gioco del Monopoli, si dia inizio alle contrattazioni. Il vecchio Piano Regolatore è un cimelio d’altri tempi, quel che conta non è la norma urbanistica, ma la possibilità di variarla in corso d’opera. La città se ne va per conto suo. Non dove sarebbe meglio e più logico che andasse, ma dove sono reperibili le grandi aree e dove finanzieri, politici e burocrati riescono ad accordarsi tra loro. Nell’epoca dell’urbanistica fai da te il ruolo dell’urbanista muta radicalmente. Egli non ha più, ne più finge d’avere, un mandato collettivo, quale arbitro incaricato di definire norme valide per tutti, capaci di garantire un più equo governo della città. Oggi egli è soprattutto un mediatore al servizio dei grandi investitori e il suo compito è quello di piegare le norme, di adattarle su misura a questa o a quella operazione. La principale dote che gli si chiede non è dunque l’imparzialità, bensì la capacità di far dialogare i vari soggetti e, nel contempo, d’imbonire l’opinione pubblica. Per esempio raccontandogli la storia delle città policentriche, in base alla quale sistemi urbani fortemente accentrati e monocentrici, come è soprattutto quello di Milano, improvvisamente sentirebbero l’irrefrenabile bisogno di "un sistema di nuove centralità", alternative al centro storico, a piazza del Duomo, alla Scala. Quale sia il fondamento di queste teorie è bene illustrato dall’intera vicenda della Bicocca, nonché dall’inesorabile destino a luci rosse che sembra attendere dietro l’angolo il mesto cinemateatro degli Arcimboldi.
Tuttavia, sarebbe peccare di presunzione pensare che l’urbanistica fai da te sia un’invenzione e una prerogativa tutta italiana. Il grande progetto tatcheriano per Canary Warf, nella zona dei Docks di Londra, offre forse uno degli esempi più clamorosi in materia. I fratelli Reichman, industriosi developers canadesi, del tutto ignari di Tognoli e delle sue leggi, ma all’incirca nei suoi stessi anni di gloria, riuscirono a montare una delle più mastodontiche operazioni immobiliari d’Europa mostrando al mondo l’efficacia dell’urbanistica fai da te. Non solo ottennero il permesso di costruire una quantità spaventosa di metri cubi, non solo riuscirono a farsi collegare la loro area alla City per mezzo della Jubilee Line, ma soprattutto fecero quel che fecero infischiandosene dello stralunato contesto urbano in cui operavano. Canary Warf offre oggi una delle più crude rappresentazioni dei problemi che questi grandi progetti possono produrre.
Ma almeno un merito l’urbanistica fai da te forse lo ha. Col suo cincischiare entro il perimetro di cantiere, col suo affarismo avventuriero, con la sua mancanza di coordinamento tra la parte e il tutto, sta facendo tornare la voglia di grandi piani, di grandi visioni urbane, nonché la voglia di mettere ordine, smettendo d’aggiungere caos al caos. Ancora è da capire come, dove e quando si potranno avere tali nuovi piani. Forse, non nelle grandi aree metropolitane, dove i valori immobiliari sono troppo alti e gli appetiti toppo forti. Forse, nelle piccole e medie città, dove le macchine amministrative non sono ancora locomotive impazzite che viaggiano senza guidatore. Ma il bello dell’Italia contemporanea è proprio questo e cioè che l’innovazione e la qualità della vita oggi s’incontrano più facilmente ben oltre i confini delle grandi città.