trasporto urbano , clima e petrolio



da qualenergia bimestrale di legambiente n 1 2005
 
Trasporto urbano, clima e petrolio
di Gianni Silvestrini
La ratifica del Protocollo mette a nudo la debolezza delle politiche energetiche italiane
Era tutto prevedibile, fin dall'aprile 2002 quando vennero recepite le Direttive sulla qualità dell'aria. In assenza di una politica vigorosa e concertata tra i livelli nazionale, regionale e comunale, le nostre città nel 2005 (anno di entrata in vigore dei limiti) avrebbero irrimediabilmente sorpassato il limite delle 35 giornate con concentrazioni di PM10 maggiori di 50 microgrammi/m3 e in molti casi anche la soglia annuale dei 40 microgrammi/m3.
Contemporaneamente l'assenza di una seria politica di mobilità sostenibile (imputabile in parte anche ai precedenti governi) ha favorito la crescita incontrollata delle emissioni di anidride carbonica: tra il 1990 e il 2004 esse sono aumentate del 25%, in totale controtendenza con gli obiettivi di Kyoto.
Ma oltre agli aspetti giuridici connessi con il rischio di sanzioni, la gravita della situazione è sottolineata dai risultati degli studi sull'impatto sanitario dell'inquinamento atmosferico. Ultimo in ordine di tempo è quello dell'Unione Europea che valuta in 39.000 i morti ogni anno in Italia (Aea Technology Environment). Si tratta di un numero che è poco meno della metà dei decessi r-provocati dal fumo nel nostro Paese. Ministro Sirchia, batti un colpo!
In realtà la responsabilità primaria in questo campo spetta al ministero dell'Ambiente. Ma il quadro che emerge dall'azione di Matteoli è disarmante. Nel febbraio del 2002, a fronte di un'analoga emergenza con città del nord bloccate dal PM10, promise un "piano antismog". In realtà l'unico topolino partorito fu un incentivo ai ciclomotori Euro2 (ahimè, inizialmente erogato anche ai più inquinanti Eurol).
La proposta di elaborare un ennesimo piano nel 2004 è analogamente sfociata in un paio di interventi privi di una logica complessiva e senza un collegamento con le azioni di altri ministeri.
Solo la posizione finalmente dura delle città, paurosamente vicine al raggiungimento di 35 superamenti giornalieri del livello di soglia, ha portato lo scorso febbraio a un segnale di attenzione rispetto alla drammaticità della vicenda, con il reperimento fortunoso di 350 milioni di Euro per riqualificare il parco di autobus (con la beffa finale che in realtà la cifra verrà in parte utilizzata per coprire il contratto degli autoferrotranvieri...).
Anche in questo caso si è trattato di una risposta parziale (l'incidenza dei trasporti pubblici sulle emissioni di PM10 è del 7,7%) e disancorata da una priorità degli interventi da attivare. Sentiamo il commento di Roberto Della Seta, presidente di Legambiente: «Tra i diversi interventi per una mobilità sostenibile c'è sicuramente anche quello dello svecchiamento della flotta dei bus. Ma gerarchizzando gli interventi quello della rottamazione dei bus sarà forse al sesto o al settimo posto. Viene prima una politica di investimenti per le linee di trasporto veloce di superficie (tranvie su ferro), viene prima una politica infrastrutturale che mette al centro i collegamenti fer-roviari tra il comune capoluogo e quelli limitrofi, viene prima una diversa politica fiscale sull'auto (incentivi a chi non la usa, disincentivi a chi la usa spesso), una diversa politica della mobilità urbana (oggi viaggia in sede protetta solo I "I % dei bus, si dovrebbe tendere al contrario), viene prima il principio del "chi usa paga" introducendo ticket e pedaggi per le aree più congestionate».
Considerando che la maggior parte degli effetti negativi degli inquinanti e una quota molto elevata dell'anidride carbonica legata al trasporto si concentra nelle aree urbane è chiaro che gli sforzi si dovrebbero concentrare nelle città. Ma i finanziamenti per le reti di trasporto, come è noto, in questi anni sono invece andati alle infrastrutture extraurbane.
Ma aldilà della mancanza di finanziamenti in questo settore, il Ministero dell'ambiente ha brllato per la propria assenza nel dare un indirizzo a Regioni ed Enti locali in questa delicata battaglia. A fronte dell'inadeguata predisposizione da parte delle Regioni dei Piani di qualità dell'aria previsti dai decreti di recepimento della Direttiva europea, il ministero non ha infatti svolto un ruolo di sollecitazione e di supplenza, come prevede la normativa. Anche rispetto a iniziative che pure avevano avuto un grande effetto di coinvolgimento dell'opinione pubblica sulle problematiche della mobilità, come le domeniche ecologiche, sì è disinteressato lasciando sole le città, E quando è comparsa la proposta di adottare ìn Italia il "Road pricing", che tanto successo ha avuto a Londra, Matteoli è intervenuto per esprimere il suo dissenso.
Insomma una desolante incapacità di indirizzo e di iniziativa che ha contribuito non poco all'attuale gravissima situazione, con il risultato dì bloccare le città del Nord, di avvelenare i polmoni e dì far rischiare dure sanzioni al Paese.
Proprio per focalizzare l'attenzione su queste problematiche e sulle strette connessioni con la variabile energetica, molti degli articoli di questo numero sono centrati sulla mobilità e i trasporti.

Riflessi sull'impostazione italiana sul clima
L'altro tema che occorre approfondire riguarda la sfida di Kyoto, un appuntamento da alcuni temuto e che molti consideravano per spacciato, ma che con il 16 febbraio è divenuto per l'intero mondo un punto di non ritorno.
A poco più di 1.000 giorni dal 1 gennaio 2008, data in cui si comincerà a conteggiare la riduzione delle emissioni, si possono fare alcune considerazioni:
- raggiungere l'obiettivo di Kyoto in Italia sarà impossibile con i soli interventi fatti "in casa" e improbabile anche con l'acquisizione dei crediti derivanti da riduzioni effettuate all'estero (50 Mt/a stimate dal Governo con un costo di 2 miliardi €). Dunque pagheremo. Pagheremo caro acquistando crediti di carbonio provenienti dalle finte riduzioni della Russia o dell'Ucraina;
- a fronte di questa prospettiva urge un colpo deciso di remi per far decollare un'efficace politica di interventi nel nostro Paese. Occorre insediare una vera "cabina di regia per Kyoto" che coinvolga i Ministeri interessati e le Regioni;
- a proposito delle Regioni è auspicabile che si arrivi a una distribuzione condivìsa degli impegni con obiettivi differenziati di contenimento delle emissioni (analoga al "burden sharing" con cui sono stati attribuiti i tagli dei gas dimalteranti all'interno dell'UE);
- una politica intelligente sull'efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili porterebbe a minori emissioni pari a 35 Mt CO^/anno nel periodo 2008-12. Secondo uno studio del Kyoto Club, una strategia coraggiosa ìn questi settori potrebbe consentire nel prossimo decennio di incrementare del 60% il fatturato dei settori industriali coinvolti
- l'impiego dei meccanismi flessibili come il CDM (C/ean Development Mechanism) e Jl (Joint Implementation) - che consentono di trasferire tecnologie pulite all'estero in cambio di crediti di carbonio - è auspicabile solo se attuato congiuntamente alle politiche interne;
- non bisogna però sottovalutare problemi e controindicazioni di questi strumenti. Innanzitutto attivare progetti per decine di milioni di tonnellate nei pochi anni che ci separano dal 2012 non sarà semplice. Inoltre va considerato che gli interventi effettuati all'estero non consentono di godere dei vantaggi ambientali collaterali (qualità dell'aria) degli interventi interni, cosa che riduce il vantaggio economico dei meccanismi CDM e Jl. Infine, l'abuso di questo strumento porterebbe il nostro Paese in una posizione di forte svantaggio nei periodi successivi a Kyoto. Sarebbe come se, in una gara di salto in alto, ci trovassimo con l'asticella posizionata più in alto rispetto agli altri concorrenti. Supponiamo infatti che al 2020 all'Italia venga chiesto di portare la riduzione dal -6,5% al -15%. È chiaro che lo sforzo nel prossimo decennio sarebbe ben maggiore se, ad esempio, il livello delle emissioni, come è stato annunciato, nel 2010 restasse sui livelli del 1990 grazie all'utilizzo dei meccanismi flessibili.
 
Critiche all'impostazione americana sul clima
Come si sa, gli Usa non hanno ratificato il Protocollo con la motivazione che avrebbe comportato costi eccessivi per l'economia statunitense e non avrebbe coinvolto i Paesi in via di sviluppo. A giustificare questa posizione di retroguardia (non si può toccare \'american wayoflife) è stata elaborata una debole linea di difesa, non tanto nascostamente appoggiata dall'Italia. Secondo questa impostazione è meglio aspettare la messa a punto di soluzioni tecnologiche molto avanzate (disponibili fra 10-20 anni) per far fronte alle drastiche riduzioni future. Si tratta di un'argomentazione fallace per i seguenti motivi:
- in assenza di politiche di riduzione immediate, il livello delle emissioni si accrescerebbe rapidamente rendendo più ardui i tagli successivi, accentuando gli impatti ambientali e incrementando la possibilità di "sorprese climatiche";
- una visione "miracolistica" di break-through tecnologici può portare a delusioni o alla verifica di incompatibilità ambientali;
- al contrario lavorare da subito alla diffusione delle tecnologie più innovative consente di —> abbassarne rapidamente i costi; /
- puntare principalmente sugli avanzamenti tecnologici rischia di portare a una sottovalutazione delle misure "soft", comportamentali, organizzative e gestionali che garantiscono risultati interessanti a costi limitati;
- analogamente, un approccio spinto "hard" favorisce una minore responsabilizzazione dei vari attori (ad esempio gli Enti locali) che sono decisivi per il raggiungimento di incisivi risultati.
Torna l'attenzione sul petrolio
Chiudiamo questa riflessione concentrandoci sul petrolio, il cui prezzo sulla piazza di New York è tornato a superare i 55 dollari al barile. Ci si sta ormai rendendo conto che le quotazioni elevate non sono passeggere e che il prezzo potrebbe continuare a crescere. Sul fronte dei giacimenti, dopo la Shell, quest'anno anche la spagnola Repsol ha dovuto ammettere di avere sovra-stimato le proprie riserve. Analizzando poi l'entità dei nuovi ritrovamenti nello scorso anno, circa 7 miliardi di barili (Gb), si rilevano due elementi inquietanti. Intanto, l'entità delle scoperte è stata inferiore ai consumi (28 Gb), come ormai accade da più di 20 anni. Inoltre il costo delle esplorazioni è risultato doppio rispetto al valore del petrolio trovato.
A livello produttivo si notano difficoltà a incrementare l'offerta. Sull'Arabia Saudita, principale produttore, si nutrono dubbi che l'eccessivo tasso di estrazione stia erodendo la sostenibilità dei pozzi (tesi tra l'altro sostenuta da Matt Simmons, uno dei consiglieri di Bush). Anche dal fronte del secondo produttore, la Russia, vengono segnali poco rassicuranti: il presidente della Agenzia federale energetica russa Sergei Oganesyan prevede che dal 2005 in poi il suo Paese non sarà più in grado di incrementare l'offerta come aveva fatto negli anni scorsi.
Più in generale, sono oltre 30 i paesi che hanno raggiunto il picco di produzione e presentano livelli decrescenti di estrazione del greggio.
Contemporaneamente Cina e India continuano ad aumentare i consumi obbligando l'Agenzia
internazionale dell'energia a rivedere a 84,3 Mb/g (1,8 Mb/g in più rispetto al 2004) le previsioni sulla domanda di greggio di quest'anno.
Il futuro petrolifero si presenta insomma quanto mai caldo. I prezzi sembrano destinati a rimanere alti sul medio periodo, creando le condizioni per un forte sviluppo delle tecnologie sull'efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili e dando una mano al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto