gli errori che cementano le infrastrutture



da lavoce.info
23-05-2005
Gli errori che cementano le infrastrutture
Andrea Boitani

I dati Eurostat sulle infrastrutture di trasporto ci dicono che la densità
della rete stradale italiana, misurata dal rapporto tra chilometri di
strade e 100 chilometri quadrati di territorio, è superiore alla media dei
paesi dell'Unione Europea a 15 e inferiore solo a quella di Francia e
Inghilterra. Nel rapporto tra chilometri di strade e mille abitanti,
invece, l'Italia fa registrare un indice inferiore a quello della media
europea, di Francia, Spagna e Austria, ma superiore a quello di Germania e
Inghilterra. Se però si guarda soltanto alle strade "superiori", cioè
autostrade e strade nazionali, scopriamo che il nostro paese ha una densità
più elevata della media europea, anche rispetto alla popolazione.

Il mito delle carenze infrastrutturali

Le carenze sembrano dunque riguardare soprattutto le strade regionali. Ma l'Italia
ha un'estensione enorme di strade provinciali e comunali, spesso di ottimo
livello, per il 50 per cento destinate al traffico extra-urbano. Guarda
caso, la stragrande maggioranza del traffico è costituito da percorrenze
inferiori ai 50 chilometri, per le quali strade provinciali e comunali sono
particolarmente adatte. Non esistono dati affidabili sulla congestione
stradale, ma è ragionevole pensare che sia assai differenziata nelle
diverse aree del paese e che, perciò, qualsiasi discorso "aggregato" sia
fuorviante. Nel caso della rete ferroviaria, i due indici di densità sono
rispettivamente uguale (quello per territorio) e inferiore (quello per
popolazione) alla media europea ed entrambi inferiori a quelli registrati
nei grandi paesi (a esclusione della Spagna). D'altra parte, le ferrovie
tedesche portano 1,7 volte i passeggeri-km trasportati dalle ferrovie
italiane, quelle francesi 1,6 volte. Anche il traffico merci risulta più
intenso di quello registrato sulla rete italiana che, dunque, nel complesso
non può definirsi congestionata. Assai più preoccupante è però la
situazione delle reti ferroviarie regionali, soprattutto quando in una
Regione siano presenti una o più grandi aree metropolitane.
Quanto agli aeroporti, in Italia se ne contano quarantaquattro (per uso
civile), di cui solo diciassette hanno un traffico superiore al milione di
passeggeri l'anno. Nel complesso (nel 2000) in Italia il traffico aereo
interno e diretto ad altri paesi europei era di soli 24 miliardi di
passeggeri-km l'anno, contro 50 dell'Inghilterra, 39 della Germania, 59
della Spagna e 29 della Francia. Quindi le potenzialità di crescita sono
ancora molto ampie e, se si esprimeranno, la carenza della nostra capacità
aeroportuale emergerà.

Le grandi opere sono sempre le più utili?
I problemi di congestione vanno risolti caso per caso. In alcune situazioni
è necessaria la grande opera, in altre è molto più utile il piccolo
intervento. Soltanto un esame preciso dei flussi di traffico presenti e di
accurate previsioni su quelli futuri consente di impostare un'attendibile
analisi dei costi e dei benefici dei vari progetti.
A ciò va aggiunto che i tempi di realizzazione delle grandi opere sono,
quasi sempre, molto lunghi: le soluzioni finiscono per essere disponibili
dopo troppo tempo, quando i problemi potrebbero essere diventati altri.
Indipendentemente dal rapporto tra costi e benefici nel lungo periodo - che
pure dovrebbe contare qualcosa in un mondo di risorse scarse - è evidente
il pregio delle "piccole opere", capaci di migliorare presto la qualità dei
servizi, per le attività economiche che dipendono maggiormente dalle
infrastrutture (come la logistica). Dunque, la Legge obiettivo, che si
concentra quasi esclusivamente sulle grandi opere, non renderà un buon
servizio al paese.
Mentre la "Legge obiettivo per le città" - inserita dal Governo nel disegno
di legge per la competitività (articolo 5) - non sembra destinata ad avere
effetti apprezzabili, per la prevedibilmente scarsa dotazione di risorse
finanziarie.

Il debito che verrà
La storia delle opere pubbliche nel nostro paese, da circa quindici anni, è
anche la storia della favola del project financing all'italiana. In Italia,
purtroppo, il project financing ha finito per identificarsi con il "modello
Tav", un complesso sistema messo in piedi nel 1991 per realizzare
"rapidamente" le linee per l'alta velocità ferroviaria. La "Legge
obiettivo" lo ha interamente recepito per tutte le grandi opere, escluse
quelle realizzate dai concessionari autostradali. Non è il caso di entrare
qui nei dettagli del modello Tav e nella sua storia.  Vale solo la pena di
ricordare che, come osservava l'Antitrust già nel 1996, attribuisce di
fatto tutti i rischi allo Stato (direttamente o tramite Fs spa) e tutti i
profitti ai cosiddetti general contractor (e alle banche creditrici). Un
simile meccanismo è, di per sé, tale da far emergere rilevanti esigenze
finanziarie pubbliche negli anni a venire. Inoltre, i contratti con i
general contractor non creano alcun incentivo alla riduzione dei costi.
Anzi, ne creano di significativi al loro incremento ben al di sopra del
tasso di inflazione. Il costo previsto nel Dpef 2003-2005 per le ventuno
opere prioritarie della Legge obiettivo era di 77,5 miliardi di euro. Nel
Dpef 2005-2008 era già salito a oltre 85 miliardi (+ 9,75 per cento). Il
costo previsto nei contratti del 1991 per le tratte ad alta velocità era di
5,67 miliardi di euro. Nei contratti rinnovati nel 2003, per le stesse
tratte, arrivava a 23,4 miliardi di euro, con un incremento del 410 per
cento. Per gli interventi nei principali nodi ferroviari il costo previsto
è aumentato del 325 per cento. E ci sono fondati motivi per pensare che, in
realtà, le previsioni siano molto sottostimate, anche perché non sembrano
tener conto degli interessi intercalari.
Estrapolando queste tendenze, si può ragionevolmente prevedere l'effetto
sul debito pubblico del modello Tav applicato ai più rilevanti progetti
della Legge obiettivo.

Contro la strategia dell'inseguimento
Spesso l'opposizione accusa il Governo di essere incapace di realizzare le
opere pubbliche approvate, lasciando intendere che, ove fosse messa dagli
elettori nelle condizioni di governare, le realizzazioni sarebbero molto
più rapide e numerose. Assai meno convinta sembra essere, l'opposizione,
nella critica alla strategia delle grandi opere, mentre la stessa
contrarietà alla Legge obiettivo è apparsa spesso più orientata a tutelare
i poteri di veto delle Regioni e degli enti locali che non a svelarne i
meccanismi di incentivazione perversa e il potenziale di devastazione dei
conti pubblici.  Si sono sentite critiche perché gli stanziamenti per
investimenti pubblici non sono aumentati o sono stati ridotti per l'anno
corrente. Meno voci si sono levate per opporsi alle opere che si
intendevano finanziare, la cui utilità non è mai stata correttamente
valutata. Del resto, anche nell'attuale opposizione la cultura della
valutazione stenta ancora a farsi strada, nonostante l'approvazione, nel
2000, di un Piano generale dei trasporti che rappresentava una
significativa innovazione sotto questo profilo. E il centrosinistra, quando
era maggioranza, impiegò oltre quattro anni per rendersi conto che il
modello Tav era potenzialmente molto dannoso, arrivando troppo tardi alla
cancellazione dei contratti per le opere non cantierate, disposta solo con
la Legge finanziaria per il 2001 (e immediatamente annullata dal governo
Berlusconi I.
Una riflessione seria sul tema delle infrastrutture è invece necessaria.
Soprattutto, l'alleanza guidata da Prodi dovrebbe evitare la tentazione di
promettere qualcosa in più e di più mirabolante di quanto annunciato dal
Governo in carica. Agli elettori (e agli operatori) si dovrebbe dire
chiaramente che le scarse risorse disponili saranno concentrate su poche
opere essenziali: grandi o piccole, volte, però, ad affrontare la crisi
delle grandi aree metropolitane e le esigenze della logistica. E da
realizzare in tempi brevi con finanziamenti trasparenti, sotto
responsabilità amministrative precise e inderogabili. Sui guasti del
modello Tav si impone una onesta "operazione verità", con la promessa di
una nuova cancellazione dei contratti, per salvare la finanza pubblica.