cultura , un bene comune



da il manifesto - 29 Gennaio 2005

SOUZA SANTOS
«Cultura, un bene comune»
«Difendere la scuola pubblica, autogestire la formazione»
BENEDETTO VECCHI
INVIATO A PORTO ALEGRE

Per incontare lo studioso portoghese Boaventura Souza Santos bisogna
superare mille difficoltà, rappresentatate da altrettante persone che voglio
farsi fotografare con lui, parlargli dei progetti sociali a cui partecipano,
farsi fare un autografo su una copia di un suo libro. Da questa parte del
mondo Boaventura, filosofo del diritto, è una specie di piccola star, mentre
in Italia solo recentemente sono apparsi alcuni suoi scritti sulla rivista
Democrazia e diritto, mentre la casa editrice Città aperta ha pubblicato un
libro da lui curato («Democratizzare la democrazia») e un piccolo saggio
dedicato al «popolo di Porto Alegre». Ieri mattina Boaventura parlava in un
seminario sui processi di «mercificazione della cultura» al termine del
quale lo abbiamo incontrato.

Lei ha parlato del diritto di accesso alla cultura come un diritto
universale. Ma nel mondo non sempre è così. Oppure esiste solo in base al
censo....

In Europa, questo diritto è stato garantito dalla scuola pubblica. Ma da
alcuni anni anche nel vecchio continente vi è una tendenza alla
privatizzazione dell'università, una tendenza che va contrastata. Noi tutti
siamo cresciuti con la convinzione che l'acculturazione sia lo strumento per
formare cittadini consapevoli dei propri diritti e che quindi preserva dai
processi di esclusione sociale. Per molti aspetti questa rimane un'idea
valida, ma ci sono anche altri sentieri che sono stati battuti. Prendiamo le
esperienze delle università autonome o di quelle popolari. Le prime
rivendicavano l'autonomia della cultura da qualsiasi ingerenza sia politica
che economica. Le seconde nascevano, invece, come risposta all'esclusione
dalla cultura, dall'educazione, insomma dalla formazione voluta dalle elite
dominanti in molti paesi nel Sud del mondo.

Mi sembra che siano esperienze esportabili anche in Europa o negli Stati
uniti. E tuttavia, io ritengo che ci debba essere una politica statale che
favorisca l'accesso alla cultura. Bisognerebbe pensare a un sistema dove lo
stato garantisca il diritto alla cultura attraverso ingenti finanziamenti e
aiuti anche quelle esperienze di autorganizzazione della formazione. Ma
bisogna fare attenzione: va assolumente garantito il carattere pluralistico
dell'insegnamento.

Qui al Forum sociale si parla molto del diritto alla educazione, ma allo
stesso tempo viene sottolineato che la formazione è un diritto che va
riconosciuto perché consente di entrare nel mercato del lavoro, visto che
nell'economia la conoscenza assume un ruolo sempre più importante.
Prendiamo, ad esempio, le imprese transnazionali che vanno in India, Cina,
Filippine e altri paesi. Lo fanno perché pagano salari molto più bassi che
in Europa o negli Usa, ma anche perché sono paesi che nel loro processo di
modernizzazione hanno puntato molto alla formazione di buoni tecnici,
ingegneri, fisici, matematici. Ecco, dovremmo cominciare a pensare alla
cultura come una una delle componenti che stanno ridisegnando l'economia
mondiale e misurare l'affermazione del diritto di accesso alla cultura con
questa nuova realtà.

Un altro dei temi che tengono banco in questa edizione del forum sociale
mondiale è a democrazia. Bisogna però dire che spesso, in passato, la
democrazia è stata lo strumento usato per garantire e riprodurre il potere
delle elite dominanti. Lei ha spesso scritto che bisogna democratizzare la
democrazia. Pensava forse a questa contraddizione?

Non nego che sia avvenuto e avvenga tutt'ora ciò che lei dice. Ma io sono
portato a considerare la democrazia come un processo in cui entrano in campo
istituzioni, diritti, ma anche movimenti sociali. La democrazia va quindi
affermata come un processo conflittuale, dinamico, aperto alla
trasformazione. Nel Sud del mondo, ad esempio, molti studiosi hanno
considerato i diritti di cittadinanza come la negazione delle forme
oligarchiche del potere statale nei loro paesi. D'accordo con loro, ma
dobbiamo pensare a diritti di cittadinanza flessibili, perché nel Nord come
nel Sud del mondo ci sono grupppi sociali, culturali, etnici che vogliono
vedere riconosciuta la loro diversità. Così come pensiamo alla democrazia
come a un processo conflittuale e dinamico, dobbiamo pensare nello stesso
modo ai diritti di cittadinanza.

Veniamo al rapporto tra movimenti sociali e potere politico nazionale e
sovranzionale. Un nodo spinoso, che accende gli animi....

Finché si discute con passione significa che il problema merita di essere
affrontato. Io considero i movimenti sociali come una forma della politica.
Non credo, cioè, alla divisione classica tra lotte sociali e sintesi
superiore della politica. I movimenti sociali sono dunque realtà politiche
che sono portate a riflettere sul loro fare. Ma in questa riflessione deve
entrare un ulteriore elemento: come la loro azione modifica le istituzioni.
Uso un termine neutro, perché sono mutamenti contradditori e non sempre
auspicabili. Servirebbe una pratica teorica che partendo dai conflitti
sociali indichi anche la strada maestra della trsformazione anche delle
istituzioni.