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il pensiero unico uccide la giustizia
- Subject: il pensiero unico uccide la giustizia
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 23 Oct 2004 06:59:38 +0200
da articolo21.com 19/10/2004 di Antonio Caronia Serge Latouche: Il pensiero unico uccide la giustizia da L'Unità Il suo ultimo libro tradotto in italiano si intitola Giustizia senza limiti (Bollati Boringhieri, pagine 281, euro 22), una formula che Serge Latouche ha abilmente «rubato» a George Bush (Enduring Justice era il primo nome con cui il presidente americano indicò la reazione americana all'11 settembre), rovesciandone il senso. In questo libro Latouche fa un'analisi dell'economia nell'era della mondializzazione e ne denuncia la fondamentale ingiustizia. Ma introduce sin dall'inizio un concetto caro al pensiero ecologista, quello di «limite». Che relazioni ci sono fra giustizia e limite, ai tempi della mondializzazione? «Le due cose, a mio parere, sono strettamente legate: se la giustizia, come dice il titolo del mio libro, si presenta "senza limiti", è perché viviamo in una società senza limiti, con un'economia senza limiti, che tende a formare un mondo unico con un pensiero unico, e immagina che questo basti per avere una società giusta. Questa è l'ideologia liberale e, dunque, dopo aver denunciato l'impostura del mondo ridotto a mercato, mi sono sentito chiamato a denunciare l'impostura di un mondo che vorrebbe essere giusto, ma "senza limiti". Perché io credo che la giustizia sia, prima di tutto, una questione di limiti. La giustizia, come indicò già Aristotele, risiede essenzialmente nella misura: un mondo senza limiti è legato all' atteggiamento che i greci hanno chiamato hybris, qualcosa appunto che è eccessivo, "fuori misura", sia per quanto riguarda la giustizia che la società più in generale. Ma al stesso tempo il paradosso, anzi il vero e proprio inganno, consiste nel fatto che non si fa altro che parlare di etica. Non abbiamo mai avuto tanta "etica": a livello economico le imprese adottano delle "carte etiche", i governi formano dei comitati per l'etica, la bioetica, e così via. La costruzione di questa società, mondiale, globale crea effettivamente un' aspirazione all'etica, e questo accade perché in questa fase l'economia perde ogni orientamento morale, ogni nozione di giustizia (se mai ne ha avuta una), al punto che attualmente è quasi impossibile stabilire il confine tra l'economia "normale" e l'economia criminale. La cosa è chiarissima: l'economia normale si "criminalizza" sempre di più, con i paradisi fiscali, le zone franche, etc. I paradisi fiscali sono luoghi di riciclaggio di denaro sporco, e tutti gli stati e tutte le imprese li utilizzano. La Francia ha Monaco, l'Inghilterra le isole anglo-normanne o l' isola di Mann, gli Usa le isole Cayman. Ogni paese ha il suo paradiso fiscale. E tutti i tentativi di commissioni parlamentari sui paradisi fiscali sono miseramente falliti. In Francia ce n'è stata una, ma anche in altri paesi. Anche gli americani, dopo l'11 settembre, si sono resi conto che il terrorismo si finanzia attraverso il sistema finanziario internazionale, e hanno cercato di controllare il processo; ma anche loro hanno dovuto abbandonare il campo. In effetti, non si capisce più se è il denaro sporco che finanzia le imprese normali, o se sono le imprese normali che finanziano le imprese terroristiche e i progetti criminali». Il quadro che lei delinea non è certo roseo. Lei si considera ottimista o pessimista sulla possibilità di raggiungere un grado accettabile di giustizia, in questa situazione? «La questione della giustizia non è separabile dalla questione dell'avvenire del mondo, dalla situazione più generale nella quale ci troviamo. E su questo insieme di problemi devo rifarmi anch'io alla famosa formula di Gramsci: "pessimismo della ragione, ottimismo della volontà". È vero che, se ragioniamo logicamente, a partire dalle tendenze attuali, dagli orientamenti dominanti, non c'è dubbio che ci aspettano conseguenze catastrofiche, effetti spaventosi. Però io credo anche fermamente in quella che si potrebbe chiamare "pedagogia delle catastrofi", penso cioè che le catastrofi abbiano anche un aspetto dialettico, che possano essere un'occasione per rimettere in questione gli orientamenti, le scelte, per correggere il tiro. Ciò è vero per la giustizia, per la crisi ecologica, per la crisi sociale. In ciascuno di questi ambiti abbiamo di fronte la stessa hybris, la stessa dismisura. Stiamo distruggendo l'ecologia del pianeta. È vero non abbiamo tutti le stesse responsabilità: ci sono delle persone, dei gruppi, delle società che inquinano, altre che non inquinano affatto, ma sfortunatamente ciò non ha alcun effetto sulle prospettive. Se il pianeta esplode, noi esplodiamo con lui. In questo momento, insomma, dobbiamo concludere che siamo tutti sulla stessa barca. E quindi è nostro interesse fare qualcosa». Nelle sue analisi, lei utilizza con grande parsimonia la nozione di «classe». Come possiamo leggere allora, nella situazione odierna, la struttura sociale delle società capitalistiche? «Certo, oggi è molto difficile parlare di "lotta di classe" come se ne parlava una volta. Eppure le contraddizioni di classe, oggi, sono più forti che mai. Il problema è che il concetto di classe è un concetto in divenire, perché le classi sono sottoposte al processo di mondializzazione, come tutto ciò che avviene oggi nel mondo. L'analisi marxista classica, tradizionale, non è mai riuscita a produrre una lettura davvero internazionale dei fenomeni di classe. Ora, se vogliamo entrare nel merito, il problema non è tanto che non ci sono più contraddizioni di classe, ma al contrario che ce ne sono troppe. Ci sono contraddizioni tra i lavoratori immigrati e i lavoratori delle nazioni occidentali, tra i lavoratori, che so?, cinesi e gli operai europei, e all'interno dell'occidente tra i lavoratori di diversi paesi. Ma il problema più importante, ad ogni modo, è che la struttura sociale e l'immaginario sono sempre più collegati; e quindi anche le lotte sociali sono influenzate dai processi di manipolazione dell'immaginario sociale, e in modo molto forte. In definitiva, non ho mai detto e non dirò mai che non ci sono più le classi; ma effettivamente oggi è più difficile di ieri fare una seria analisi in termini di classe, perciò può essere che si possa dire che anch'io l'ho utilizzata poco. La questione non mi sembra nuova. Già negli anni sessanta si dimostrò difficile legare il discorso delle classi all'interno dei paesi sviluppati con le contraddizioni internazionali fra primo, secondo e terzo mondo; e l' emergere di posizioni «terzomondiste» fu una conseguenza di queste difficoltà. Non sarà la classe operaia dei paesi capitalisti che ci salverà, dicevano allora alcuni, ma le masse oppresse del terzo mondo. Che differenze vede fra il dibattito sul terzomondismo negli anni sessanta e settanta e quello attuale? «La situazione di adesso è molto più complicata. Lo vediamo anche qui da noi, nell'occidente. La difesa dei meccanismi di protezione sociale, ad esempio, genera nuovi conflitti all'interno delle nostre società. Si è creata una nuova classe, quella dei disoccupati, che non sono rappresentati da alcun sindacato, eppure hanno problemi enormi: ma le loro rivendicazioni, spesso, non sono prese per nulla in considerazione da quelli che invece il lavoro ancora ce l'hanno. È una contraddizione molto difficile, come si può capire. Poi c'è il problema dei contadini senza terra, che già ora è un grossissimo problema in America Latina, e che si avvia a diventando un problema enorme anche in Cina. Insomma, una situazione e delle modalità di cambiamento di questo tipo non si lasciano interpretare facilmente con una semplice "analisi di classe". Insomma, forse non sappiamo bene quali siano oggi le classi sfruttate, o le classi più sfruttate. In compenso sappiamo benissimo chi è il nuovo padrone del mondo (come dice Le monde diplomatique), e cioè la lobby delle aziende transnazionali. Qui si vede benissimo come funzionare un potere economico arrogante, onnipotente e manipolatore. E questo aspetto della manipolazione, attraverso i media, attraverso la pubblicità, è una dimensione enorme, che non è mai stata davvero presa in considerazione dalle analisi marxiste. Mentre è una dimensione nuova e molto importante, che mette in gioco gli apparati ideologici dello stato come quelli del potere economico, e rappresenta un avversario temibile, di cui tener conto e contro cui mobilitare il maggior numero di forze possibile».
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