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le nuove tecnologie nucleri
- Subject: le nuove tecnologie nucleri
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 19 Sep 2004 07:57:45 +0200
da boiler.it 10 settembre 2004 giornale di scienza, innovazione e ambiente Andrà a grafite il reattore sicuro? di SPENCER REISS E' IL MOMENTO, per la Cina, di affrontare il rovescio negativo dello sviluppo. I blackout si susseguono e le luci delle fabbriche brillano sempre più debolmente. L'infrastruttura energetica del paese si ritrova semi-prosciugata dopo un decennio di industrializzazione sfrenata. Le riserve di petrolio e gas naturali stanno diminuendo, e gli impianti bruciano carbone più velocemente di quanto le vecchie e cigolanti linee ferroviarie riescano a trasportarlo. Riscaldamento globale? La nazione più popolosa della Terra è al secondo posto nella classifica mondiale dei responsabili, sebbene il protocollo di Kyoto non sia vincolante per i paesi in via di sviluppo. Inquinamento dell'aria? Secondo la Banca mondiale, appartengono alla Repubblica popolare 16 delle 20 città più inquinate del pianeta. Eolico, solare, biomassa: il paese sta cercando di aggrapparsi a qualsiasi fonte di energia alternativa disponibile, anche a costo di privare un milione di persone della propria casa per far posto al maggiore progetto idroelettrico di tutti i tempi. Ma qual è la soluzione ideale per un'autocrazia affamata di energia? Ovviamente il nucleare. Così mentre l'Occidente si preoccupa di come fare a non avvelenare il pianeta, i burocrati cinesi lanciano un megaprogetto nucleare. Alla fine dell'anno scorso, infatti, la Cina ha annunciato di voler costruire 30 nuovi reattori - abbastanza da garantire il doppio della capacità della già mastodontica Diga delle Tre Gole - entro il 2020. E non basta. Secondo The Future of Nuclear Power, rapporto del 2003 redatto da una commissione di esperti capeggiata dall'ex capo della Cia John Deutch, entro il 2050 la Repubblica popolare cinese avrà bisogno dell'equivalente di 200 centrali nucleari. Un team di consulenti scientifici cinesi del governo di Pechino ha alzato ancora di più il tiro: 300 gigawatt di emissioni nucleari, poco meno dei 350 prodotti oggi in tutto il mondo. Nuove strade Per far fronte alla domanda crescente, i leader cinesi stanno seguendo una duplice strategia. Da un lato si stanno rivolgendo a costruttori di fama come Aecl, Framatome, Mitsubishi e Westinghouse, che hanno già fornito le tecnologie chiave per le nove centrali atomiche finora esistenti in Cina. Ma dall'altro stanno anche adottando un approccio più audace. Fisici ed ingegneri della Tsinghua University di Pechino stanno infatti costruendo una nuova tipologia di impianto nucleare: il reattore a letto di ciottoli. Un reattore abbastanza piccolo da poter essere assemblato con parti prodotte in serie e abbastanza economico per gente che non ha un conto in banca miliardario. Un reattore la cui sicurezza dipende da una legge fisica, e non dall'abilità del personale e dalla resistenza dei rivestimenti. Una favola a lieto fine, il cui happy end ha nome idrogeno. Lo scienziato Qian Jihui non ha dubbi sul significato di questa iniziativa per il futuro del nucleare, in Cina e nel mondo. Qian è l'ex vicedirettore generale dell'International Atomic Energy Agency, nonché presidente onorario dell'Istituto di Energia nucleare cinese. A 67 anni, ha vissuto sulla propria pelle più di una rivoluzione, il che vuol dire che non è uno che prende alla leggera il concetto di "stravolgimento". «Nessun esponente del mainstream gradisce le novità», spiega. «Ma nella comunità internazionale del nucleare, molti pensano che il domani sia questo. I nuovi reattori sono strategicamente competitivi, e alla fine avranno il sopravvento. Quando ciò accadrà, il vecchio nucleare ne uscirà a pezzi". Ecco cosa si intende per "rivoluzione». Al Mit cinese La Tsinghua University, soprannominata il Mit cinese, è incorniciata da un giardino imperiale che risale alla dinastia Qing. Sullo sfondo, le famose torri a specchio del cuore high tech di Pechino. Wang Dazhong è arrivato qui a metà degli anni Cinquanta. All'epoca era uno dei primi casi in Cina di ingegnere nucleare indigeno. Ora è direttore emerito dell'Inet, Institute of Nuclear and New Energy Technology della Tsinghua, e membro chiave del team di consulenza in materia di energia del governo di Pechino. In una bella mattinata, oscurata solo dall'onnipresente foschia fotochimica che contraddistingue la città, Wang parla in una spartana sala per conferenze illuminata da lampadine fluorescenti. «Se volete avere in Cina 300 gigawatt di nucleare - 50 volte il quantitativo di cui disponete oggi - non potete permettervi una Three Mile Island o una Chernobyl», spiega. «Avrete bisogno di un nuovo genere di reattore». Facile parlare così, in un'aula magna. Ma a poca distanza da lì, circondato da montagne, c'è un enorme edificio cubico bianco su cinque piani. Al suo interno, nella sola stanza principale, 100 tonnellate di acciaio, grafite e ingranaggi idraulici. La capacità dell'impianto - denominato Htr-10 (reattore ad alta temperatura da 10 megawatt) - è al momento limitata: a pieno regime da gennaio, riesce a malapena a soddisfare il fabbisogno energetico di una cittadina di 4 mila abitanti. Eppure, ciò che è racchiuso in questa centrale, mai visitata prima d'ora da un giornalista occidentale, ne fa uno dei reattori più interessanti al mondo. Invece che dalle sbarre a combustibile incandescenti che azionano un reattore tradizionale, l'Htr-10 è alimentato da 27 mila sfere di grafite delle dimensioni di palle da biliardo rivestite da lamine di uranio. Invece che da acqua bollente - estremamente radioattiva e altamente corrosiva - il nucleo è bagnato da elio inerte. Il gas può raggiungere temperature molto più elevate senza che le tubature esplodano, il che vuol dire che per far andare la turbina può essere utilizzato un terzo dell'energia in più. Niente acqua significa niente vapore e niente cupole a pressione che costano miliardi per contenerlo in caso di perdite. E con il combustibile sigillato fra strati di grafite e impermeabile carburo di silicio - progettati per durare un milione di anni - le sfere usurate vanno a finire direttamente in appositi contenitori d'acciaio piombato collocati nelle fondamenta. Impianti a prova d'incidente La sala di controllo, priva di finestre, ospita tre workstation Pc e le immancabili strumentazioni elettroniche, tutte pulsanti e indicatori colorati. In un reattore convenzionale ci sarebbe molto di più da vedere: pannelli di controllo per il raffreddamento d'emergenza, aree-cuscinetto antincendio, serbatoi di acqua pressurizzata. Ma non qui, dove le abituali misure ingegneristiche di sicurezza sono superflue. Mettete il caso che scoppi un condotto, che una valvola a pressione si blocchi, che ci sia un attacco terroristico, che qualcuno manometta le leve di controllo della catena nucleare: nessun incubo radioattivo. È un reattore a prova di fusione. Zhang Zuoyi, direttore quarantaduenne del progetto, ci spiega che il trucco consiste nella cosiddetta dilatazione Doppler: più gli atomi si surriscaldano, più si distanziano tra loro. Diventa quindi più difficile per il neutrone colpirne il nucleo. Nel nucleo ad alta densità di un reattore convenzionale, gli effetti del fenomeno sono assolutamente marginali. Ma il design dell'Htr-10, e le sue ridotte dimensioni, cambiano tutto. In caso di avaria del sistema di raffreddamento, niente catastrofi: la temperatura del nucleo può raggiunge al massimo i 1600 gradi Celsius, ben al di sotto del punto di fusione delle sfere (oltre duemila gradi), e poi si riabbassa automaticamente. «Quando si verifica un'emergenza in un reattore tradizionale, si ha solo una manciata di secondi per prendere la decisione giusta», spiega Zhang. «Con l'Htr-10, si ha un margine di giorni, se non addirittura di settimane, per risolvere il problema». Una sicurezza che non è puramente teorica. Gli ingegneri dell'Inet hanno già fatto qualcosa di inconcepibile per un reattore normale: hanno disattivato l'impianto di raffreddamento ad elio e aspettato che il reattore si stabilizzasse da solo. Prossimamente, Zhang ha intenzione di ripetere la dimostrazione in occasione di una conferenza internazionale che si terrà a Pechino. «Forse un giorno questo tipo di test sarà utile anche a livello commerciale», aggiunge. Ciottoli per produrre energia di SPENCER REISS LE NUOVE centrali nucleari sono il frutto di intuizioni che risalgono agli albori dell'era atomica. Nel 1943, un team del progetto Manhattan, guidato da Enrico Fermi, ottenne, presso il Metallurgical Lab dell'Università di Chicago, la prima reazione a catena nucleare innescata dall'uomo. Al progetto, successivamente aderì anche un chimico, Farrington Daniels. A Daniels non interessavano le bombe. La sua attenzione era piuttosto concentrata su un'idea che fin dalla fine degli anni Trenta aveva iniziato a circolare tra i fisici: quella di sfruttare il potere dell'atomo per ricavarne elettricità economica e pulita. Proponeva pertanto un reattore contenente "ciottoli" (un termine preso in prestito dalla chimica) arricchiti di uranio, in cui dell'elio gassoso avrebbe trasferito energia a un generatore. La pila Daniels - questo il nome della sua invenzione - fu presa in seria considerazione, tanto che nel 1945 l'Oak Ridge National Laboratory incaricò Monsanto di progettarne una versione operativa. Prima che il prototipo venisse costruito, però, un altro scienziato, Hyman Rickover, ottenne dalla Marina americana i fondi per la realizzazione di un altro tipo di reattore, raffreddato ad acqua e azionato da barre a combustibile, per l'alimentazione dei sottomarini. A metà anni Cinquanta, con la presentazione alle Nazioni Unite da parte del presidente Eisenhower del programma "Atomi per la pace", il tema dell'uso pacifico del nucleare divenne di grande attualità. Nel 1956, una divisione ad hoc della General Dynamics riunì 40 dei massimi esperti mondiali di nucleare per un brainstorming sul design del reattore ideale. Tra di loro c'era anche Edward Teller, il padre della bomba a idrogeno. Che espresse in quell'occasione un parere profetico: perché la gente potesse accettare il nucleare, i reattori avrebbero dovuto essere "intrinsecamente sicuri". E proponeva anche un test pratico per verificarlo: qualora non si fosse potuto disattivare tutte le barre di controllo senza evitare una fusione, il design non sarebbe stato idoneo. I suoi avvertimenti furono però ignorati, nell'ansia di battere i russi. Invece di puntare alla sicurezza intrinseca, il nascente nucleare civile seguì Rickover nelle sue barre di controllo, nei suoi impianti di raffreddamento ad acqua, e in tutti le varie misure di protezione contro il pericolo di fughe radioattive. Per cercare di ammortizzare i costi di tutti questi accorgimenti, in meno di un decennio gli impianti triplicarono di dimensioni, con inevitabili ricadute finanziarie verso la metà degli anni Settanta. E dopo i disastri di Three Mile Island (1979) e Chernobyl (1986) il nucleare, in gran parte del mondo, non fu più visto di buon occhio. Anche quando si riaffacciò l'idea del reattore a letto di ciottoli, l'opinione pubblica non la accolse bene. In Germania un fisico di talento, Rudolf Schulten, aveva deciso di portare avanti quell'intuizione e nel 1985 aveva realizzato un primo prototipo, anche se troppo grande per soddisfare i requisiti di sicurezza intrinseca previsti da Teller. Un anno dopo, come conseguenza di Chernobyl, una piccola avaria nell'impianto tedesco fece gridare alla catastrofe. E il reattore venne smantellato. Altri due incidenti analoghi, in Pennsylvania e Ucraina, dimostrarono la validità della tesi di Teller, al punto che la sua definizione venne alla fine capovolta, e l'Union of Concerned Scientists proclamò il nucleare "intrinsecamente pericoloso". Il settore si fermò. Tanto per farsi un'idea, gli ultimi dei 104 reattori ad oggi attivi in America sono stati avviati nel 1979. E a questo punto la nostra storia avrebbe potuto dirsi conclusa. Ma non fu così: mentre l'establishment mondiale faceva di tutto per affossare definitivamente il nucleare, in due paesi lontanissimi tra loro la scienza continuava a perseguire il traguardo del reattore perfetto. Quei due paesi erano il Sudafrica, dove a metà degli anni Novanta il gestore nazionale affidò ai tedeschi il compito di progettare un impianto a letto di ciottoli, cominciando nel frattempo a raccogliere i fondi necessari; e la Cina, appunto, con il team della Tsinghua. Dallo studio di Frank Wu, al nono piano dell'Innovation Plaza, si vede tutto il campus della Tsinghua. Non è un caso: l'università è comproprietaria di questo complesso, autentico polo d'attrazione per le startup high tech. Anche l'azienda di Wu, la Chinergy, è frutto di una joint venture tra l'Institute for Nuclear and New Energy Technology della Tsinghua e un ente statale, il China Nuclear Engineering Group. «Mi è appena arrivata una telefonata dal sindaco di una città qui vicino», racconta Wu, oggi amministratore delegato della società ma con un passato da manager finanziario in America (dove ha preso il nome inglese). «Voleva sapere quanto costa procurarsi uno di questi reattori di nuova generazione». Le centrali a letto di ciottoli di Wu sono le più famose, perché i prodotti della Chinergy sono l'ideale per mercati energetici in rapida evoluzione: si tratta infatti di progetti modulari, da comporre come dei Lego. Malgrado alcuni tentativi di elaborazione di uno standard, gli impianti nucleari vengono ancora costruiti in loco a seconda delle esigenze del committente. I reattori Inet, invece, pur essendo cinque volte inferiori per dimensioni e potenza, possono essere assemblati da componenti standard prodotte in serie, trasportabili sia via arteria stradale che tramite ferrovia, e che si combinano molto rapidamente. Non solo: vari reattori possono essere riuniti intorno a una o più turbine, e monitorati da un'unica sala di controllo. In altre parole, le centrali della Tsinghua godono di due caratteristiche essenziali per un paese, come la Cina, dalla crescita esponenziale: possono essere attivate dove c'è ne bisogno e possono crescere in breve tempo. Wu e colleghi sperano di arrivare entro il 2010 a una versione di Htr-10 da 200 megawatt. Hanno già convinto la Huaneng Power International - uno dei cinque principali gestori privati cinesi, incluso nell'elenco Nyse e presieduto dal figlio dell'ex premier Li Peng - ad assumersi metà della spesa (in totale di circa 300 milioni di dollari). I lavori dovrebbero iniziare nella primavera del 2007. Secondo gli standard convenzionali, è una scadenza assurda per un reattore ancora in fase di progettazione. Il programma sudafricano sta lavorando dal 1993 a un'unità dimostrativa vicino Città del Capo, ma con un budget previsto di un miliardo di dollari e gli ambientalisti sul piede di guerra, il progetto è fermo in fase di stallo: alla realizzazione dell'impianto mancano ancora dai cinque ai dieci anni. Solo cinque anni fa, gran parte della Cina come la vediamo oggi non esisteva. Wu, che ama raccontare agli americani in visita come una delle aziende in cui in passato ha lavorato abbia soffiato alla Sun Microsystems l'appalto per il cablaggio di West Point, è una vera e propria avanguardia. Il team Inet progetta prototipi di reattori a letto di ciottoli dalla metà degli anni Ottanta. Alcuni dei suoi membri hanno studiato in Germania, con Schulten. E ancora grazie ai tedeschi - e alla loro collaborazione - questi ricercatori dispongono del migliore equipaggiamento al mondo per risolvere il problema tecnico forse più spinoso: riuscire a fabbricare sfere di combustibile in quantità che possano velocemente raggiungere i milioni di unità. Per quando la centrale pilota della Chinergy sarà finalmente in piena attività, è probabile che i 30 reattori pianificati dal governo cinese per il 2020 siano già in avanzata fase di realizzazione. Fino ad allora, però, l'infrastruttura energetica cinese sarà presumibilmente un'area di business governata da logiche di mercato, il che garantirà a compagnie come la Huaneng ampi margini di manovra. La strategia della Chinergy sembra formulata ad hoc per un contesto del genere. Le aziende operanti in regioni che stanno passando da un'economia agricola/rurale a una industriale/urbana dovranno partire in sordina, ma è probabile che si ritrovino improvvisamente a dover far fronte a una domanda al di sopra delle aspettative. Ed è qui che entra in gioco il concetto di impianto modulare: Wu ha intenzione di vendere i vari moduli - reattori da 200 megawatt con tutta l'attrezzatura di contorno - anche singolarmente, se necessario. A seconda delle esigenze se ne potranno aggiungere via via altri, fino a raggiungere la potenza di gigawatt toccata dai reattori convenzionali. Più integrazioni del genere si diffonderanno, più caleranno i costi dell'operazione, in virtù dell'economia di scala. Troppo bello per essere vero? Non secondo Andrew Kadak, docente di ingeneria nucleare del Mit (il suo corso comprende anche una sezione dal significativo titolo "Colossali fallimenti"). Kadak è un genio del nucleare, con un curriculum sconfinato. Dal 1989 al 1997 è stato amministratore delegato della Yankee Atomic Electric, società che gestiva - ma di recente ha chiuso - l'impianto di Rowe, in Massachusetts, costruito negli anni Sessanta. Attualmente sta aiutando l'Inet a perfezionare la tecnologia delle sfere e collabora con il Dipartimento dell'Energia statunitense e l'Idaho National Engineering and Environmental Research Lab alla realizzazione di un reattore a gas ad alta temperatura. «L'industria si è sempre concentrata su reattori raffreddati ad acqua che impongono complessi sistemi di sicurezza», spiega Kadak. «I cinesi invece non sono vincolati dalla tradizione, e hanno la possibilità di dimostrare che c'è un altro modo di costruire reattori, più semplice e più sicuro. Il vero problema sarà vedere se l'idea funziona anche dal punto di vista economico».
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