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energia: spremi il carbone esce l'idrogeno
- Subject: energia: spremi il carbone esce l'idrogeno
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 17 Sep 2004 06:57:08 +0200
il manifesto - 16 Luglio 2004 Se spremi il carbone esce l'idrogeno Alla ricerca di un futuro pulito e produttivo per le miniere del Sulcis Non è solo dal parco geominerario sardo che dipende il lavoro del futuro. Il carbone, depurato dallo zolfo, potrebbe avere una nuova vita e garantire fonti energetiche non inquinanti, prima tra tutte l'idrogeno. E' una scommessa, un progetto a cui lavorano aziende, Università e Regione ANDREA FABOZZI INVIATO A IGLESIAS Passato remoto e futuro (speriamo) prossimo. Il combustibile più antico e l'energia del domani. Provano a incontrarsi. Se ci riusciranno sarà nelle viscere di una vecchia miniera. Non in un romanzo di fantascienza, ma nella Sardegna di oggi. Nel suo cuore geologico, là dove la roccia ha più storia da raccontare. Nel Sulcis. Troppo presto avevano dato per morto il carbone. Odiato e benedetto, ricchezza e disgrazia di legioni di minatori e di pochi imprenditori capaci. Attore, testimone e infine vittima dello sviluppo economico dell'isola, ma il carbone sulcis aveva ancora un'altra risorsa. Segreta. Ora vogliono tirargli fuori l'idrogeno. Pensano di riuscirci in pochi anni. Sono già partiti. Un futuro pulito Idrogeno. Energia pulita, motore di una nuova era industriale, macchine che non inquinano, effetto serra addio. Si consuma molta retorica quando si parla dell'idrogeno. La verità è che le speranze sono tanto grandi ma altrettanto lontane. Cinquant'anni, dice l'Unione europea, per passare dall'economia cresciuta sui combustibili fossili all'economia dell'idrogeno. Intanto bisogna partire. E se sono già rodate le tecnologie per produrre idrogeno dal carbone come risultato intermedio, per usarlo in processi chimici come la produzione di metanolo, tutta nuova è l'idea che si sviluppa in Sardegna: tirar fuori l'idrogeno dal carbone per farci energia elettrica. Qui bisogna abbandonare la retorica e stare ai fatti. Nessuno può farlo meglio di Eugenio D'Ercole, ingegnere, direttore generale della Sotacarbo, società tecnologie avanzate carbone. E' una società di interesse pubblico di cui sono soci l'Enea e la Regione Sardegna. Alla ricerca, spiega D'Ercole, partecipano anche Ansaldo e Università di Cagliari. L'obiettivo del progetto sta nel suo nome: «Sviluppo di tecnologie per la produzione e il trattamento del syngas da carbone mirato all'ottenimento e all'utilizzo di vettori energetici ad alta valenza ambientale e all'idrogeno in particolare». Il progetto durerà cinque anni, ha un costo totale di undici milioni e mezzo di euro, è stato finanziato dal Ministero dell'istruzione, università e ricerca. Dal 2005 dovrebbe entrare a regime. Cos'è il syngas? Banalizziamo: è un gas combustibile che si ottiene bombardando il carbone con vapore ad alta velocità. I problemi cominciano allora, perché la croce del carbone sulcis è sempre stata quella di essere ricchissimo di zolfo, che è fortemente inquinante. Per questa ragione e per la decisione di un pool di banche di tirarsi indietro è ormai naufragato un mega piano per la gassificazione cui era affidato il destino della Carbosulcis (resta in piedi un contro piano del gruppo venezuelano Sardinia Energy). La strada tentata dal nuovo progetto è quella di pulire il syngas, convertirlo per la produzione di idrogeno, separare e smaltire l'anidride carbonica che ne risulta in modo da avere un motore pulito, in grado di produrre all'inizio un piccolo quantitativo di energia elettrica sufficiente a far andare il Centro ricerca. Che sta prendendo posizione nel vecchio magazzino materiali della miniera Serbariu, a Carbonia. Scelta simbolica quanto si vuole, ma soprattutto pratica. Perché l'obiettivo finale è quello di dare un futuro alle miniere di carbone, e specialmente all'ultima che ancora resta aperta, quella di Nuraxi Figus. Non per romanticismo, ma per calcolo economico, di fronte all'aumento dei costi di trasporto del carbone dell'est. L'idrogeno può essere la soluzione, nel frattempo si perfezionano anche le tecnologie più sperimentate. Perché in Sardegna, strano a dirsi, c'è il l'utilizzo medio di energia più alto del paese: da sole l'Alcoa e le altre aziende del polo dell'alluminio (anche loro nella parte sud occidentale dell'isola) assorbono il 30% dei consumi. E il carbone è ancora il combustibile più conveniente, molto meno caro del petrolio, meno caro anche del gas naturale. Così, oltre al sogno idrogeno la Sotacarbo non trascura un progetto per una centrale a carbone di tipo tradizionale da 600 megawatt, ma «catalitica», in grado cioè di abbattere l'inquinamento del carbone sulcis. Nel sottosuolo sardo, oltre a una storia mineraria che secondo gli archeologi data 8 mila anni, potrebbe esserci anche un pezzo di futuro. Un passato di scorie Il presente intanto è fatto anche di veleni. E' una storia paradossale questa seconda che raccontiamo. Anche questa ha come sfondo il bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Storia paradossale perché la protagonista sembra una montagna, ma invece è una discarica. Molto antica però, e si sa che il tempo nobilita tutto. E' anche bella, niente da dire: un irripetibile colore rosso, canyon che sembra di essere nel Far West. Ma sono fanghi secchi. E sono tossici. Molto pericolosi, ormai intoccabili. C'è un vincolo della sovrintendenza ai beni ambientali e anche la protezione dell'Unesco. La montagna rossa le vedi dalla statale 126 che da Iglesias va a Carbonia. Si fermano anche rari turisti, scattano foto. Siamo a Monteponi, intorno un panorama di vecchie miniere ormai inattive: San Giovanni, Campo Pisano, San Benedetto. In fondo il mare e lo scoglio «Pan di zucchero», più a sud l'isola di San Pietro, Carloforte. Ancora più spettacolare quello che non si vede: gallerie sotterranee per quaranta chilometri che uniscono le vecchie miniere. Cento, duecento metri dentro la montagna per tirare fuori galena e blenda. Minerali preziosi. Storia antica. Per cinquant'anni, dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Settanta, per estrarre il piombo dalla galena e lo zinco dalla blenda si è usato un impianto elettrolitico. I fanghi residui, ricchi dei metalli pesanti, poco a poco hanno costruito la montagna rossa. Claudio Parodi, un chimico che ha esperienza di inquinamento industriale, ha lavorato anche a Marghera e vive a Portoscuso, ha trovato tracce di piombo, zinco e cadmio nel rio San Giorgio, un fiume che fa da impluvio per la valle delle miniere e arriva al mare. Ogni tanto, dopo i giorni di pioggia, il mare si colora di rosso. Se c'è vento, invece, la polvere rossa arriva nelle case della piccola frazione di Bindua, o addirittura a Iglesias. E' molto tossica. «Il cadmio almeno 50 volte più del piombo», spiega Parodi. Non ci sono studi sulla salute della popolazione, si calcola però che la concentrazione delle sostanze tossiche dell'area superi di 1.500 volte i limiti di legge, e si ricordano molti casi di saturnismo tra gli operai della miniera. Barricato in galleria Monteponi è un buon riassunto di storia mineraria. Con l'asilo e le altre palazzine razionaliste, gli impianti più vecchi a mattoncini, il giardino davanti alla casa del direttore della miniera (oggi sede distaccata dell'Università) e due profonde gallerie. In una di queste, la galleria «villa marina», Giampiero Pinna, un geologo che ha fatto anche il consigliere regionale ed è stato l'ultimo presidente dell'ente minerario sardo prima della liquidazione, si è barricato per un anno, dal 5 novembre 2000 al 6 novembre 2001, prima da solo e poi con cinquecento lavoratori Lsu. «Sono uscito - ricorda - solo quando venne il ministro Matteoli in miniera a portare il decreto istitutivo del parco geominerario e anche la nomina dell'organo provvisorio di gestione». Quella del parco geominerario è una vecchia idea di Pinna, che nel `97 è riuscito a convincere l'Unesco che ha dichiarato la rete delle vecchie miniere sarde «patrimonio dell'umanità». Ma ancora oggi sono pochi i luoghi visitabili, e pochissimi quelli risanati. Eppure i soldi ci sono. Stanziati tra il 1997 e il 1998: 50 milioni di euro per il parco, altri 18 milioni per l'archeologia industriale, 3 milioni l'anno per la gestione e quasi altri 2 milioni di euro solo per la bonifica della montagna rossa. Per la quale l'Università di Cagliari aveva trovato soluzioni compatibili con il vincolo della sovrintendenza: si potevano incanalare le acque piovane e fermare le polveri con la ghiaia o attraverso un sofisticato sistema di nebulizzatori automatici. La morfologia della montagna e il panorama della valle sarebbero rimasti intatti. Ma nulla è stato fatto. I lavoratori che avevano occupato la miniera con Pinna sono stati sì assunti, ma non sono impiegati nella bonifica del parco. Il comitato di gestione dell'ente parco in due anni si è riunito una sola volta, alla fine dell'anno scorso, per nominare il consiglio direttivo. Alla guida il ministro Matteoli e Mauro Pili - il presidente della Regione sconfitto da Renato Soru il 13 giugno scorso - hanno sempre voluto un fedelissimo, Emilio Pani, nonostante avesse già l'incarico di assessore all'ambiente. Ricandidatosi alle elezioni, Pani è uno dei bocciati eccellenti nel centrodestra. Adesso la nuova giunta dovrà sostituire i suoi rappresentanti nel consiglio dell'ente parco. Poi toccherà a Soru far presente al governo che quel presidente non è più gradito.
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