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medicinali e pubblicità
- Subject: medicinali e pubblicità
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 11 Sep 2004 06:49:19 +0200
da cunegonda.org domenica 16 maggio 2004 Medicinali e pubblicità. I prezzi dei farmaci sono raddoppiati, triplicati, in alcuni casi hanno addirittura raggiunto il 400%. Sono quelli di tipo C, non ritenuti indispensabili dal ministero della Salute. Ad esempio il Tavor è rincarato del 425%, il Flumucil fiale del 195%, la Tachipirina del 70%, l'Aspirina del 12,5%. E mentre gli italiani nel 2003 hanno speso 1,168 miliardi per curarsi, lo Stato ha ridotto i costi per la spesa pubblica farmaceutica di 619.000 euro. Il ministro della Salute, Sirchia, ha lanciato un aut aut ai produttori: se entro il 23 aprile non ci sarà un'autodisciplina, interverrà il governo. E intanto il marketing intorno alle medicine affila le sue armi. Ma secondo quale principio? Il principio è ferreo: i farmaci non possono essere equiparati a semplici beni di consumo come camicie, scarpe, pneumatici, profumi e così via. Il loro acquisto non deve essere indotto .dalla pubblicità, ma va guidato dal medico, cioè da chi ha la preparazione professionale per prescrivere. in relazione al disturbo sofferto, questo o quel trattamento. Per questo motivo nel nostro Paese, e in tutto il resto d'Europa, è vietata la pubblicità dei medicinali acquistabili dietro ricetta medica. Unica eccezione è rappresentata dalle campagne di vaccinazione promosse da imprese farmaceutiche, purché autorizzate dal ministero della Salute (per esempio, quella sui vaccini antinfluenzali e quella sul vaccino per l'epatite B). In pratica. quindi, possono essere reclamizzati al grande pubblico solo i farmaci da banco, cioè quelli acquistabili direttamente in farmacia senza ricetta medica. Questa è la situazione attuale, che potrebbe cambiare, come indicano già alcuni segnali. A luglio del 2001, infatti. la Commissione europea ha adottato una proposta di riforma del settore farmaceutico che, tra le altre cose, rimetteva in discussione il divieto assoluto di pubblicizzare i medicinali soggetti a ricetta. In particolare, veniva previsto il via libera alla possibilità di promuovere la vendita di farmaci per curare asma, diabete e Aids. Il progetto è stato bocciato a giugno di quest'anno. Ma è prevedibile che verranno riproposte iniziative simili. Dietro questa volontà di allargare le maglie della legge c'è ovviamente la spinta delle multinazionali del farmaco, che battono su un tasto: bisogna fornire maggiori informazioni di carattere medico al pubblico, facendo in questo modo azione di sensibilizzazione ed educazione sanitaria. Il principio è condivisibile, ma è fondamentale stabilire da che pulpito debbano arrivare queste informazioni. Già, perché informare non vuoi dire fare pubblicità. Nessuno mette in discussione la legittimità dell' obiettivo delle case farmaceutiche, cioè quello di vendere prodotti, ma aprire la strada alla pubblicità dei medicinali è cosa ben diversa dal fare educazione sanitaria. Questa, per essere credibile, deve essere affidata a organismi indipendenti, così da garantire trasparenza e serietà. Gli USA non fanno scuola Uno sguardo alla situazione statunitense, dove i farmaci possono essere reclamizzati al grande pubblico, dà !'idea delle distorsioni che si possono creare quando si intrecciano pubblicità (vera) e informazione (presunta). Tra il 1997 e il 2001 la Food and drug admjnjstratjon (FDA), l'ente pubblico Usa che sovraintende alla correttezza in campo farmaceutico, ha inviato ben 94 avvisi alle case farmaceutiche per fermare pubblicità non conformi ai regolamenti federali americani. Nel 1998 più della metà degli spot televisivi riguardanti medicinali non era in regola con la legge. Nella maggior parte dei casi, i produttori enfatizzavano in maniera esagerata i benefici dei loro farmaci, minimizzandone gli effetti collaterali. Il ritorno economico di questa pubblicità diretta al grande pubblico è notevole, come documenta il Bollettino d'informazione sui farmaci, la rivista del ministero della Salute: per un dollaro speso in spot televisivi arrivano nelle casse delle case farmaceutiche 1,69 dollari in vendite e 2,51 se la pubblicità appare su carta stampata. Nel 1991 le multinazionali del settore hanno destinato alla promozione sul mercato Usa 55 milioni di dollari, passati nel 2000 a ben 2,5 miliardi di dollari. Un esempio: nel 2000, per pubblicizzare il Vioxx, un farmaco antinfiammatorio, Merck & Co. ha speso oltre 160 milioni di dollari, più di quanto destinato per lo stesso scopo da due colossi del consumo di massa, come Budweiser per la birra omonima (146 milioni di dollari) o Nike per le sue calzature sportive (78 milioni di dollari). Per il Vioxx la spesa è stata ampiamente ricompensata dal guadagno: nel 2000 il prodotto ha fruttato in vendite ben 1.518 milioni di dollari. [Fonte Salutest, ottobre 2003] Medicinali e pubblicità. Strategie di aggiramento Dato che sul mercato italiano i farmaci per ora trovano sbarrata la porta della pubblicità al grande pubblico, le case farmaceutiche agiscono su altre leve per promuovere i loro prodotti. Una di queste è rappresentata dai mass media, che a volte rischiano di fare da grancassa a informazioni di parte. È il caso, come abbiamo denunciato su AC 158, marzo 2003, del lancio della pillola anticoncezionale Yasmin (prodotta da Schering), spacciata da molti giornali e riviste come "priva di effetti collaterali". In realtà la base di quegli articoli incensatori era farina del sacco della Schering e quindi le informazioni fornite non si distinguevano dalla pubblicità vera e propria. Eppure la differenziazione tra pubblicità e informazione dovrebbe essere una delle regole base del giornalismo. L'obiettivo principale delle case farmaceutiche rimangono comunque i medici, che sono i maggiori utilizzatori e diffusori di informazioni sanitarie e hanno bisogno di aggiornarsi di continuo. La rapidità del progresso scientifico e tecnologico fa infatti invecchiare in fretta le conoscenze precedenti. Per i professionisti dal camice bianco non è facile orientarsi nella marea di informazioni sanitarie fornite da trattati, riviste, linee guida, protocolli, congressi e via di seguito. Le case farmaceutiche, che dispongono di un sistema informativo/promozionale molto organizzato, arrivano ai medici attraverso strade differenti. Gli informatori Per far conoscere un nuovo farmaco e convincere a prescriverlo, il medico viene contattato personalmente dai rappresentanti delle case farmaceutiche, i cosiddetti Isf, vale a dire Informatori scientifici del farmaco: sono quelle persone che ci capita di vedere in sala d'attesa con !'immancabile valigetta piena di confezioni campione e opuscoli a sostegno dell' efficacia del prodotto che devono promuovere. Gli Isf in Italia sono un vero e proprio esercito: si stima ce ne siano circa 26.000, a fronte di 339.000 medici. Rispetto ad altri sistemi promozionali, gli informatori scientifici hanno il vantaggio di avere un approccio individuale con il loro cliente, per cui possono adottare tattiche differenti a seconda del medico. Tra gli investimenti delle case farmaceutiche per le comunicazioni esterne, la fetta più grande della torta è riservata proprio agli Isf. Secondo i dati ABACAM (istituto che effettua ricerche di mercato in questo settore) forniti da Farmindustria, nel 2002 la spesa sostenuta in Italia dalle multinazionali del farmaco per l'informazione medico scientifica è stata complessivamente di 1.776 milioni di euro, di cui oltre 1.400 milioni versati per le visite ai medici, con un aumento del 27 per cento rispetto all'anno precedente. Il rapporto tra case farmaceutiche e medici non è sempre limpido, come hanno dimostrato anche quest'anno alcune indagini della magistratura: a volte per spingere la prescrizione dei propri prodotti qualche multinazionale del farmaco agisce su medici consenzienti attraverso costosi regali o inviti gratuiti a soggiorni esotici mascherati da congressi professionali. Anche sull' onda degli ultimi scandali sulle" ricette facili" , il parlamento ha riavviato l'esame della legge che riforma la pubblicità dei farmaci. Tra gli obiettivi principali. c'è quello di aumentare la trasparenza nei rapporti tra case farmaceutiche e mondo medicosanitario. La riforma ridisegnerà attività e funzioni degli Ist per i quali si prevede anche !'istituzione di un albo di categoria a cui si potrà accedere soltanto dopo aver superato un esame di Stato. La nuova legge stabilirà tetti massimi di spesa per gli omaggi ai medici da parte degli informatori scientifici e fisserà il numero massimo di campioni gratuiti di medicinali riservati agli ambulatori. Inoltre, per evitare che soggiorni turistici vengano spacciati per congressi scientifici, verranno attivati rigidi controlli sia sugli sponsor di questo tipo di manifestazioni sia sui partecipanti. [Fonte Salutest, ottobre 2003] Medicinali e pubblicità. Le riviste mediche Tra le fonti più utilizzate dai medici per l'aggiornamento, ci sono le riviste scientifiche. Le più prestigio se sono in maggioranza in lingua inglese. Hanno costi di abbonamento solitamente piuttosto elevati e in alcuni casi si finanziano anche attraverso la pubblicità. La loro autorevolezza è sovente data dal fatto che gli articoli, prima di essere pubblicati, vengono passati al vaglio di un comitato scientifico indipendente che si fa garante della qualità dei contenuti. Naturalmente, le case farmaceutiche non possono dimenticarsi di un canale di comunicazione così importante. Le strade per arrivare sulle pagine di queste riviste specializzate sono due. La prima è quella di comprarsi spazi pubblicitari: dato che questi giornali non sono destinati al grande pubblico, ma solo agli addetti ai lavori, in questo caso la legge permette di promuovere qualsiasi tipo di medicinale, purché siano rispettate le regole stabilite dal ministero della Salute. Un' analisi australiana pubblicata nel 2002 sul Medical journal of Australia dà un'idea della qualità di questo tipo di messaggi promozionali. Sotto la lente d'ingrandimento sono finiti 174 annunci provenienti dalle sei principali riviste mediche edite in Australia. I risultati non sono per nulla incoraggianti. Il 45% delle affermazioni contenute nelle pubblicità non poteva essere comprovato, il 72% era ambiguo e solamente nell'8% dei casi il messaggio si riferiva a evidenze cliniche comprovate. Un risultato che non fa onore, per non dire di peggio, alle case farmaceutiche. In ogni caso, la pubblicità diretta su riviste specializzate è ritenuta poco remunerativa in Italia: secondo dati di Farmindustria nel 2002 gli investimenti promozionali di questo tipo sono calati di oltre il 20% rispetto all' anno precedente. L'altra via per arrivare sulle pagine delle riviste è quella di finanziare studi e ricerche cliniche su patologie curabili con i propri farmaci e poi, cercando ovviamente di mettere in risalto i dati positivi, farne pubblicare i risultati. In questo modo la promozione è indiretta e ancora più subdola. Le campagne di sensibilizzazione Per arrivare al grande pubblico, dato che è vietata la pubblicità che indica il rimedio, si possono fare campagne sul male. A furia di parlarne se ne ingigantisce l'importanza: le persone, sollecitate dal messaggio a volte intimidatorio (per esempio, "La malattia x causa ogni anno migliaia di vittime"), vengono spinte a sottoporsi a test ed . esami per valutare il proprio grado di rischio e spesso finiscono per assumere farmaci anche se il rischio non è a livelli preoccupanti. In questo caso non è la malattia che occupa il centro del palcoscenico, ma i fattori di rischio (età, obesità, colesterolo, fumo...), al di là del fatto che vi siano stati o meno sintomi concreti di malessere. Prendiamo come esempio tra i tanti la "Campagna di prevenzione del rischio cardiovascolare 2002-2003, promossa dalla Heart care foundation (Fondazione per la lotta alle malattie cardiovascolari) e dall'Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri. Il contenuto è decisamente allarmante: "Sette italiani su dieci oltre i 14 anni, pari a circa 32 milioni e mezzo, dichiarano comportamenti associati al rischio cardiovascolare [...] Quattro milioni di italiani sono a rischio cardiovascolare elevato, cioè superiore al 20 per cento entro 10 anni". Peccato non si specifichi che le cifre presentate sono state calcolate in base ai criteri stabiliti per la popolazione statunitense, che per dieta alimentare e stile di vita è notoriamente più a rischio di quella italiana. Non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, ma non è raro che grandi campagne di sensibilizzazione nei confronti di una malattia vengano lanciate proprio quando una casa farmaceutica sta per mettere sul mercato un prodotto ad hoc. Vi ricordate quando si iniziava a parlare del Viagra? Nel 2000 comparvero grandi affissioni pubblicitarie che recitavano "La cosa più bella dell'amore è poterlo fare". Seguiva il consiglio di rivolgersi al proprio medico per poter risolvere problemi di erezione. La pubblicità, che ovviamente per legge non poteva nominare alcun farmaco, aveva in calce una firma: Pfizer, la casa farmaceutica produttrice del Viagra. [Fonte Salutest, ottobre 2003]
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