medicinali e pubblicità



da cunegonda.org

domenica 16 maggio 2004

Medicinali e pubblicità.

I prezzi dei farmaci sono raddoppiati, triplicati, in alcuni casi hanno
addirittura raggiunto il 400%. Sono quelli di tipo C, non ritenuti
indispensabili dal ministero della Salute. Ad esempio il Tavor è rincarato
del 425%, il Flumucil fiale del 195%, la Tachipirina del 70%, l'Aspirina del
12,5%. E mentre gli italiani nel 2003 hanno speso 1,168 miliardi per
curarsi, lo Stato ha ridotto i costi per la spesa pubblica farmaceutica di
619.000 euro. Il ministro della Salute, Sirchia, ha lanciato un aut aut ai
produttori: se entro il 23 aprile non ci sarà un'autodisciplina, interverrà
il governo. E intanto il marketing intorno alle medicine affila le sue armi.
Ma secondo quale principio?
Il principio è ferreo: i farmaci non possono essere equiparati a semplici
beni di consumo come camicie, scarpe, pneumatici, profumi e così via. Il
loro acquisto non deve essere indotto .dalla pubblicità, ma va guidato dal
medico, cioè da chi ha la preparazione professionale per prescrivere. in
relazione al disturbo sofferto, questo o quel trattamento.
Per questo motivo nel nostro Paese, e in tutto il resto d'Europa, è vietata
la pubblicità dei medicinali acquistabili dietro ricetta medica. Unica
eccezione è rappresentata dalle campagne di vaccinazione promosse da imprese
farmaceutiche, purché autorizzate dal ministero della Salute (per esempio,
quella sui vaccini antinfluenzali e quella sul vaccino per l'epatite B). In
pratica. quindi, possono essere reclamizzati al grande pubblico solo i
farmaci da banco, cioè quelli acquistabili direttamente in farmacia senza
ricetta medica.
Questa è la situazione attuale, che potrebbe cambiare, come indicano già
alcuni segnali. A luglio del 2001, infatti. la Commissione europea ha
adottato una proposta di riforma del settore farmaceutico che, tra le altre
cose, rimetteva in discussione il divieto assoluto di pubblicizzare i
medicinali soggetti a ricetta.
In particolare, veniva previsto il via libera alla possibilità di promuovere
la vendita di farmaci per curare asma, diabete e Aids. Il progetto è stato
bocciato a giugno di quest'anno. Ma è prevedibile che verranno riproposte
iniziative simili. Dietro questa volontà di allargare le maglie della legge
c'è ovviamente la spinta delle multinazionali del farmaco, che battono su un
tasto: bisogna fornire maggiori informazioni di carattere medico al
pubblico, facendo in questo modo azione di sensibilizzazione ed educazione
sanitaria.
Il principio è condivisibile, ma è fondamentale stabilire da che pulpito
debbano arrivare queste informazioni. Già, perché informare non vuoi dire
fare pubblicità. Nessuno mette in discussione la legittimità dell' obiettivo
delle case farmaceutiche, cioè quello di vendere prodotti, ma aprire la
strada alla pubblicità dei medicinali è cosa ben diversa dal fare educazione
sanitaria. Questa, per essere credibile, deve essere affidata a organismi
indipendenti, così da garantire trasparenza e serietà.
Gli USA non fanno scuola
Uno sguardo alla situazione statunitense, dove i farmaci possono essere
reclamizzati al grande pubblico, dà !'idea delle distorsioni che si possono
creare quando si intrecciano pubblicità (vera) e informazione (presunta).
Tra il 1997 e il 2001 la Food and drug admjnjstratjon (FDA), l'ente pubblico
Usa che sovraintende alla correttezza in campo farmaceutico, ha inviato ben
94 avvisi alle case farmaceutiche per fermare pubblicità non conformi ai
regolamenti federali americani. Nel 1998 più della metà degli spot
televisivi riguardanti medicinali non era in regola con la legge. Nella
maggior parte dei casi, i produttori enfatizzavano in maniera esagerata i
benefici dei loro farmaci, minimizzandone gli effetti collaterali.
Il ritorno economico di questa pubblicità diretta al grande pubblico è
notevole, come documenta il Bollettino d'informazione sui farmaci, la
rivista del ministero della Salute: per un dollaro speso in spot televisivi
arrivano nelle casse delle case farmaceutiche 1,69 dollari in vendite e 2,51
se la pubblicità appare su carta stampata. Nel 1991 le multinazionali del
settore hanno destinato alla promozione sul mercato Usa 55 milioni di
dollari, passati nel 2000 a ben 2,5 miliardi di dollari. Un esempio: nel
2000, per pubblicizzare il Vioxx, un farmaco antinfiammatorio, Merck & Co.
ha speso oltre 160 milioni di dollari, più di quanto destinato per lo stesso
scopo da due colossi del consumo di massa, come Budweiser per la birra
omonima (146 milioni di dollari) o Nike per le sue calzature sportive (78
milioni di dollari). Per il Vioxx la spesa è stata ampiamente ricompensata
dal guadagno: nel 2000 il prodotto ha fruttato in vendite ben 1.518 milioni
di dollari.
[Fonte Salutest, ottobre 2003]

Medicinali e pubblicità.  Strategie di aggiramento
Dato che sul mercato italiano i farmaci per ora trovano sbarrata la porta
della pubblicità al grande pubblico, le case farmaceutiche agiscono su altre
leve per promuovere i loro prodotti. Una di queste è rappresentata dai mass
media, che a volte rischiano di fare da grancassa a informazioni di parte.
È il caso, come abbiamo denunciato su AC 158, marzo 2003, del lancio della
pillola anticoncezionale Yasmin (prodotta da Schering), spacciata da molti
giornali e riviste come "priva di effetti collaterali". In realtà la base di
quegli articoli incensatori era farina del sacco della Schering e quindi le
informazioni fornite non si distinguevano dalla pubblicità vera e propria.
Eppure la differenziazione tra pubblicità e informazione dovrebbe essere una
delle regole base del giornalismo.
L'obiettivo principale delle case farmaceutiche rimangono comunque i medici,
che sono i maggiori utilizzatori e diffusori di informazioni sanitarie e
hanno bisogno di aggiornarsi di continuo. La rapidità del progresso
scientifico e tecnologico fa infatti invecchiare in fretta le conoscenze
precedenti.
Per i professionisti dal camice bianco non è facile orientarsi nella marea
di informazioni sanitarie fornite da trattati, riviste, linee guida,
protocolli, congressi e via di seguito.
Le case farmaceutiche, che dispongono di un sistema informativo/promozionale
molto organizzato, arrivano ai medici attraverso strade differenti.
Gli informatori
Per far conoscere un nuovo farmaco e convincere a prescriverlo, il medico
viene contattato personalmente dai rappresentanti delle case farmaceutiche,
i cosiddetti Isf, vale a dire Informatori scientifici del farmaco: sono
quelle persone che ci capita di vedere in sala d'attesa con !'immancabile
valigetta piena di confezioni campione e opuscoli a sostegno dell' efficacia
del prodotto che devono promuovere.
Gli Isf in Italia sono un vero e proprio esercito: si stima ce ne siano
circa 26.000, a fronte di 339.000 medici. Rispetto ad altri sistemi
promozionali, gli informatori scientifici hanno il vantaggio di avere un
approccio individuale con il loro cliente, per cui possono adottare tattiche
differenti a seconda del medico.
Tra gli investimenti delle case farmaceutiche per le comunicazioni esterne,
la fetta più grande della torta è riservata proprio agli Isf.
Secondo i dati ABACAM (istituto che effettua ricerche di mercato in questo
settore) forniti da Farmindustria, nel 2002 la spesa sostenuta in Italia
dalle multinazionali del farmaco per l'informazione medico scientifica è
stata complessivamente di 1.776 milioni di euro, di cui oltre 1.400 milioni
versati per le visite ai medici, con un aumento del 27 per cento rispetto
all'anno precedente. Il rapporto tra case farmaceutiche e medici non è
sempre limpido, come hanno dimostrato anche quest'anno alcune indagini della
magistratura: a volte per spingere la prescrizione dei propri prodotti
qualche multinazionale del farmaco agisce su medici consenzienti attraverso
costosi regali o inviti gratuiti a soggiorni esotici mascherati da congressi
professionali. Anche sull' onda degli ultimi scandali sulle" ricette facili"
, il parlamento ha riavviato l'esame della legge che riforma la pubblicità
dei farmaci.
Tra gli obiettivi principali. c'è quello di aumentare la trasparenza nei
rapporti tra case farmaceutiche e mondo medicosanitario.
La riforma ridisegnerà attività e funzioni degli Ist per i quali si prevede
anche !'istituzione di un albo di categoria a cui si potrà accedere soltanto
dopo aver superato un esame di Stato.
La nuova legge stabilirà tetti massimi di spesa per gli omaggi ai medici da
parte degli informatori scientifici e fisserà il numero massimo di campioni
gratuiti di medicinali riservati agli ambulatori. Inoltre, per evitare che
soggiorni turistici vengano spacciati per congressi scientifici, verranno
attivati rigidi controlli sia sugli sponsor di questo tipo di manifestazioni
sia sui partecipanti.
[Fonte Salutest, ottobre 2003]
Medicinali e pubblicità.  Le riviste mediche
Tra le fonti più utilizzate dai medici per l'aggiornamento, ci sono le
riviste scientifiche. Le più prestigio se sono in maggioranza in lingua
inglese. Hanno costi di abbonamento solitamente piuttosto elevati e in
alcuni casi si finanziano anche attraverso la pubblicità.
La loro autorevolezza è sovente data dal fatto che gli articoli, prima di
essere pubblicati, vengono passati al vaglio di un comitato scientifico
indipendente che si fa garante della qualità dei contenuti. Naturalmente, le
case farmaceutiche non possono dimenticarsi di un canale di comunicazione
così importante. Le strade per arrivare sulle pagine di queste riviste
specializzate sono due.
La prima è quella di comprarsi spazi pubblicitari: dato che questi giornali
non sono destinati al grande pubblico, ma solo agli addetti ai lavori, in
questo caso la legge permette di promuovere qualsiasi tipo di medicinale,
purché siano rispettate le regole stabilite dal ministero della Salute. Un'
analisi australiana pubblicata nel 2002 sul Medical journal of Australia dà
un'idea della qualità di questo tipo di messaggi promozionali. Sotto la
lente d'ingrandimento sono finiti 174 annunci provenienti dalle sei
principali riviste mediche edite in Australia. I risultati non sono per
nulla incoraggianti. Il 45% delle affermazioni contenute nelle pubblicità
non poteva essere comprovato, il 72% era ambiguo e solamente nell'8% dei
casi il messaggio si riferiva a evidenze cliniche comprovate. Un risultato
che non fa onore, per non dire di peggio, alle case farmaceutiche. In ogni
caso, la pubblicità diretta su riviste specializzate è ritenuta poco
remunerativa in Italia: secondo dati di Farmindustria nel 2002 gli
investimenti promozionali di questo tipo sono calati di oltre il 20%
rispetto all' anno precedente.
L'altra via per arrivare sulle pagine delle riviste è quella di finanziare
studi e ricerche cliniche su patologie curabili con i propri farmaci e poi,
cercando ovviamente di mettere in risalto i dati positivi, farne pubblicare
i risultati. In questo modo la promozione è indiretta e ancora più subdola.
Le campagne di sensibilizzazione
Per arrivare al grande pubblico, dato che è vietata la pubblicità che indica
il rimedio, si possono fare campagne sul male. A furia di parlarne se ne
ingigantisce l'importanza: le persone, sollecitate dal messaggio a volte
intimidatorio (per esempio, "La malattia x causa ogni anno migliaia di
vittime"), vengono spinte a sottoporsi a test ed . esami per valutare il
proprio grado di rischio e spesso finiscono per assumere farmaci anche se il
rischio non è a livelli preoccupanti.
In questo caso non è la malattia che occupa il centro del palcoscenico, ma i
fattori di rischio (età, obesità, colesterolo, fumo...), al di là del fatto
che vi siano stati o meno sintomi concreti di malessere.
Prendiamo come esempio tra i tanti la "Campagna di prevenzione del rischio
cardiovascolare 2002-2003, promossa dalla Heart care foundation (Fondazione
per la lotta alle malattie cardiovascolari) e dall'Associazione nazionale
medici cardiologi ospedalieri. Il contenuto è decisamente allarmante: "Sette
italiani su dieci oltre i 14 anni, pari a circa 32 milioni e mezzo,
dichiarano comportamenti associati al rischio cardiovascolare [...] Quattro
milioni di italiani sono a rischio cardiovascolare elevato, cioè superiore
al 20 per cento entro 10 anni". Peccato non si specifichi che le cifre
presentate sono state calcolate in base ai criteri stabiliti per la
popolazione statunitense, che per dieta alimentare e stile di vita è
notoriamente più a rischio di quella italiana.
Non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, ma non è raro che grandi
campagne di sensibilizzazione nei confronti di una malattia vengano lanciate
proprio quando una casa farmaceutica sta per mettere sul mercato un prodotto
ad hoc.
Vi ricordate quando si iniziava a parlare del Viagra? Nel 2000 comparvero
grandi affissioni pubblicitarie che recitavano "La cosa più bella dell'amore
è poterlo fare". Seguiva il consiglio di rivolgersi al proprio medico per
poter risolvere problemi di erezione. La pubblicità, che ovviamente per
legge non poteva nominare alcun farmaco, aveva in calce una firma: Pfizer,
la casa farmaceutica produttrice del Viagra.
[Fonte Salutest, ottobre 2003]