esiste la metropoli sostenibile ?



da Unità On Line

Come cambia la metropoli del 2000

22.08.2004

Sempre più affollata, sempre più inquinante. La metropoli sostenibile è un'
utopia?
di Ugo Leone

 Ogni giorno 175.000 persone vanno a vivere in città. Questa stima delle
Nazioni Unite indica i ritmi che caratterizzano la corsa all'inurbamento su
tutta la Terra. Inurbamento è termine che dà proprio il senso del movimento:
in urbs, verso la città, dalla campagna. Un movimento iniziato con ritmi più
accelerati dalla fine del XVIII secolo, quando la rivoluzione industriale
nei paesi in cui è «scoppiata» ha cominciato a richiamare dalla campagna
lavoratori nelle miniere e nelle industrie e sono nate le città minerarie e
industriali.
Questo fenomeno dapprima e a lungo è stato proprio dei paesi del primo mondo
ricco ed economicamente sviluppato nei quali oltre il 70% della popolazione
è inurbata. Ma oggi coinvolge l'intero pianeta. E, con ritmi frenetici,
soprattutto i paesi poveri o in via di sviluppo nei quali l'acceleratissima
crescita demografica (per quanto rallentata) ha ormai superato la capacità
di carico della campagna. Cioè la capacità della campagna di offrire sia pur
misere dimore e sia pur misere possibilità di alimentazione. È cominciata
perciò anche in questi paesi, da una trentina d'anni, la corsa verso la
città. Città sempre più grandi, caotiche, inquinate, invivibili e cresciute
a dismisura senza alcuna pianificazione. Questo mentre nei paesi del primo
mondo, da almeno altrettanti anni il gigantismo urbano ha subito un blocco.
Le grandi e grandissime città hanno fermato la crescita che le aveva
caratterizzate ed è cominciata la tendenza inversa alla
controurbanizzazione; all'insediamento, cioè, in città più piccole ritenute
perciò stesso più a misura d'uomo e meglio vivibili.
Cinquanta anni fa erano 86 le città con oltre un milione di abitanti; oggi
sono circa 400 e si stima che tra una diecina d'anni saranno oltre 500. È
una tendenza irreversibile ed è verosimile che entro la fine del secolo la
percentuale di popolazione inurbata salirà a circa il 75% dei 10-11 miliardi
di persone che abiteranno la Terra.
Perché c'è da preoccuparsi che ciò accada? Perché l'urbanista (e filosofo)
Paul Virilio definisce le città «il luogo in cui la catastrofe finisce prima
o poi per manifestarsi»? perché quel grande sociologo e storico della città
che è stato Lewis Mumford paventava che il passaggio successivo da
Megalopoli sarebbe stato Necropoli, la morte della città?
Vi sono giusti motivi di allarme. Di ordine sociale - a carattere
prevalentemente locale- e di ordine ambientale, a carattere anche globale.
Mike Davis, attento storico del fenomeno, sottolinea il rischio - che è, in
realtà, una certezza - della enorme proliferazione degli slums, i quartieri
poveri, nei quali il sovraffollamento, alloggi poveri, difficile accesso all
'acqua e ai servizi igienici sono le caratteristiche più diffuse. Ed è
questa la preoccupazione più ricorrente che accompagna l'esplosione urbana
nei paesi in via di sviluppo. Ma c'è un altro motivo che accomuna paesi
ricchi e poveri.
La preoccupazione deriva dal fatto che la città si dimostra sempre più come
un organismo parassitario, che si nutre di energia (prevalentemente
idrocarburi) e materia (alimenti e merci) provenienti dall'esterno, le
metabolizza per il suo funzionamento (la vita quotidiana dei cittadini) e le
restituisce all'esterno sotto forma di rifiuti ed emissioni inquinanti tra
cui i pericolosi gas serra. In più, dal momento che l'area da cui provengono
energia e materia tende a coincidere in maniera crescente con il pianeta e
altrettanto tende ad espandersi (suo malgrado) l'area che riceve emissioni
inquinanti e rifiuti, l'«ecosistema urbano» ha un impatto fortemente
negativo sull'intero pianeta. In questi termini e per questi motivi la città
è diventata un'insostenibile fabbrica di inquinamento. E all'insostenibilità
globale, sempre più ricorrentemente si aggiunge l'invivibilità locale.
Se questo è lo scenario che abbiamo di fronte, come attrezzarsi? Se, cioè,
la tendenza all'inurbamento è irreversibile, bisogna anche accettare da
spettatori passivi tutti i danni che questa può comportare all'intero
pianeta in termini, ad esempio, di accelerazione dei ritmi dei mutamenti
climatici?
La risposta che mi sembra più realistica è che nell'attuale preoccupante
situazione non vi è nulla di irreparabile e ampie sono le possibilità di
intervento. A condizione che il problema venga affrontato alle due scale che
lo caratterizzano - locale e globale - con l'obiettivo di impedire non l'
inurbamento, ma la crescita incontrollata del fenomeno (caratteristica
prevalente dei Paesi in via di sviluppo). E, quindi, che si intervenga a
scala locale per (ri)progettare la città.
Insomma è possibile delineare scenari più rassicuranti nei quali l'
ecosistema urbano tenda ad organizzarsi anche come produttore di energia e
materia oltre che minore produttore di rifiuti. Certamente là dove
(soprattutto nei paesi in via di sviluppo) continuerà l'eccezionale spinta
all'inurbamento e al gigantismo urbano incontrollato, questo obiettivo sarà
più difficilmente proponibile. Ma lo squilibrio che annualmente caratterizza
entrate ed uscite di materia ed energia nel bilancio della città potrà
essere realisticamente ridotto sino a puntare su città che siano non solo
trasformatrici, ma produttrici di materia ed energia. Oltre che capaci di
abbattere drasticamente la produzione di rifiuti ed emissioni inquinanti e
lo sperpero di energia.
È quanto potrà e dovrà avvenire realizzando «politiche della città» che
abbiano come punti fermi una politica dei rifiuti capace di smaltirli
producendo anche «materie prime seconde» (quelle che si ottengono con il
riciclaggio dei rifiuti) ed energia; una politica dei trasporti urbani che,
puntando sul trasporto pubblico e su ferro, abbatta drasticamente l'uso dell
'auto privata e degli idrocarburi che la alimentano; una politica di
climatizzazione degli ambienti che esalti le ampie possibilità dell'energia
solare per fornire acqua calda e per riscaldare gli ambienti in inverno e
rinfrescarli d'estate.
Insomma, non si tratta di proporsi il non facile obiettivo di mantenere la
città in condizioni di equilibrio con l'ambiente esterno; ma di riprogettare
la città e i modi di vita al suo interno: gli edifici, la topografia urbana,
i trasporti, il verde, organizzati per cicli (delle acque, dei rifiuti, dell
'energia).
Non è utopia, ma l'adozione di «buone pratiche» che consentano di governare
la tendenza all'inurbamento traendone risultati di migliore locale
vivibilità urbana e di maggiore sostenibilità planetaria.