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europa il welfare del nostro tempo
- Subject: europa il welfare del nostro tempo
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 22 May 2004 07:08:03 +0200
da aprile novembre 2003 Modello Europa: Il welfare del nostro tempo Intervista a Giorgio Ruffolo L' Europa non ha tassi significativi di sviluppo. Anzi, i dati parlano di "pericolo stagnazione". Alcuni teorici neoliberisti attribuiscono proprio alle conquiste del welfare un ruolo di freno dell'economia, alcuni settori della sinistra finiscono per introiettare l'impostazione liberista. E' possibile, invece, che proprio il ridisegno dello Stato sociale divenga il volano di un nuovo modello europeo? Ne discutiamo con Giorgio Ruffolo, deputato Ds a Bruxelles e direttore del Centro europa ricerche. Per alcuni, welfare state significa lavoro, pensioni; per altri, comprende sanità e ambiente. Per altri ancora, deve includere mercato del lavoro e scuola. Cosa dobbiamo intendere, quando parliamo di welfare state? Non ostiniamoci a usare parole straniere. Welfare, in italiano, vuol dire "benessere". Non è una distinzione solo semantica. Più di un secolo fa c'era l'esigenza di proteggere i più deboli, gli esclusi dal contesto sociale dalla rivoluzione industriale. Poi questo principio caritatevole si è evoluto - grazie alla spinta dei grandi sindacati, dei grandi partiti operai - verso il riconoscimento dei diritti sociali legati alla cittadinanza. Il campo del welfare attuale dovrebbe essere il riconoscimento di tutto ciò che è legato ai diritti sociali, che si riconosce come dovuto al cittadino perché è un cittadino attivo, non suscettibile di essere scambiato sul mercato secondo una logica disegualitaria. Il che non significa invadere la sfera del mercato, ma delimitarla. Diritti sociali sono certamente quelli della pensione e della previdenza, della sanità e, soprattutto, quello del lavoro. E qui c'è un punto caldo teorico, perché il lavoro è considerato sia "diritto" sia "fenomeno di mercato". E' una contraddizione sociale ed è il cuore del problema del capitalismo industriale. Un mercato che è un paramercato e nel quale configgono le esigenze di efficienza, produttività, flessibilità e le esigenze della cittadinanza. E' una frontiera mobile attorno alla quale si svolge il conflitto sociale ed è la frontiera sulla quale si coglie la vera distinzione tra destra e sinistra oggi. La destra è quella che rivendica la priorità del mercato nella società come meccanismo di grande efficienza e di accumulazione di ricchezza. L'etica della destra è l'etica della nonna: bisogna produrre prima di distribuire. Ma è un etica che si avvita, inevitabilmente, nella produzione per la produzione. Il momento della distribuzione non viene mai e quello della competitività rimane al centro della predicazione liberista e oggi neoliberista. Altra, invece, è l'esigenza di rispondere ai bisogni che sempre più si presentano come bisogni sociali. In una società ricca, soprattutto, il benessere, il collegamento tra crescita e benessere passano dalla soddisfazione di grandi bisogni sociali: l'educazione, la qualità della vita, l'ambiente, la sicurezza, la protezione dalle malattie ma anche dalla disoccupazione. Questo dei diritti è un campo distinto da quello del mercato. Occorre stabilire un equilibrio tra di essi. In definitiva, sono i temi del riformismo classico. La possibilità di stabilire un equilibrio è il tema del riformismo vero. La democrazia può fare un compromesso con il capitalismo. Possono e devono convivere, non si vedono altri orizzonti e chi li ha visti ha dovuto sopportare le dure repliche della storia. Si può eliminare il capitalismo? Nell'orizzonte storico prevedibile e praticabile, no. Ma si deve per forza accettare tutto quanto viene dalla libera espressione delle forze in campo nel mercato? Per niente affatto. Una prova di ciò è nell'esperienza storica delle grandi socialdemocrazie. C'è stato, in passato, un riformismo forte che, in nome della democrazia, pretese di cambiare il capitalismo. Non un riformismo debole, come quello che è praticato oggi nella "terza via", cioè in un capitalismo che pretende di cambiare la democrazia e gli istituti della democrazia. E' riproponibile il grande compromesso sociale raggiunto negli anni del dopoguerra? No, perché sono stati intaccati in misura irreversibile due fondamentali istituzioni che si chiamano Stato nazionale e forza operaia (il sindacato). Il riformismo socialdemocratico non era una predicazione, era una politica concreta che si appoggiava a quelle due istituzioni. Oggi quelle istituzioni non reggono più un progetto di compromesso con il capitalismo nel quale salvare, allo stesso tempo, le finalità della democrazia e le esigenze di efficacia dell'economia. Il capitalismo ha cambiato i termini del conflitto con due grandi iniziative: la globalizzazione - soprattutto la liberazione dei movimenti di capitale che ha innescato un processo straordinario, incontrollabile di forza economica - e la riorganizzazione delle tecniche produttive. Due offensive che hanno spostato i termini della frontiera tra democrazia e capitalismo a favore del capitalismo. La prima conseguenza è la disuguaglianza. Una scelta drammatica dal punto di vista delle conseguenze sociali e politiche. Una scelta che non si giustifica, visto il dimezzamento dell'attuale crescita economica, neppure ragionando nei termini canonici "crescita economica uguale benessere". E allora? La ricetta neoliberista alla lunga non è sostenibile, ma questo non significa che non sarà applicata. Perché qualche cosa sia sostituita, bisogna che ci sia qualche cosa che la sostituisce. E a sinistra non c'è. C'è una risposta alle nuove condizioni che accettino l'agire delle nuove forze tecniche, produttive, economiche senza voltare la testa e dire "giù le mani"? Giù le mani non è una risposta. C'è una risposta rigida, una linea Maginot con la quale si difendono lo Stato sociale e i diritti. Le linee Maginot ci hanno però insegnato che sono sempre aggirabili. Così il capitalismo l'aggira e si rimane a fare i giapponesi, a combattere battaglie che non ci sono più. Il cancelliere tedesco Schroeder sembra convinto che solo tagliando il welfare si salvi il welfare. E' questa la strada? Sono proposte accomodanti, da "terza via" fumosa. Non è una soluzione vera. Oggi è in gioco uno spostamento della frontiera tra democrazia e capitalismo, e questo provoca una lacerazione e una sempre maggiore tensione sociale non solo dal punto economico e sociale ma anche morale. E' abbastanza significativo che la bibbia del capitalismo, l'Economist, non faccia altro che riproporre il problema per cui se il capitalismo disinibito provoca scandali come quelli degli Stati Uniti (ma che sono diffusi in tutto il capitalismo mondiale), prima o poi si scava la fossa e determina una crisi della democrazia. Se n'è accorto l'Economist, è strano che non se n'è accorta la sinistra. Non si può tornare agli Stati nazionali, non c'è più la politica macroeconomica degli Stati e non si può riprodurre la pressione della classe operaia. I conflitti una volta erano polarizzati, ora abbiamo una società estremamente frammentata, si è rovesciato il rapporto: non è più "prima il blocco sociale e poi il partito". Oggi è il partito che deve saper formare un blocco sociale attraverso un suo progetto. A crescere, inoltre, nelle società avanzate sono soprattutto i bisogni sociali. Aumentano in misura più che proporzionale rispetto ai bisogni mercantili, prima di tutto per la pressione delle imprese e poi per la pressione sui costi: siccome i costi dei beni sociali non diminuiscono con l'aumento della produttività, essi aumentano. Per avere lo stesso mix di beni sociali e beni privati, occorre variare la proporzione: avere più beni sociali e diminuire i beni privati. Come si fa? O si aumenta la pressione fiscale oppure, semplicemente, si tagliano i bisogni sociali. La risposta della destra è tagliare i bisogni sociali e diminuire la pressione fiscale e quindi accentuare lo squilibrio tra capitalismo e democrazia. Si accumulano risorse nel settore privato per aumentare la competitività. Ma quest'ultima non si può affrontare solo comprimendo i costi (soprattutto i costi del lavoro). Si deve affrontare aumentando la formazione, la qualità. Insomma, con tutte quelle strategie che hanno bisogno di una politica economica attiva e quindi di iniziativa pubblica. Se si deve affrontare il problema dei bisogni sociali, occorre prima di tutto vedere se questi beni sociali sono offerti a un grado di efficienza soddisfacente. Il problema fondamentale che la sinistra aveva cominciato a porre è quello della programmazione. Non "più spesa o meno spesa". Bisogna vedere qual è il prodotto che noi diamo, quale è il servizio che rendiamo. E questo non ce lo dicono le statistiche del Pil, ma degli indicatori sociali. La sinistra non ha capito che la società deve essere misurata attraverso degli indici politici, di gradimento, di soddisfazione, di qualità piuttosto che di quantità. Perché i socialdemocratici svedesi continuano a governare pur aumentando la pressione fiscale? Semplice: c'è un'adesione collettiva al bisogno sociale a fronte di un alta qualità dei servizi. La sinistra ha buttato via questa programmazione come fosse carta straccia. Un'altra via regia è l'organizzazione del terzo settore. C'è una economia associativa che permette di organizzare servizi che sono autogovernati da coloro che li utilizzano. E' un settore di enorme importanza e in espansione, che realizza una organica partecipazione democratica. Terza e ultima condizione è che bisogna reagire all'offensiva capitalistica che ha distrutto le potenzialità autonome degli Stati nazionali europei creando delle aggregazioni politiche più ampie. La scommessa dell'Europa è tutta in quest'ultima condizione? In Europa è possibile riconquistare uno strumento fondamentale: la politica della domanda, la politica macroeconomia. Cioè inseguire attraverso una politica della domanda l'obiettivo della piena occupazione, parte integrante dell'esigenza di benessere, di stabilità e di coesione sociale. L'Europa è questo, può essere questo: né soltanto un mercato unico, né soltanto una moneta unica. La sinistra dovrebbe capire che l'Europa è la sola possibilità per riconquistare un primato della politica rispetto al mercato. Perché è un grande aggregato di quasi 500 milioni di uomini, più grande di quello americano e più potente dal punto di vista di quote sul commercio mondiale della produzione. E dà una potenza alla politica che la politica ha perduto. Quindi è una contro-controffensiva che dovrebbe essere giocata. Ora il mercato nazionale non c'è più. C'è un mercato internazionale e quindi ci deve essere qualcosa, in quel mercato, che possa dare le stesse possibilità che aprivano gli Stati nazionali. Nella neonata Costituzione europea si intravede una posizione di questo tipo o c'è una impostazione di sudditanza ai parametri del mercato? La Carta costituzionale è un compromesso a un livello piuttosto basso. Certo non integra l'Europa come la vedeva Spinelli e, soprattutto, non dà la possibilità di operare immediatamente sul piano macroeconomico. Una delle più gravi debolezze di questa Carta è la scarsissima attenzione verso la possibilità di una economia autonoma. Questo è gravissimo, perché l'economia europea dipende dalla domanda americana. Il problema è il riacquistare l'autonomia economica e quella politica macroeconomia che hanno gli Stati Uniti. Il mercato statunitense ha una domanda di politica economica monetaria e fiscale espansiva. In Europa non ce l'abbiamo. Abbiamo fatto una moneta senza avere un bilancio federale. Il loro bilancio federale assorbe circa il 20% delle risorse del Pil, il nostro ne assorbe l'1,4%. Ecco quindi il determinarsi di uno squilibrio formidabile e l'impossibilità di agire con una domanda interna, autonoma, sulla nostra economia. Quindi l'Europa dovrebbe essere, per tutta la sinistra, un'occasione formidabile. Eppure si discute sul ministro degli esteri ma non si tocca il nodo economico. A me della politica estera comune non importa fino a quando non so che l'Europa può contare con il suo euro. La moneta comune è stato un passo fondamentale, ma la moneta richiede di essere usata. Se gli sceicchi del petrolio pretendessero di farsi pagare in euro anziché in dollari, gli Stati Uniti avrebbero perduto una parte fondamentale della sua egemonia. Molti non se ne accorgono, ma la cosa grave è che non se ne accorgono a sinistra. L'importanza della costruzione dell'Europa per la sinistra è tale che forse dovrebbe porsi il problema di fare un vero partito europeo, un vero partito transnazionale perché a quel punto i problemi del benessere, di un nuovo compromesso storico con il capitalismo potrebbero essere affrontati ad un livello di potenziale economico e politico molto superiore. Nel chiederci se è possibile di nuovo ristabilire un equilibrio tra capitalismo e democrazia, tra mercato e politica io rispondo: certo che è possibile, ci sono tutte le possibilità di farlo, ma passa attraverso delle innovazioni non da "terza via" ma da "grande politica". La sinistra è in grado di produrre queste innovazioni? Io ne dubito. L'innovazione proposta agli elettori è quella del "partito unico riformista". Qual è il suo giudizio? Se vogliamo fare delle costruzioni, possiamo sempre mettere i cubetti uno sopra l'altro sperando che non caschino. Ma dobbiamo chiederci a cosa serve il "partito unico", quali sono i suoi obiettivi. Di fronte a questi problemi, quali sono le risposte dei vari Rutelli, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno? Siamo d'accordo sulla via da intraprendere? Nel racconto Alice nel paese delle meraviglie, Alice chiede al gatto: "Da dove si esce?". E il gatto risponde "Dipende da dove vuoi andare". Il progetto è tutto. Non è la struttura che genera la sovrastruttura, è il contrario. Il "progettiamo" dovrebbe essere il nucleo di una politica veramente moderna. Invece, si fa politica come al tempo delle dirigenze e questo è un problema. Abbiamo parlato dell'Europa dei 15, ma l'allargamento non scompaginerà i giochi in tavola? Sì, li cambierà e in modo notevole. Ci sono dei rischi e delle insidie. Sono chiare due cose: che era inevitabile che paesi scampati al crollo dell'impero sovietico cerchino un altro riparo e l'Europa non può dire "voi no". Ma questi paesi, per molto tempo ancora, agiranno da freno all'integrazione. C'è un antidoto? Sì, ed è lo stesso antidoto usato con l'euro. La moneta europea non è stata fatta da tutti. I boemi, i polacchi e gli ungheresi non adotteranno subito l'euro come moneta unica. La distinzione tra quello che si può chiamare il nucleo forte della comunità europea e l'europa mercato aumenterà il suo divario. Con una maggiore lungimiranza, nulla impedirebbe a Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo di istituire un fondo europeo di investimenti e utilizzare l'euro come moneta per costruire un debito federale e finanziare un grande programma comune di investimenti. Il piano Delors era questo, ma il piano Delors non lo possono fare trenta paesi. Occorre un'iniziativa politica che, nel cuore di questo grande aggregato, crei un nucleo di potenza. Per dirla parafrasando il vecchio Pietro Nenni: "O il socialismo sarà europeo o non sarà".
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