la fine del pomodoro biotech e l'agricoltura intelligente



da boiler.it
giornale di scienza, innovazione e ambiente
                 16.05.2004

Biotecnologie

Ecco a voi la superorganica

di RICHARD MANNING

 C'ERA UNA VOLTA, all'epoca dell'ottimismo tecnologico, una piccola startup
biotech di nome Calgene. I suoi fondatori scommisero su un pomodoro. Non si
trattava di un pomodoro come tutti gli altri, bensì del Flavr Savr, un
esemplare geneticamente modificato per risolvere i problemi della modernità.
Quando tutti vivevamo nei villaggi, ottenere pomodori freschi e saporiti era
facile. A portarli sul mercato, maturi e succosi, ci pensavano i contadini.
Ma poi le metropoli hanno annientato i piccoli agricoltori, ed è iniziata la
pretesa di avere a disposizione i nostri prodotti preferiti tutto l'anno.
Oggi i pomodori vengono per larga parte coltivati in un altro emisfero. Si
colgono verdi, e maturano strada facendo verso i supermercati di tutto il
mondo.
Raccogliere i pomodori in questo modo, prima che abbiano ricevuto la loro
adeguata dose di nutrienti, ad alcuni sembrerà la soluzione migliore. Come
farebbero, diversamente, a sopportare il lungo viaggio senza marcire? Il
Flavr Savr era l'alternativa alla prassi diffusa: un pomodoro che matura nel
campo e rimane immutato durante il trasporto. Gli scienziati della Calgene
avevano inserito nel suo genoma un gene che ritardava la tendenza
all'invecchiamento. Lo stratagemma aveva funzionato, almeno per quanto
riguarda la durata del prodotto sui banchi della frutta e verdura. I nemici
dell'Ogm soprannominarono il Flavr Savr "Frankenfood". E in previsione del
verdetto sul pomodoro biotech da parte della Food and Drug Administration
americana, Jeremy Rifkin promosse la Pure Food Campaign, ritardando
l'approvazione dell'Fda di tre anni e innescando un movimento di protesta
che si diffuse in tutta Europa.
Quando il pomodoro ebbe finalmente via libera, si scoprì che la Calgene non
si era minimamente preoccupata del suo sapore. Non solo aveva un odore
sgradevole: era disgustoso. Peggio ancora, era una rovina per i campi,
altamente esposto a patologie e poco fertile. La Calgene spese più di 200
milioni di dollari per migliorarlo, ma l'unico risultato fu di trovarsi in
rosso, finendo col venire risucchiata dalla Monsanto. Ma la ricerca del
fanta-pomodoro non era finita lì. Il Flavr Savr scomparve (anche Monsanto
alla fine abbandonò il progetto), ma nel frattempo lo scienziato israeliano
Nachum Kedar aveva silenziosamente lavorato a una soluzione alternativa.
Attraverso vari incroci, il ricercatore era infatti riuscito a ottenere una
specie fertile e saporita, in grado di maturare nei campi ma di restare poi
intatta durante il trasporto. Aveva anche trovato un partner esperto di
marketing, per brevettare il pomodoro e arrivare sul mercato americano con
la dovuta copertura pubblicitaria. Questo ibrido, oggi prodotto e venduto in
tutto il mondo da svariati marchi, deve il suo successo alla profonda
conoscenza di Kedar del genoma del pomodoro. Tale competenza ha permesso
l'elaborazione di un processo più sofisticato ma meno controverso,
inaugurando l'era dell'agricoltura intelligente.
La storia del Flavr Savr è un esempio pressoché emblematico di parabola Ogm.
Dieci anni fa, la manipolazione genetica era considerata un potenziale
miracolo che avrebbe fatto risparmiare soldi ai contadini, abbassato i
prezzi dei prodotti e ridotto i danni ambientali involontariamente causati
dalla Rivoluzione Verde (movimento che aveva aumentato i raccolti ma
contemporaneamente generato un utilizzo sfrenato di fertilizzanti chimici e
pesticidi). Gli esperti di genetica sostenevano di poterci garantire
un'abbondanza ancora maggiore unita a minori rischi per l'ecosistema
semplicemente inserendo nei genomi dei vari raccolti una briciola o due di
Dna di altre specie (secondo un processo noto come transgenica). In alcuni
casi, gli Ogm hanno mantenuto la promessa. Hanno incrementato la
produttività delle aziende agricole americane senza bisogno di ricorrere a
diserbanti e sostanze potenzialmente tossiche. I negozi dove facciamo la
spesa ne sono pieni: qualsiasi prodotto alimentare contiene fino al 70 per
cento di Gm, prevalentemente mais e soia.
Ancora meglio è andata con le coltivazioni di generi non commestibili.
Prendete il cotone: i parassiti lo adorano, la musica folk è piena di
riferimenti a epidemie del genere. Questo implica un uso massiccio di
pesticidi. Il maggiore produttore mondiale di cotone, la Cina, ha contato
varie vittime di patologie derivanti dall'effetto tossico di tali sostanze.
Poi, nel 1996, Monsanto ha lanciato il cotone Bt - un Ogm in cui è stato
inserito un gene di batterio Bacillus thuringiensis come deterrente interno
per i parassiti. L'introduzione delle nuove sementi ha ridotto della metà il
ricorso ai pesticidi, e la salute dei contadini ne ha tratto notevoli
vantaggi. Per i produttori, dunque, gli Ogm sono stati subito i benvenuti.
Ai consumatori, invece, c'è voluto un po' per comprenderne i benefici. Gli
ambientalisti li hanno marchiati come creazioni innaturali destinate a
distruggere le coltivazioni tradizionali e danneggiare i nostri organismi.
L'Europa li ha osteggiati in tutti i modi, eccetto che mettendoli al bando,
dando origine a una guerra economica globale che è costata all'America
miliardi in calo di esportazioni. E anche negli stessi Stati Uniti questi
cibi non hanno avuto vita facile: a marzo la contea californiana di
Mendocino ha addirittura deciso di dichiararli fuori legge. I nemici
dell'Ogm hanno peraltro trovato dei preziosi alleati in alcuni scienziati
che condannano i colossi aziendali che stanno dietro al settore della
transgenica, primo fra tutti Monsanto. La celebre compagnia biotech ha messo
sotto brevetto non solo le sue sementi Gm ma anche tutto il processo
necessario per produrle, il che da origine a una sorta di monopolio virtuale
che rallenta l'innovazione: nessuno può giocare tranquillamente con i geni
senza preoccuparsi del volere del gigante.
Il discorso ci riporta all'agricoltura intelligente. I ricercatori stanno
iniziando a conoscere così a fondo le piante che non hanno più bisogno della
transgenica per ottenere resistenza alla siccità, maggiore valore
nutrizionale e durata. Negli ultimi decenni, gli scienziati hanno scoperto
che le nostre coltivazioni tradizionali sono piene di qualità latenti.
Piuttosto che inserire nel loro genoma un gene di batterio resistente - per
esempio - alla peste, spesso è possibile semplicemente attivare una capacità
innata. Conclusione: l'agricoltura intelligente promette una rivoluzione
condotta con metodi indiscutibili e soprattutto non brevettabili. Pensate
agli innesti e alle ibridazioni che i contadini effettuano da secoli,
affidandosi solo all'istinto, imparando da tentativi ed errori,
regalandoci - grazie a un po' di fortuna - meraviglie come il tangelo, le
zucche gigante, i cetrioli senza semi. Tutto sta nel sostituire al caso una
conoscenza precisa del ruolo che ogni singolo gene gioca nell'esistenza
della pianta.
Oggi, gli scienziati riescono a ottenere le caratteristiche desiderate in un
batter d'occhio, mentre in passato ci volevano almeno dieci anni. Non solo:
si possono creare specie che prima, senza la transgenica, non immaginavamo
nemmeno. L'avanguardia dell'alimentazione è fatta di frutta e verdura allo
stesso tempo naturale e soprannaturale. Potremmo definirla "superorganica":
coltivazioni saporite, abbondanti, sicure e nutrienti che non hanno bisogno
di fertilizzanti e pesticidi. Un cibo di nuova generazione che fa contenti
produttori, consumatori, attivisti e istituzioni. Praticamente ogni raccolto
esistente al mondo vanta una banca dati genetica corrispondente fatta dei
semi di migliaia di altre specie correlate. Finora, si trattava solo di
libri abbandonati alla polvere. Oggi invece, i progressi della genomica e
delle information technology - in termini sia di potenza di elaborazione che
di capacità di immagazzinamento - ne hanno fatto dei cataloghi in cui
vengono classificati non solo i molteplici tratti caratteristici delle
singole varietà ma anche le tecniche per attivarli e diffonderli.
Uno degli strumenti più utili all'agricoltura biologica è il marker del Dna.
Si tratta di un contrassegno relativo a una particolare porzione del
cromosoma, che consente ai ricercatori di individuare esclusivamente il gene
responsabile di una specifica caratteristica. Grazie ai marker, gran parte
del lavoro può essere svolto in laboratorio, risparmiando tempo e denaro
senza bisogno di sperimentare sul campo. Una volta isolato il tratto
desiderato, si usano tecniche tradizionali come la coltura (ovvero la
coltivazione di germogli in un medium ricco di nutrienti finché non sono
forti abbastanza per sopravvivere da soli). In particolari varianti, è
possibile incrociare con successo anche specie lontanamente imparentate fra
loro che in condizioni diverse non avrebbero dato frutto. È importante
sottolineare, in proposito, che spesso le varietà selvatiche sono quelle che
presentano le qualità migliori. In tali casi, il germoglio può essere
estratto e coltivato in laboratorio. Un'altra tecnica - detta "coltura di
antera" - può essere quella di ottenere una pianta compiuta a partire da una
singola cellula dello stame.
A confronto di metodi del genere, la transgenica sembra un gioco da ragazzi.
In realtà, esiste un collegamento: l'agricoltura intelligente è l'unione del
meglio della transgenica con il meglio dell'organica. Può dar da mangiare a
tutto il mondo, salvare la Terra e porre fine al monopolio dei brevetti. Ne
è convinto anche Robert Goodman, ex direttore scientifico della Calgene che
ora lavora per la McKnight Foundation alla supervisione di un programma da
50 milioni di dollari per il finanziamento della ricerca genomica nei paesi
in via di sviluppo. «Le opinioni diffuse sugli Ogm sono ormai un ricordo»,
commenta. «La scienza è già andata oltre».
 A metà degli anni Ottanta, una laureanda in Scienze agricole della Cornell
University accettò un incarico che nessun altro aveva voluto assumersi. Il
suo nome? Susan McCouch. Il compito affidatole? Stilare una mappa dei 40
mila geni che compongono il genoma del riso. Una volta completato, nel 1988,
quel lavoro sarebbe stato una pietra miliare nella storia della ricerca
scientifica. A sedici anni di distanza, sta facendo tremare i monopoli
aziendali del settore. Prima della comparsa della McCouch il riso - alimento
principe per i poveri di quasi tutto il mondo - sembrava condannato
all'oblio scientifico. Le aziende erano interessate solo a mais e frumento,
basi dell'alimentazione occidentale. Ma si sa: le mappe fatte bene cambiano
le cose, come quando i geologi, guardando delle carte del Sud America e
dell'Africa, si resero conto che gli estremi dei due continenti
combaciavano, dando vita alla teoria della tettonica a placche.
La mappa della McCouch è stata altrettanto illuminante. I ricercatori
l'hanno confrontata con i genomi del mais e del frumento e hanno scoperto
che le tre specie - così come altri cereali che insieme a loro costituiscono
i due terzi dell'alimentazione umana - hanno un patrimonio genetico molto
simile. Le ricerche già effettuate su mais e frumento potevano quindi essere
utilizzate per comprendere meglio alimenti essenziali per le popolazioni del
Terzo mondo come riso, teff, miglio e sorgo. Un gene individuato in una
qualsiasi delle specie poteva essere localizzato anche nelle altre. Le
caratteristiche dell'una potevano essere estese anche alle altre: se una
data varietà di frumento è particolarmente resistente alla peste anche il
riso può diventarlo, bisogna solo riuscire ad attivare quel tratto.
Attualmente la McCouch, che è rimasta alla Cornell, sta lavorando alle
possibilità di incrocio tra il riso domestico e i suoi antenati selvatici.
«Alcuni geni possono incrementare i raccolti», spiega. «E si possono
ottenere semi più grandi che danno vita a piante di dimensioni maggiori».
Anni e anni di agricoltura non scientifica hanno senza volere cancellato
molti geni utili, diminuendo le difese naturali delle piantagioni. Lo scopo
della McCouch è quello di recuperare tale magica complessità. Scienziati di
tutto il mondo stanno prendendo esempio dal suo lavoro. In Cina il
ricercatore Deng Qiyun, ispirato dai saggi di questa studiosa, ha usato i
marker molecolari nell'incrocio tra un parente selvatico del riso e un
ibrido di produzione nazionale, ottenendo un aumento del 30 per cento nei
raccolti (più di qualsiasi altro risultato mai raggiunto durante la
Rivoluzione Verde). In India, i più poveri non possono permettersi
l'irrigazione delle terre - e quindi coltivare riso - ma per soddisfare le
esigenze di una popolazione in continua crescita la produzione nazionale di
questo cereale dovrà per forza di cose raddoppiare entro il 2025. Un
ricercatore di Bangalore sa come fare. Si chiama H. E. Shashidhar, e ha
catalogato i geni delle varie varietà per elaborare incroci in grado di dar
vita a un super-riso iperfertile. In Africa occidentale, alcuni contadini
hanno creato il Nerica, un riso miracoloso che unisce i tratti migliori
delle varianti asiatiche e africane: cresce rigoglioso, resiste alle
epidemie e alla siccità, e contiene il 31 per cento di proteine in più.
Ma non si tratta solo di produrre nuovo riso per i paesi in via di sviluppo.
Irwin Goldman, docente di orticultura alla University of Wisconsin-Madison,
ricorda l'importanza fondamentale dei lavori della McCouch come fonte di
ispirazione per i suoi studi sulle carote, le cipolle e le barbabietole.
Attraverso un complesso processo di manipolazione genetica su una
barbabietola, ha scoperto un modo per migliorare l'aspetto e il gusto di
tutte le specie vegetali. I geni della barbabietola codificano due pigmenti
appartenenti alla classe chimica delle betaline. Quando sono presenti
entrambi, la barbabietola è rossa. Disattivando un gene - cosa che può
accadere anche con una mutazione naturale - diventa dorata. Attivandolo a
intermittenza nelle diverse fasi di sviluppo, compaiono delle striature. Non
che avere una barbabietola striata sia importante in sé e per sé (varietà
simili esistevano già nel Diciannovesimo secolo in Italia, per esempio). Più
significativo è che Goldman sia riuscito a identificare i geni a cui il
tratto è associato e a capire come manipolarli.
Un giorno, potrebbe derivarne qualcosa di altrettanto utile del riso al
betacarotene che il nostro organismo trasforma in vitamina A. Da anni, gli
ingegneri tentano di introdurre questo cereale in Asia, dove la carenza di
vitamina A provoca milioni di casi di cecità ogni anno. Già creare la
variante Gm non è stato facile - è stata necessaria l'inserzione di due geni
di giunchiglia - ma ancora più difficile è stato farla accettare alla gente.
Come nel caso del Flavr Savr, il Golden Rice si è attirato le ire del
movimento Frankenfood accalappiandosi circa 70 brevetti. Un equivalente
naturale non avrebbe incontrato gli stessi inconvenienti. Un'iniziativa
troppo lungimirante? Forse, dal momento che per quanto ci risulta non esiste
un riso che contenga betacarotene. Ma non pensavamo nemmeno che le carote
contenessero vitamina E, prima che lo scoprisse Goldman.
Studiando il genoma della carota, Goldman ne ha appunto scoperto alcune
varietà esotiche (gialle, arancioni, rosse e addirittura porpora) che
producono vitamina E. Per sfruttare tale caratteristica basta isolare i geni
responsabili e incrociare le varianti selvatiche con quelle ordinarie. Il
patrimonio genetico dei vegetali si è rivelato inoltre una miniera
inesauribile di antiossidanti, composti di zolfo, tannina - tutti fattori
che illuminano il colore e rafforzano il gusto - andati persi con il passare
dei secoli. Molti di questi tratti non solo prevengono il cancro e aumentano
il valore nutrizionale, ma servono anche a migliorare il sapore difendendo
contemporaneamente le piante dalle epidemie.
Oggi sappiamo come recuperare queste qualità. E possiamo farlo velocemente.
Le aziende spesso impiegano anni ad affermare una nuova varietà. Per
recuperare il denaro investito, vendono semi che non trasmettono le
proprietà auspicate di raccolto in raccolto, costringendo i contadini a
comprarne di nuovi ogni anno. L'agricoltura intelligente è più veloce e più
economica: gran parte del lavoro si svolge in laboratorio, risparmiando
tempo e soldi. Le ricerche di Goldman sono finanziate dall'università, il
che gli permette di scartare senza appello i tentativi malriusciti. Gli
studi, condotti in collaborazione con agricoltori e mercati locali, hanno
come esito la produzione di sementi a impollinazione aperta, una versione
agricola dell'open source.
Richard Jefferson è un musicista d'avanguardia americano che vive in
Australia, nonché presidente del Cambia (Center for the Application of
Molecular Biology to International Agriculture), una think tank di Canberra
con lo scopo di attuare in agricoltura una rivoluzione analoga a quella open
source prodotta nell'informatica da Linus Torvalds e Richard Stallman,
secondo la filosofia per cui "qualsiasi tecnologia innovativa dev'essere
pubblica". Se Goldman e la McCouch puntano al superamento degli Ogm
attraverso metodi che fanno tesoro dell'ingegneria genetica, Jefferson
preferisce un approccio più diretto. Tutti e tre, peraltro, sfruttano la
conoscenza approfondita dei genomi delle piante per crearne varianti sempre
nuove. Ma mentre i primi due studiano le mappe genetiche per escogitare
nuovi incroci, quest'ultimo mescola le carte all'interno del genoma stesso.
Non inserisce niente di nuovo. Per lui la transgenica è una "scienza
noiosa", ma non è affatto contrario alle manipolazioni. Solo preferisce
insegnare a ogni singola pianta a sfruttare le proprie potenzialità nascoste
senza alcun ausilio esterno. Jefferson è diventato famoso nel 1985 per la
scoperta del Gus, un gene reporter che, in associazione con altri geni
attivi, produce delle variazioni morfologiche. Lo ha distribuito
gratuitamente a università e laboratori no profit, ma ha chiesto milioni
alle aziende biotech. Tutti quei soldi li ha usati per fondare il Cambia,
istituto che progetta tecnologie per aiutare gli scienziati dei paesi in via
di sviluppo a creare nuove varietà di cibi senza infrangere i brevetti Ogm.
L'ingegneria transgenica tratta il genoma alla pari di un software, come se
contenesse un codice binario. Se vuole che un organismo presenti un dato
tratto, vi inserisce un gene. Ma il genoma è molto più complesso di un
software informatico. Il codice binario può esprimere solo due valori (1 o
0), mentre il Dna ne comprende quattro (A,C,T, e G). Non solo: il genoma è
in costante interazione con se stesso per la produzione di quelli che i
teorici della complessità definiscono comportamenti emergenti. Le
caratteristiche di un organismo spesso non sono il risultato della reazione
all'attività di un singolo gene, bensì il prodotto di una relazione a più
fattori. Ecco perché il Dna è ancora in larga parte un'entità misteriosa.
Jefferson punta a dominare questo magma indistinto con una tecnica che
chiama transgenomica. Un uomo è diverso dai propri fratelli perché in fase
di riproduzione i corredi cromosomici dei genitori sono andati a
ricombinarsi in schemi specifici e distinti da individuo a individuo. Lo
stesso vale per le piante. Jefferson ha manipolato i geni originari in modo
che agiscano da interruttori che di volta in volta attivano o disattivano le
proprietà latenti di una specie. Con il cosiddetto metodo Hart, mescola il
genoma (senza alcuna inserzione) per indurlo a emulare i tratti tipici di
altre coltivazioni. «Si prende ispirazione da un'altra pianta e si invita
quella che abbiamo sotto mano a cambiare autonomamente in quella direzione»,
spiega. L'esempio che più ama fare è quello del granturco sentinella, una
versione a grandezza pianta del gene Gus che diventa rosso quando ha bisogno
di acqua. Potrà anche non sembrare una gran scoperta, ma di solito quando il
granturco comune si decide a cominciare ad appassire è già troppo tardi per
salvarlo. Stiamo parlando del confine che separa non solo il profitto dalla
perdita ma anche il nutrimento dalla carestia.
Il sogno ultimo di Jefferson è la cosiddetta apomissi, o clonazione delle
piante. Il suo obiettivo è quello di insegnare alle varie specie a clonare
se stesse come fanno naturalmente tarassaco e rovi. Quando le piante
riusciranno a produrre sementi geneticamente identici a se stesse, non ci
sarà più bisogno di comprare ogni anno sementi ibride. Jefferson e altri
sostengono di aver già individuato varie strade per arrivare a questo
traguardo, ma la competizione è accesissima e nessuno è disposto a rivelare
particolari. Il vero problema non è tanto elaborare un metodo, quanto
piuttosto portarlo avanti in un mondo dominato dai brevetti. «Non sono un
ottimista tecnologico convinto che basti inventare qualcosa di nuovo perché
tutto vada bene», commenta Jefferson. «Le modalità di presentazione contano
moltissimo». La sua idea è quella di creare un movimento open source per le
biotecnologie. Istituti di beneficenza dovrebbero consorziarsi per creare
piattaforme e garantire il libero utilizzo delle nuove tecnologie a
ricercatori di enti pubblici e privati. Lo sfruttamento commerciale dei
prodotti finali sarà il benvenuto, ma la tecnologia di base - l'Os per così
dire - dovrà essere accessibile a chiunque. Primo passo: la pubblicazione
dell'intero portfolio del Cambia. Si sarebbe tentati di paragonare questo
progetto alla battaglia di Linux contro Microsoft, con la Monsanto
equivalente biotech del colosso dei Pc. Anche in questo caso si tratta di
un'iniziativa forte e decentralizzata.
L'agricoltura è uno dei settori più dispendiosi di attività umana. Seminiamo
centinaia di specie di piante per ottenere un singolo raccolto. Distruggiamo
interi ecosistemi con pesticidi, fertilizzanti, spreco d'acqua ed emissioni
di trattori. Lo facciamo ancora e ancora. L'agricoltura organica rompe
questo circolo vizioso. È solo un cerotto sulla ferita, ma se ci aggiungiamo
le competenze biotecnologiche può dar vita a qualcosa di enorme. Nei genomi
delle piante è scritto come la natura da secoli si regge e si governa. E i
ricercatori di tutto il mondo stanno imparando non solo a leggere quelle
informazioni ma anche a ricodificarle.
Questo non vuol dire che l'avventura sia automaticamente destinata al
successo. La nuova era dell'alimentazione non inizierà con un Big Bang
tecnologico. Ma questo è anche un bene. Gli eventi improvvisi sono difficili
da gestire. Un'innovazione graduale e costante consentirà invece di avviare
le giuste iniziative di marketing. L'opinione pubblica è un'entità complessa
come il genoma, e altrettanto difficile da controllare. Le competenze
scientifiche ci sono. Se l'economia riuscirà a spiegare bene cos'è - e cosa
non è - la superorganica, i nuovi prodotti cambieranno non solo il nostro
modo di mangiare, ma anche quello in cui ci rapportiamo al pianeta su cui
viviamo.