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la fine del pomodoro biotech e l'agricoltura intelligente
- Subject: la fine del pomodoro biotech e l'agricoltura intelligente
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 24 May 2004 06:57:04 +0200
da boiler.it giornale di scienza, innovazione e ambiente 16.05.2004 Biotecnologie Ecco a voi la superorganica di RICHARD MANNING C'ERA UNA VOLTA, all'epoca dell'ottimismo tecnologico, una piccola startup biotech di nome Calgene. I suoi fondatori scommisero su un pomodoro. Non si trattava di un pomodoro come tutti gli altri, bensì del Flavr Savr, un esemplare geneticamente modificato per risolvere i problemi della modernità. Quando tutti vivevamo nei villaggi, ottenere pomodori freschi e saporiti era facile. A portarli sul mercato, maturi e succosi, ci pensavano i contadini. Ma poi le metropoli hanno annientato i piccoli agricoltori, ed è iniziata la pretesa di avere a disposizione i nostri prodotti preferiti tutto l'anno. Oggi i pomodori vengono per larga parte coltivati in un altro emisfero. Si colgono verdi, e maturano strada facendo verso i supermercati di tutto il mondo. Raccogliere i pomodori in questo modo, prima che abbiano ricevuto la loro adeguata dose di nutrienti, ad alcuni sembrerà la soluzione migliore. Come farebbero, diversamente, a sopportare il lungo viaggio senza marcire? Il Flavr Savr era l'alternativa alla prassi diffusa: un pomodoro che matura nel campo e rimane immutato durante il trasporto. Gli scienziati della Calgene avevano inserito nel suo genoma un gene che ritardava la tendenza all'invecchiamento. Lo stratagemma aveva funzionato, almeno per quanto riguarda la durata del prodotto sui banchi della frutta e verdura. I nemici dell'Ogm soprannominarono il Flavr Savr "Frankenfood". E in previsione del verdetto sul pomodoro biotech da parte della Food and Drug Administration americana, Jeremy Rifkin promosse la Pure Food Campaign, ritardando l'approvazione dell'Fda di tre anni e innescando un movimento di protesta che si diffuse in tutta Europa. Quando il pomodoro ebbe finalmente via libera, si scoprì che la Calgene non si era minimamente preoccupata del suo sapore. Non solo aveva un odore sgradevole: era disgustoso. Peggio ancora, era una rovina per i campi, altamente esposto a patologie e poco fertile. La Calgene spese più di 200 milioni di dollari per migliorarlo, ma l'unico risultato fu di trovarsi in rosso, finendo col venire risucchiata dalla Monsanto. Ma la ricerca del fanta-pomodoro non era finita lì. Il Flavr Savr scomparve (anche Monsanto alla fine abbandonò il progetto), ma nel frattempo lo scienziato israeliano Nachum Kedar aveva silenziosamente lavorato a una soluzione alternativa. Attraverso vari incroci, il ricercatore era infatti riuscito a ottenere una specie fertile e saporita, in grado di maturare nei campi ma di restare poi intatta durante il trasporto. Aveva anche trovato un partner esperto di marketing, per brevettare il pomodoro e arrivare sul mercato americano con la dovuta copertura pubblicitaria. Questo ibrido, oggi prodotto e venduto in tutto il mondo da svariati marchi, deve il suo successo alla profonda conoscenza di Kedar del genoma del pomodoro. Tale competenza ha permesso l'elaborazione di un processo più sofisticato ma meno controverso, inaugurando l'era dell'agricoltura intelligente. La storia del Flavr Savr è un esempio pressoché emblematico di parabola Ogm. Dieci anni fa, la manipolazione genetica era considerata un potenziale miracolo che avrebbe fatto risparmiare soldi ai contadini, abbassato i prezzi dei prodotti e ridotto i danni ambientali involontariamente causati dalla Rivoluzione Verde (movimento che aveva aumentato i raccolti ma contemporaneamente generato un utilizzo sfrenato di fertilizzanti chimici e pesticidi). Gli esperti di genetica sostenevano di poterci garantire un'abbondanza ancora maggiore unita a minori rischi per l'ecosistema semplicemente inserendo nei genomi dei vari raccolti una briciola o due di Dna di altre specie (secondo un processo noto come transgenica). In alcuni casi, gli Ogm hanno mantenuto la promessa. Hanno incrementato la produttività delle aziende agricole americane senza bisogno di ricorrere a diserbanti e sostanze potenzialmente tossiche. I negozi dove facciamo la spesa ne sono pieni: qualsiasi prodotto alimentare contiene fino al 70 per cento di Gm, prevalentemente mais e soia. Ancora meglio è andata con le coltivazioni di generi non commestibili. Prendete il cotone: i parassiti lo adorano, la musica folk è piena di riferimenti a epidemie del genere. Questo implica un uso massiccio di pesticidi. Il maggiore produttore mondiale di cotone, la Cina, ha contato varie vittime di patologie derivanti dall'effetto tossico di tali sostanze. Poi, nel 1996, Monsanto ha lanciato il cotone Bt - un Ogm in cui è stato inserito un gene di batterio Bacillus thuringiensis come deterrente interno per i parassiti. L'introduzione delle nuove sementi ha ridotto della metà il ricorso ai pesticidi, e la salute dei contadini ne ha tratto notevoli vantaggi. Per i produttori, dunque, gli Ogm sono stati subito i benvenuti. Ai consumatori, invece, c'è voluto un po' per comprenderne i benefici. Gli ambientalisti li hanno marchiati come creazioni innaturali destinate a distruggere le coltivazioni tradizionali e danneggiare i nostri organismi. L'Europa li ha osteggiati in tutti i modi, eccetto che mettendoli al bando, dando origine a una guerra economica globale che è costata all'America miliardi in calo di esportazioni. E anche negli stessi Stati Uniti questi cibi non hanno avuto vita facile: a marzo la contea californiana di Mendocino ha addirittura deciso di dichiararli fuori legge. I nemici dell'Ogm hanno peraltro trovato dei preziosi alleati in alcuni scienziati che condannano i colossi aziendali che stanno dietro al settore della transgenica, primo fra tutti Monsanto. La celebre compagnia biotech ha messo sotto brevetto non solo le sue sementi Gm ma anche tutto il processo necessario per produrle, il che da origine a una sorta di monopolio virtuale che rallenta l'innovazione: nessuno può giocare tranquillamente con i geni senza preoccuparsi del volere del gigante. Il discorso ci riporta all'agricoltura intelligente. I ricercatori stanno iniziando a conoscere così a fondo le piante che non hanno più bisogno della transgenica per ottenere resistenza alla siccità, maggiore valore nutrizionale e durata. Negli ultimi decenni, gli scienziati hanno scoperto che le nostre coltivazioni tradizionali sono piene di qualità latenti. Piuttosto che inserire nel loro genoma un gene di batterio resistente - per esempio - alla peste, spesso è possibile semplicemente attivare una capacità innata. Conclusione: l'agricoltura intelligente promette una rivoluzione condotta con metodi indiscutibili e soprattutto non brevettabili. Pensate agli innesti e alle ibridazioni che i contadini effettuano da secoli, affidandosi solo all'istinto, imparando da tentativi ed errori, regalandoci - grazie a un po' di fortuna - meraviglie come il tangelo, le zucche gigante, i cetrioli senza semi. Tutto sta nel sostituire al caso una conoscenza precisa del ruolo che ogni singolo gene gioca nell'esistenza della pianta. Oggi, gli scienziati riescono a ottenere le caratteristiche desiderate in un batter d'occhio, mentre in passato ci volevano almeno dieci anni. Non solo: si possono creare specie che prima, senza la transgenica, non immaginavamo nemmeno. L'avanguardia dell'alimentazione è fatta di frutta e verdura allo stesso tempo naturale e soprannaturale. Potremmo definirla "superorganica": coltivazioni saporite, abbondanti, sicure e nutrienti che non hanno bisogno di fertilizzanti e pesticidi. Un cibo di nuova generazione che fa contenti produttori, consumatori, attivisti e istituzioni. Praticamente ogni raccolto esistente al mondo vanta una banca dati genetica corrispondente fatta dei semi di migliaia di altre specie correlate. Finora, si trattava solo di libri abbandonati alla polvere. Oggi invece, i progressi della genomica e delle information technology - in termini sia di potenza di elaborazione che di capacità di immagazzinamento - ne hanno fatto dei cataloghi in cui vengono classificati non solo i molteplici tratti caratteristici delle singole varietà ma anche le tecniche per attivarli e diffonderli. Uno degli strumenti più utili all'agricoltura biologica è il marker del Dna. Si tratta di un contrassegno relativo a una particolare porzione del cromosoma, che consente ai ricercatori di individuare esclusivamente il gene responsabile di una specifica caratteristica. Grazie ai marker, gran parte del lavoro può essere svolto in laboratorio, risparmiando tempo e denaro senza bisogno di sperimentare sul campo. Una volta isolato il tratto desiderato, si usano tecniche tradizionali come la coltura (ovvero la coltivazione di germogli in un medium ricco di nutrienti finché non sono forti abbastanza per sopravvivere da soli). In particolari varianti, è possibile incrociare con successo anche specie lontanamente imparentate fra loro che in condizioni diverse non avrebbero dato frutto. È importante sottolineare, in proposito, che spesso le varietà selvatiche sono quelle che presentano le qualità migliori. In tali casi, il germoglio può essere estratto e coltivato in laboratorio. Un'altra tecnica - detta "coltura di antera" - può essere quella di ottenere una pianta compiuta a partire da una singola cellula dello stame. A confronto di metodi del genere, la transgenica sembra un gioco da ragazzi. In realtà, esiste un collegamento: l'agricoltura intelligente è l'unione del meglio della transgenica con il meglio dell'organica. Può dar da mangiare a tutto il mondo, salvare la Terra e porre fine al monopolio dei brevetti. Ne è convinto anche Robert Goodman, ex direttore scientifico della Calgene che ora lavora per la McKnight Foundation alla supervisione di un programma da 50 milioni di dollari per il finanziamento della ricerca genomica nei paesi in via di sviluppo. «Le opinioni diffuse sugli Ogm sono ormai un ricordo», commenta. «La scienza è già andata oltre». A metà degli anni Ottanta, una laureanda in Scienze agricole della Cornell University accettò un incarico che nessun altro aveva voluto assumersi. Il suo nome? Susan McCouch. Il compito affidatole? Stilare una mappa dei 40 mila geni che compongono il genoma del riso. Una volta completato, nel 1988, quel lavoro sarebbe stato una pietra miliare nella storia della ricerca scientifica. A sedici anni di distanza, sta facendo tremare i monopoli aziendali del settore. Prima della comparsa della McCouch il riso - alimento principe per i poveri di quasi tutto il mondo - sembrava condannato all'oblio scientifico. Le aziende erano interessate solo a mais e frumento, basi dell'alimentazione occidentale. Ma si sa: le mappe fatte bene cambiano le cose, come quando i geologi, guardando delle carte del Sud America e dell'Africa, si resero conto che gli estremi dei due continenti combaciavano, dando vita alla teoria della tettonica a placche. La mappa della McCouch è stata altrettanto illuminante. I ricercatori l'hanno confrontata con i genomi del mais e del frumento e hanno scoperto che le tre specie - così come altri cereali che insieme a loro costituiscono i due terzi dell'alimentazione umana - hanno un patrimonio genetico molto simile. Le ricerche già effettuate su mais e frumento potevano quindi essere utilizzate per comprendere meglio alimenti essenziali per le popolazioni del Terzo mondo come riso, teff, miglio e sorgo. Un gene individuato in una qualsiasi delle specie poteva essere localizzato anche nelle altre. Le caratteristiche dell'una potevano essere estese anche alle altre: se una data varietà di frumento è particolarmente resistente alla peste anche il riso può diventarlo, bisogna solo riuscire ad attivare quel tratto. Attualmente la McCouch, che è rimasta alla Cornell, sta lavorando alle possibilità di incrocio tra il riso domestico e i suoi antenati selvatici. «Alcuni geni possono incrementare i raccolti», spiega. «E si possono ottenere semi più grandi che danno vita a piante di dimensioni maggiori». Anni e anni di agricoltura non scientifica hanno senza volere cancellato molti geni utili, diminuendo le difese naturali delle piantagioni. Lo scopo della McCouch è quello di recuperare tale magica complessità. Scienziati di tutto il mondo stanno prendendo esempio dal suo lavoro. In Cina il ricercatore Deng Qiyun, ispirato dai saggi di questa studiosa, ha usato i marker molecolari nell'incrocio tra un parente selvatico del riso e un ibrido di produzione nazionale, ottenendo un aumento del 30 per cento nei raccolti (più di qualsiasi altro risultato mai raggiunto durante la Rivoluzione Verde). In India, i più poveri non possono permettersi l'irrigazione delle terre - e quindi coltivare riso - ma per soddisfare le esigenze di una popolazione in continua crescita la produzione nazionale di questo cereale dovrà per forza di cose raddoppiare entro il 2025. Un ricercatore di Bangalore sa come fare. Si chiama H. E. Shashidhar, e ha catalogato i geni delle varie varietà per elaborare incroci in grado di dar vita a un super-riso iperfertile. In Africa occidentale, alcuni contadini hanno creato il Nerica, un riso miracoloso che unisce i tratti migliori delle varianti asiatiche e africane: cresce rigoglioso, resiste alle epidemie e alla siccità, e contiene il 31 per cento di proteine in più. Ma non si tratta solo di produrre nuovo riso per i paesi in via di sviluppo. Irwin Goldman, docente di orticultura alla University of Wisconsin-Madison, ricorda l'importanza fondamentale dei lavori della McCouch come fonte di ispirazione per i suoi studi sulle carote, le cipolle e le barbabietole. Attraverso un complesso processo di manipolazione genetica su una barbabietola, ha scoperto un modo per migliorare l'aspetto e il gusto di tutte le specie vegetali. I geni della barbabietola codificano due pigmenti appartenenti alla classe chimica delle betaline. Quando sono presenti entrambi, la barbabietola è rossa. Disattivando un gene - cosa che può accadere anche con una mutazione naturale - diventa dorata. Attivandolo a intermittenza nelle diverse fasi di sviluppo, compaiono delle striature. Non che avere una barbabietola striata sia importante in sé e per sé (varietà simili esistevano già nel Diciannovesimo secolo in Italia, per esempio). Più significativo è che Goldman sia riuscito a identificare i geni a cui il tratto è associato e a capire come manipolarli. Un giorno, potrebbe derivarne qualcosa di altrettanto utile del riso al betacarotene che il nostro organismo trasforma in vitamina A. Da anni, gli ingegneri tentano di introdurre questo cereale in Asia, dove la carenza di vitamina A provoca milioni di casi di cecità ogni anno. Già creare la variante Gm non è stato facile - è stata necessaria l'inserzione di due geni di giunchiglia - ma ancora più difficile è stato farla accettare alla gente. Come nel caso del Flavr Savr, il Golden Rice si è attirato le ire del movimento Frankenfood accalappiandosi circa 70 brevetti. Un equivalente naturale non avrebbe incontrato gli stessi inconvenienti. Un'iniziativa troppo lungimirante? Forse, dal momento che per quanto ci risulta non esiste un riso che contenga betacarotene. Ma non pensavamo nemmeno che le carote contenessero vitamina E, prima che lo scoprisse Goldman. Studiando il genoma della carota, Goldman ne ha appunto scoperto alcune varietà esotiche (gialle, arancioni, rosse e addirittura porpora) che producono vitamina E. Per sfruttare tale caratteristica basta isolare i geni responsabili e incrociare le varianti selvatiche con quelle ordinarie. Il patrimonio genetico dei vegetali si è rivelato inoltre una miniera inesauribile di antiossidanti, composti di zolfo, tannina - tutti fattori che illuminano il colore e rafforzano il gusto - andati persi con il passare dei secoli. Molti di questi tratti non solo prevengono il cancro e aumentano il valore nutrizionale, ma servono anche a migliorare il sapore difendendo contemporaneamente le piante dalle epidemie. Oggi sappiamo come recuperare queste qualità. E possiamo farlo velocemente. Le aziende spesso impiegano anni ad affermare una nuova varietà. Per recuperare il denaro investito, vendono semi che non trasmettono le proprietà auspicate di raccolto in raccolto, costringendo i contadini a comprarne di nuovi ogni anno. L'agricoltura intelligente è più veloce e più economica: gran parte del lavoro si svolge in laboratorio, risparmiando tempo e soldi. Le ricerche di Goldman sono finanziate dall'università, il che gli permette di scartare senza appello i tentativi malriusciti. Gli studi, condotti in collaborazione con agricoltori e mercati locali, hanno come esito la produzione di sementi a impollinazione aperta, una versione agricola dell'open source. Richard Jefferson è un musicista d'avanguardia americano che vive in Australia, nonché presidente del Cambia (Center for the Application of Molecular Biology to International Agriculture), una think tank di Canberra con lo scopo di attuare in agricoltura una rivoluzione analoga a quella open source prodotta nell'informatica da Linus Torvalds e Richard Stallman, secondo la filosofia per cui "qualsiasi tecnologia innovativa dev'essere pubblica". Se Goldman e la McCouch puntano al superamento degli Ogm attraverso metodi che fanno tesoro dell'ingegneria genetica, Jefferson preferisce un approccio più diretto. Tutti e tre, peraltro, sfruttano la conoscenza approfondita dei genomi delle piante per crearne varianti sempre nuove. Ma mentre i primi due studiano le mappe genetiche per escogitare nuovi incroci, quest'ultimo mescola le carte all'interno del genoma stesso. Non inserisce niente di nuovo. Per lui la transgenica è una "scienza noiosa", ma non è affatto contrario alle manipolazioni. Solo preferisce insegnare a ogni singola pianta a sfruttare le proprie potenzialità nascoste senza alcun ausilio esterno. Jefferson è diventato famoso nel 1985 per la scoperta del Gus, un gene reporter che, in associazione con altri geni attivi, produce delle variazioni morfologiche. Lo ha distribuito gratuitamente a università e laboratori no profit, ma ha chiesto milioni alle aziende biotech. Tutti quei soldi li ha usati per fondare il Cambia, istituto che progetta tecnologie per aiutare gli scienziati dei paesi in via di sviluppo a creare nuove varietà di cibi senza infrangere i brevetti Ogm. L'ingegneria transgenica tratta il genoma alla pari di un software, come se contenesse un codice binario. Se vuole che un organismo presenti un dato tratto, vi inserisce un gene. Ma il genoma è molto più complesso di un software informatico. Il codice binario può esprimere solo due valori (1 o 0), mentre il Dna ne comprende quattro (A,C,T, e G). Non solo: il genoma è in costante interazione con se stesso per la produzione di quelli che i teorici della complessità definiscono comportamenti emergenti. Le caratteristiche di un organismo spesso non sono il risultato della reazione all'attività di un singolo gene, bensì il prodotto di una relazione a più fattori. Ecco perché il Dna è ancora in larga parte un'entità misteriosa. Jefferson punta a dominare questo magma indistinto con una tecnica che chiama transgenomica. Un uomo è diverso dai propri fratelli perché in fase di riproduzione i corredi cromosomici dei genitori sono andati a ricombinarsi in schemi specifici e distinti da individuo a individuo. Lo stesso vale per le piante. Jefferson ha manipolato i geni originari in modo che agiscano da interruttori che di volta in volta attivano o disattivano le proprietà latenti di una specie. Con il cosiddetto metodo Hart, mescola il genoma (senza alcuna inserzione) per indurlo a emulare i tratti tipici di altre coltivazioni. «Si prende ispirazione da un'altra pianta e si invita quella che abbiamo sotto mano a cambiare autonomamente in quella direzione», spiega. L'esempio che più ama fare è quello del granturco sentinella, una versione a grandezza pianta del gene Gus che diventa rosso quando ha bisogno di acqua. Potrà anche non sembrare una gran scoperta, ma di solito quando il granturco comune si decide a cominciare ad appassire è già troppo tardi per salvarlo. Stiamo parlando del confine che separa non solo il profitto dalla perdita ma anche il nutrimento dalla carestia. Il sogno ultimo di Jefferson è la cosiddetta apomissi, o clonazione delle piante. Il suo obiettivo è quello di insegnare alle varie specie a clonare se stesse come fanno naturalmente tarassaco e rovi. Quando le piante riusciranno a produrre sementi geneticamente identici a se stesse, non ci sarà più bisogno di comprare ogni anno sementi ibride. Jefferson e altri sostengono di aver già individuato varie strade per arrivare a questo traguardo, ma la competizione è accesissima e nessuno è disposto a rivelare particolari. Il vero problema non è tanto elaborare un metodo, quanto piuttosto portarlo avanti in un mondo dominato dai brevetti. «Non sono un ottimista tecnologico convinto che basti inventare qualcosa di nuovo perché tutto vada bene», commenta Jefferson. «Le modalità di presentazione contano moltissimo». La sua idea è quella di creare un movimento open source per le biotecnologie. Istituti di beneficenza dovrebbero consorziarsi per creare piattaforme e garantire il libero utilizzo delle nuove tecnologie a ricercatori di enti pubblici e privati. Lo sfruttamento commerciale dei prodotti finali sarà il benvenuto, ma la tecnologia di base - l'Os per così dire - dovrà essere accessibile a chiunque. Primo passo: la pubblicazione dell'intero portfolio del Cambia. Si sarebbe tentati di paragonare questo progetto alla battaglia di Linux contro Microsoft, con la Monsanto equivalente biotech del colosso dei Pc. Anche in questo caso si tratta di un'iniziativa forte e decentralizzata. L'agricoltura è uno dei settori più dispendiosi di attività umana. Seminiamo centinaia di specie di piante per ottenere un singolo raccolto. Distruggiamo interi ecosistemi con pesticidi, fertilizzanti, spreco d'acqua ed emissioni di trattori. Lo facciamo ancora e ancora. L'agricoltura organica rompe questo circolo vizioso. È solo un cerotto sulla ferita, ma se ci aggiungiamo le competenze biotecnologiche può dar vita a qualcosa di enorme. Nei genomi delle piante è scritto come la natura da secoli si regge e si governa. E i ricercatori di tutto il mondo stanno imparando non solo a leggere quelle informazioni ma anche a ricodificarle. Questo non vuol dire che l'avventura sia automaticamente destinata al successo. La nuova era dell'alimentazione non inizierà con un Big Bang tecnologico. Ma questo è anche un bene. Gli eventi improvvisi sono difficili da gestire. Un'innovazione graduale e costante consentirà invece di avviare le giuste iniziative di marketing. L'opinione pubblica è un'entità complessa come il genoma, e altrettanto difficile da controllare. Le competenze scientifiche ci sono. Se l'economia riuscirà a spiegare bene cos'è - e cosa non è - la superorganica, i nuovi prodotti cambieranno non solo il nostro modo di mangiare, ma anche quello in cui ci rapportiamo al pianeta su cui viviamo.
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