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il declino del benessere
- Subject: il declino del benessere
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 17 Apr 2004 07:48:05 +0200
da lavoceinfo.it giovedi 15 aprile 2004 14-04-2004 Il declino nel benessere Tito Boeri No, non è un difetto di percezione. Il disagio diffuso, la sensazione di un declino economico del nostro paese non sono privi di fondamento. Ma non chiamiamolo impoverimento. Stiamo peggio anche se il reddito medio non è diminuito e la povertà non è aumentata. Ai diversi indizi disponibili fino a una settimana fa (dati Inps-Istat sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti nel settore privato, indagini Istat sulla povertà a livello regionale, dati di contabilità nazionale), si sono finalmente aggiunti in questi giorni i risultati dell'indagine Banca d' Italia sui bilanci delle famiglie. A questo punto, il mosaico è completo. Ricomponendolo, scopriamo che in un paese mai così fermo, è aumentata la variabilità nel tempo dei redditi individuali e, quindi, la probabilità di diventare più poveri o più ricchi. E in un paese che invecchia, in cui aumenta perciò l'avversione al rischio, tutto ciò ha un nome: diminuzione del benessere. Non è impoverimento Non si tratta di impoverimento, nel senso che il reddito medio non è diminuito. Né sono aumentate la povertà "assoluta" (la percentuale di famiglie che sono rimaste al di sotto di una soglia di reddito minimo, vitale) o quella "relativa" (la quota di famiglie che hanno un reddito inferiore a metà del reddito mediano), secondo i dati dell'indagine Banca d' Italia. Certo, questi ultimi riguardano i redditi del 2002; nel 2003 il quadro potrebbe essere peggiorato. Ma è davvero molto difficile che la povertà possa aumentare in modo significativo nel giro di un anno, in un paese con una distribuzione del reddito molto stabile, che nel 2003 ha attraversato una stagnazione economica, anziché una recessione, e in cui l'occupazione è cresciuta. Per sincerarcene, abbiamo anche consultato i centri di assistenza ai poveri sparsi sul territorio nazionale (Caritas, Opera S. Francesco, eccetera): ci hanno detto che non è aumentato il numero di pasti concessi agli indigenti, se non dove è stato possibile aumentarne l'offerta, a fronte di una domanda già elevata negli anni scorsi. Sembra, invece, essere cambiata l'identità di chi si rivolge a questi centri. Cominciano ad arrivare anche persone che hanno un lavoro, non più, come in passato, garanzia di livelli di reddito "adeguati". Aumentano i rischi C'è una tabella molto utile nell'appendice statistica del rapporto sull' indagine Banca d'Italia. Ci offre informazioni sulla mobilità delle famiglie fra le cinque fasce di reddito in cui è possibile suddividere, in gruppi di uguale dimensione, le famiglie italiane (i quintili). Questa tabella, ricorrente nei diversi rapporti, ci racconta che tra il 1993 e il 1995 mediamente il 57 per cento delle famiglie non cambiava fascia di reddito, mentre tra il 2000 e il 2002 la percentuale era scesa al 53 per cento. Si tratta di circa un milione di famiglie in più. Sono soprattutto le famiglie con un reddito medio-basso (con reddito pro-capite annuale tra i 13.000 e i 19mila euro) quelle che hanno visto aumentare la probabilità di scivolare nel quintile di famiglie con il reddito più basso. È, inoltre, aumentata la quota di reddito del lavoro autonomo (dal 12 al 15 per cento nel giro di dieci anni), a scapito del lavoro alle dipendenze. Il miglioramento relativo dei redditi da lavoro autonomo non necessariamente comporta una redistribuzione fra persone diverse (molti hanno redditi sia da lavoro autonomo che da lavoro alle dipendenze), ma implica una maggiore variabilità dei redditi. Il lavoro autonomo è, infatti, fonte di redditi molto più aleatori del lavoro alle dipendenze. E anche quest'ultimo non è più sinonimo di reddito sicuro: se è aumentata la probabilità di trovare un lavoro, è cresciuta anche quella di perderlo nell'ultimo decennio. Anche la ricchezza delle famiglie (pari in media circa a sei volte il reddito annuale) è investita in attività più rischiose: i titoli di stato sono scesi dal 25 per cento al 9 per cento del portafoglio (oggi offrono rendimenti competitivi solo su scadenze lunghe, ma questo espone al rischio di forti perdite in conto capitale nel caso si avessero problemi di liquidità), mentre aumentano le azioni e le obbligazioni "corporate" che possono riservare anche sgradite sorprese. Vi sono, poi, altre dimensioni di incertezza sui redditi futuri, quali il rischio di nuove riforme previdenziali (ritenute inevitabili da tre italiani su quattro secondo i sondaggi Demoskopea-Fondazione Rodolfo Debenedetti), che potrebbero ulteriormente ridurre i redditi una volta ritiratisi dalla vita attiva e l'aleatorietà dei rendimenti dell'investimento in istruzione (vedi il commento di Chiara Saraceno sull'indagine Alma laurea). In un'economia piatta È questa una tendenza in atto da almeno un decennio e che ha anche risvolti positivi perché può segnalare un aumento delle opportunità di mobilità sociale. Non è un fenomeno circoscritto a questa legislatura, un effetto del Governo Berlusconi. Ma non è neanche un costrutto ideologico, un frutto dell 'antiberlusconismo, in un paese forse mai così diviso dalla politica. Oggi il disagio è acuto perché l'economia è piatta. Un'economia che cresce può compensare la perdita di certezze con un aumento del reddito medio. In un'economia ferma e, al tempo stesso, più rischiosa si sta peggio, soprattutto se si è più vecchi, dunque meno in grado di proteggersi dal rischio. I dati sono impietosi: nei tre anni dal primo semestre del 2001 a oggi siamo cumulativamente cresciuti meno dell'1 per cento, meno della metà della Francia, un quarto della crescita nei paesi piccoli d'Europa, quelli per loro natura più esposti ai fattori internazionali su cui si tende a scaricare le colpe dei nostri insuccessi economici. La peggiore performance economica avutasi in una legislatura del Dopoguerra è in stridente contrasto con le aspettative create alla vigilia. I pensionati non saranno diventati più poveri, ma sono senz'altro più poveri di quanto sarebbero stati se avessero ricevuto tutti una pensione di almeno "un milione al mese", come promesso in campagna elettorale. In questo, il Governo rischia di rimanere vittima di se stesso, dei suoi annunci, subendo il contraccolpo delle tante speranze disattese. Le risposte politiche Chi allora, al Governo come all'opposizione, volesse oggi cercare di dare risposte al disagio degli italiani dovrà offrire qualche credibile certezza: un'amministrazione prudente dei conti pubblici (un patrimonio di tutti), un estratto conto inviato a tutti i contribuenti dell'Inps su quanto presumibilmente riceveranno quando andranno in pensione, più opportunità di spostarsi fra diversi percorsi formativi nel caso si scoprisse di avere fatto l'investimento in istruzione sbagliato invece di specializzazioni precoci e percorsi formativi obbligati, meno riforme virtuali (quelle che confondono le idee, cambiando solo nomi e procedure) e, soprattutto, un vero sistema di ammortizzatori sociali che protegga contro il rischio di diventare davvero poveri. Perché, anche questo ce lo dicono i sondaggi, gli italiani sono disposti ad accettare più rischi sul mercato del lavoro e sui redditi futuri sapendo che vi sono tutele minime che impediranno loro di cadere in condizioni di indigenza. Speriamo che in questa campagna elettorale se ne parli: siamo l'unico paese dell'Unione a non avere una rete di protezione sociale di ultima istanza. Lavoce.info farà di tutto perché questa ennesima anomalia italiana non passi inosservata.
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