il declino del benessere



da lavoceinfo.it
giovedi 15 aprile 2004
14-04-2004

Il declino nel benessere

Tito Boeri

No, non è un difetto di percezione. Il disagio diffuso, la sensazione di un
declino economico del nostro paese non sono privi di fondamento. Ma non
chiamiamolo impoverimento. Stiamo peggio anche se il reddito medio non è
diminuito e la povertà non è aumentata.
Ai diversi indizi disponibili fino a una settimana fa (dati Inps-Istat sulle
retribuzioni dei lavoratori dipendenti nel settore privato, indagini Istat
sulla povertà a livello regionale, dati di contabilità nazionale), si sono
finalmente aggiunti in questi giorni i risultati dell'indagine Banca d'
Italia sui bilanci delle famiglie.
A questo punto, il mosaico è completo. Ricomponendolo, scopriamo che in un
paese mai così fermo, è aumentata la variabilità nel tempo dei redditi
individuali e, quindi, la probabilità di diventare più poveri o più ricchi.
E in un paese che invecchia, in cui aumenta perciò l'avversione al rischio,
tutto ciò ha un nome: diminuzione del benessere.

Non è impoverimento

Non si tratta di impoverimento, nel senso che il reddito medio non è
diminuito. Né sono aumentate la povertà "assoluta" (la percentuale di
famiglie che sono rimaste al di sotto di una soglia di reddito minimo,
vitale) o quella "relativa" (la quota di famiglie che hanno un reddito
inferiore a metà del reddito mediano), secondo i dati dell'indagine Banca d'
Italia.
Certo, questi ultimi riguardano i redditi del 2002; nel 2003 il quadro
potrebbe essere peggiorato. Ma è davvero molto difficile che la povertà
possa aumentare in modo significativo nel giro di un anno, in un paese con
una distribuzione del reddito molto stabile, che nel 2003 ha attraversato
una stagnazione economica, anziché una recessione, e in cui l'occupazione è
cresciuta.
Per sincerarcene, abbiamo anche consultato i centri di assistenza ai poveri
sparsi sul territorio nazionale (Caritas, Opera S. Francesco, eccetera): ci
hanno detto che non è aumentato il numero di pasti concessi agli indigenti,
se non dove è stato possibile aumentarne l'offerta, a fronte di una domanda
già elevata negli anni scorsi. Sembra, invece, essere cambiata l'identità di
chi si rivolge a questi centri. Cominciano ad arrivare anche persone che
hanno un lavoro, non più, come in passato, garanzia di livelli di reddito
"adeguati".

Aumentano i rischi

C'è una tabella molto utile nell'appendice statistica del rapporto sull'
indagine Banca d'Italia. Ci offre informazioni sulla mobilità delle famiglie
fra le cinque fasce di reddito in cui è possibile suddividere, in gruppi di
uguale dimensione, le famiglie italiane (i quintili).
Questa tabella, ricorrente nei diversi rapporti, ci racconta che tra il 1993
e il 1995 mediamente il 57 per cento delle famiglie non cambiava fascia di
reddito, mentre tra il 2000 e il 2002 la percentuale era scesa al 53 per
cento.
Si tratta di circa un milione di famiglie in più. Sono soprattutto le
famiglie con un reddito medio-basso (con reddito pro-capite annuale tra i
13.000 e i 19mila euro) quelle che hanno visto aumentare la probabilità di
scivolare nel quintile di famiglie con il reddito più basso.
È, inoltre, aumentata la quota di reddito del lavoro autonomo (dal 12 al 15
per cento nel giro di dieci anni), a scapito del lavoro alle dipendenze. Il
miglioramento relativo dei redditi da lavoro autonomo non necessariamente
comporta una redistribuzione fra persone diverse (molti hanno redditi sia da
lavoro autonomo che da lavoro alle dipendenze), ma implica una maggiore
variabilità dei redditi. Il lavoro autonomo è, infatti, fonte di redditi
molto più aleatori del lavoro alle dipendenze. E anche quest'ultimo non è
più sinonimo di reddito sicuro: se è aumentata la probabilità di trovare un
lavoro, è cresciuta anche quella di perderlo nell'ultimo decennio.
Anche la ricchezza delle famiglie (pari in media circa a sei volte il
reddito annuale) è investita in attività più rischiose: i titoli di stato
sono scesi dal 25 per cento al 9 per cento del portafoglio (oggi offrono
rendimenti competitivi solo su scadenze lunghe, ma questo espone al rischio
di forti perdite in conto capitale nel caso si avessero problemi di
liquidità), mentre aumentano le azioni e le obbligazioni "corporate" che
possono riservare anche sgradite sorprese.
Vi sono, poi, altre dimensioni di incertezza sui redditi futuri, quali il
rischio di nuove riforme previdenziali (ritenute inevitabili da tre italiani
su quattro secondo i sondaggi Demoskopea-Fondazione Rodolfo Debenedetti),
che potrebbero ulteriormente ridurre i redditi una volta ritiratisi dalla
vita attiva e l'aleatorietà dei rendimenti dell'investimento in istruzione
(vedi il commento di Chiara Saraceno sull'indagine Alma laurea).

In un'economia piatta

È questa una tendenza in atto da almeno un decennio e che ha anche risvolti
positivi perché può segnalare un aumento delle opportunità di mobilità
sociale. Non è un fenomeno circoscritto a questa legislatura, un effetto del
Governo Berlusconi. Ma non è neanche un costrutto ideologico, un frutto dell
'antiberlusconismo, in un paese forse mai così diviso dalla politica.
Oggi il disagio è acuto perché l'economia è piatta. Un'economia che cresce
può compensare la perdita di certezze con un aumento del reddito medio. In
un'economia ferma e, al tempo stesso, più rischiosa si sta peggio,
soprattutto se si è più vecchi, dunque meno in grado di proteggersi dal
rischio.
I dati sono impietosi: nei tre anni dal primo semestre del 2001 a oggi siamo
cumulativamente cresciuti meno dell'1 per cento, meno della metà della
Francia, un quarto della crescita nei paesi piccoli d'Europa, quelli per
loro natura più esposti ai fattori internazionali su cui si tende a
scaricare le colpe dei nostri insuccessi economici.
La peggiore performance economica avutasi in una legislatura del Dopoguerra
è in stridente contrasto con le aspettative create alla vigilia. I
pensionati non saranno diventati più poveri, ma sono senz'altro più poveri
di quanto sarebbero stati se avessero ricevuto tutti una pensione di almeno
"un milione al mese", come promesso in campagna elettorale. In questo, il
Governo rischia di rimanere vittima di se stesso, dei suoi annunci, subendo
il contraccolpo delle tante speranze disattese.

Le risposte politiche

Chi allora, al Governo come all'opposizione, volesse oggi cercare di dare
risposte al disagio degli italiani dovrà offrire qualche credibile certezza:
un'amministrazione prudente dei conti pubblici (un patrimonio di tutti), un
estratto conto inviato a tutti i contribuenti dell'Inps su quanto
presumibilmente riceveranno quando andranno in pensione, più opportunità di
spostarsi fra diversi percorsi formativi nel caso si scoprisse di avere
fatto l'investimento in istruzione sbagliato invece di specializzazioni
precoci e percorsi formativi obbligati, meno riforme virtuali (quelle che
confondono le idee, cambiando solo nomi e procedure) e, soprattutto, un vero
sistema di ammortizzatori sociali che protegga contro il rischio di
diventare davvero poveri.
Perché, anche questo ce lo dicono i sondaggi, gli italiani sono disposti ad
accettare più rischi sul mercato del lavoro e sui redditi futuri sapendo che
vi sono tutele minime che impediranno loro di cadere in condizioni di
indigenza.
Speriamo che in questa campagna elettorale se ne parli: siamo l'unico paese
dell'Unione a non avere una rete di protezione sociale di ultima istanza.
Lavoce.info farà di tutto perché questa ennesima anomalia italiana non passi
inosservata.