perchè la libertà non l'ha inventata l'occidente



dal manifesto di domenica 28 marzo 2004


il manifesto - 28 Marzo 2004

LA DEMOCRAZIA DEGLI ALTRI

L'invenzione di un primato

«La democrazia degli altri», due saggi pubblicati da Mondadori del Nobel per
l'economia Amartya Sen per spiegare, con numerosi esempi nella storia e
nelle diverse aree del mondo, «perché la libertà non è un'invenzione
dell'Occidente»

GUGLIELMO RAGOZZINO

Amartya Sen, in un passo del secondo scritto che compone La democrazia degli
altri (Mondadori, pp. 88, ? 10), usa un esempio apparentemente frivolo. Cita
il caso del marito che nel romanzo Punto contro punto di Aldous Huxley, per
meglio tradire la moglie, si inventa una ricerca da fare al British Museum
sulla democrazia nell'India antica. Ma esisteva democrazia nell'India
antica? Un quesito senza soluzioni o addirittura inutile, agli occhi degli
snob inglesi dell'epoca imperiale, ma capace di appassionare gli specialisti
da museo, lasciando molto tempo a tresche più divertenti ma di tutt'altra
natura. Alcuni europei la pensano, ancora e sempre, così, gettando il
ridicolo su dominanti e dominati, ma si potrebbe dire che la democrazia,
ereditata insieme agli aviti manieri, non la meritino. Sen sorride, ma
l'argomento lo appassiona. Egli ritiene che la diffusione della democrazia
sia il fatto saliente («l'evento») del ventesimo secolo, ma che la
democrazia non sia un'invenzione occidentale e tanto meno una qualità o una
caratteristica dell'Occidente (Europa, Nord America) venduta al resto del
mondo, insieme al libero scambio e alla coca cola. Bisogna ripeterlo e
ripeterlo ancora. E così, nel secondo saggio contenuto nel volume dà una
definizione della democrazia, discute di come la si possa esportare e poi se
essa si adatti a ogni popolo e a ogni cultura e infine a cosa serva, perché
sia così importante o meglio essenziale. Tutto questo in meno di quaranta
minuscole pagine: il testo di un discorso del febbraio del 1999, durante la
Global Conference on Democracy tenutasi a New Delhi.

Che cosa sia la democrazia è presto detto: «Innanzitutto occorre evitare
l'identificazione fra democrazia e governo della maggioranza. La democrazia
ha esigenze complesse, fra cui naturalmente lo svolgimento delle elezioni e
l'accettazione del loro risultato, ma richiede inoltre la protezione dei
diritti e delle libertà, il rispetto della legalità, nonché la garanzia di
libere discussioni e di una circolazione senza censura delle notizie. In
realtà anche le elezioni possono essere del tutto inutili se si svolgono
senza aver offerto alle diverse parti un'adeguata opportunità per presentare
le loro posizioni, o senza concedere all'elettorato la possibilità di avere
accesso alle notizie e valutare le opinioni di tutti i contendenti. La
democrazia è un sistema che esige un impegno costante, e non un semplice
meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente e isolato da
tutto il resto». Dopo che la democrazia scese dall'antica Grecia, via Magna
Charta a paesi e sistemi più prossimi a noi, nei paesi che si considerano i
monopolisti di questa rarità, ci si continua a chiedere: possiamo esportarla
là o là? E' pronto quel paese? Secondo Sen è una domanda sbagliata. Non si è
pronti per, ma mediante la democrazia. Significa che la democrazia cresce
nel suo stesso farsi, vive realizzandosi.

Un altro aspetto è quello dell'idoneità. Asiatici dell'estremo oriente non
sarebbero idonei, al contrario di popoli di diversa cultura e tradizioni. Ma
neppure Confucio resiste alla critica democratica, universalistica. Alla
domanda su cosa dire al re, anche Confucio suggerisce: «digli la verità,
anche se lo offende». E aggiunge Sen: «i due pilastri dell'immaginario
palazzo dei valori asiatici - fedeltà alla famiglia e obbedienza allo
Stato - possono trovarsi in grave contrasto fra loro». E il monolitico
palazzo dei valori comincia a cedere. Ma a che serve la democrazia? La
risposta è come sempre un'altra domanda. Sapete che in democrazia non ci
sono carestie? Studiando le carestie dell'India l'economista premio Nobel ha
capito i valori della democrazia. Le carestie hanno funestato l'India in
ogni tempo, anche sotto la dominazione inglese. Non si è mai trattato di
povertà che pure c'era, ma di cattiva distribuzione, di carenze
d'informazione, di ritardi, di mancate critiche da parte dell'opposizione.

Il confronto tra gli stati indiani, tra India e Cina è bruciante in
proposito. La democrazia è l'unico rimedio umano contro la fame, le
alluvioni, la siccità, le malattie epidemiche, dilaganti e improvvise, come
la Sars. L'ultima carestia in India è stata dunque nel 1943, sotto il giogo
inglese che impediva il dispiegarsi della democrazia, intesa come la
possibilità di informarsi, far sapere, cambiare le decisioni. Ben diverso il
caso della Cina, travolta dalle conseguenze del Grande balzo in avanti,
trasformato in verità rivelata, in politica opaca e senza alternative. A
volte la democrazia non è una soluzione perfetta, ma è il miglior rimedio
che ci sia.

Il primo scritto del libro è un articolo di ottobre 2003, quindi assai più
recente, successivo al cambio di millennio e al crollo delle torri. Sen vi
ripropone due argomenti. Il primo è l'universalismo della democrazia; il
secondo è il discorso pubblico, l'altra gamba sulla quale la democrazia
procede. La democrazia è un valore universale. Gli occidentali non possono
ammettere che la democrazia sia di tutti e non un prodotto made in Europe,
made in Usa e da lì esportato nei paesi che lo vogliono acquistare. «Tale
indebita appropriazione deriva da un lato da una grave disattenzione per la
storia intellettuale delle società non occidentali e, dall'altro, dal
difetto concettuale di considerare la democrazia sostanzialmente in termini
di voti ed elezioni, anziché secondo la più ampia prospettiva della
discussione pubblica». Sen invece è convinto che l'India sia, pur con tutti
difetti, tutte le povertà, la maggiore democrazia del mondo, capace di
difendersi contro i pericoli induisti del governo in carica e in grado di
sviluppare gli anticorpi necessari per capovolgere la tendenza attuale;
certo è più facile vantare la democrazia dell'antico re indiano Ashoka,
piuttosto che discutere, oggi, con il pessimismo di Arundhati Roy, la
splendida scrittrice che ha molti dubbi sulla democrazia attuale in India.
Per sostenere la democrazia indiana diventa indispensabile la discussione
pubblica; la stessa che deve essere sostenuta anche in molti altri casi
difficili (cioè tutti). E' la voce d'opposizione; sono la stampa, la tv,
Internet, le campagne politiche, le manifestazioni pubbliche delle donne, i
sindacati, i movimenti di opinione, comunque organizzati, (dalle marce della
pace ai girotondi, dalle campagne ai concerti, dalla raccolta di firme ai
digiuni). E Sen, pur con molto equilibrio, sembra preferire un po' questa
democrazia, in movimento, in cambiamento, a quella, più risaputa, più
fredda, delle maggioranze parlamentari.

da
Giornata Isaiah BerlinIndice / H.Media
2003 - XLV CORSO ESTIVO: 25 Agosto 27 Settembre
Sede Estiva in Santa Margherita Ligure - Villa Durazzo
Tel / Fax +39 0185 288128

Amartya SEN

Sen è il secondo intellettuale bengalese a essere insignito del prestigioso
riconoscimento. precedentemente il premio per la letteratura era stato
ottenuto da Rabindranath Tagore nel 1913. Amartya Sen è uno dei più
ascoltati economisti del mondo. Preside del Trinity College di Cambridge, è
stato docente di economia e filosofia a Harvard. Per le sue ricerche sulla
teoria della scelta sociale e sull'economia del benessere ha ricevuto il
premio Nobel per l'economia nel 1998. I suoi studi hanno aperto nuovi
scenari in discipline quali l'economia dello sviluppo, il problema delle
carestie, la filosofia morale e politica, l'epistemologia, la teoria della
misurazione e la teoria delle decisioni. Si deve a Sen l'elaborazione dell'
Hdi, l'Uman Develompent Index, il coefficiente di misurazione del grado di
sviluppo che ha introdotto nuovi parametri per valutare la ricchezza reale
di un Paese: aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti,
distribuzione del reddito. Ha detto di se stesso: «Sono un economista di
professione, e gran parte del mio lavoro è inevitabilmente legato alla
natura dei governi e dei rapporti fra sociale e economia. Gli aspetti
sociali dell'esistenza umana». Per Sen le libertà politiche e i diritti
democratici sono elementi costitutivi dello sviluppo. Gli studi di Sen su
welfare state e povertà hanno aperto nuovi orizzonti sullo sfondo di un
dibattito sempre più incandescente sulla globalizzazione, soprattutto dopo l
'11 settembre e la guerra al terrorismo. Senza il contributo di Sen oggi non
sarebbe così diffusa l'idea di economia sostenibile e la finanza etica.
Sen è nato nel 1933 a Santiniketan, "casa della pace", l'università nella
foresta fondata da Tagore. Il suo nome, Amartya, scelto proprio da
quest'ultimo, significa "colui che è impossibile uccidere"


Luisella Battaglia

Amartya Sen definisce se stesso <un economista e solo in seconda battuta un
filosofo>. In realtà, è assai difficile tener distinti i due ruoli nell'
opera di un geniale scompaginatore di confini che si è sforzato di tornare
alle origini filosofiche dell'economia e al suo stretto legame con l'etica.
Sen, come è noto, critica l'idea della razionalità che coincide con la
massimizzazione dell'interesse personale, ritenendola poca adatta a spiegare
il comportamento effettivo degli attori economici. In questo si rifà all'
insegnamento di Adam Smith--fondatore della scienza economica ma, altresì,
filosofo morale-il quale mostra, nella sua Teoria dei sentimenti morali, di
avere una concezione assai ampia dei motivi alla base dell'agire
sociale--riferendosi alla giustizia, alla generosità, alla simpatia, alla
benevolenza come alle qualità più utili per la convivenza umana.
Accanto a Smith, l'altro riferimento essenziale, per cogliere l'originale
approccio di Sen, è senz'altro l'insegnamento di Aristotele e in particolare
il suo concetto di vita buona, da intendersi non come felicità o
benessere-termini troppo compromessi in senso utilitaristico-ma come
<fioritura umana>, completo sviluppo delle nostre capacità.
Nella definizione di 'vita buona' Aristotele sottolinea che esistono diverse
funzioni che noi 'realizziamo', dalle più elementari-alimentazione, attività
fisica, divertimenti etc.-alle più complesse-capacità di riflessione, di
critica, di creazione etc.--,che rivestono tutte grande importanza nel
nostro giudizio sulla qualità della vita che conduciamo. E' questo, per Sen,
un punto cruciale da cui desume un importante criterio di giudizio: le
conseguenze delle azioni e delle scelte pubbliche non devono essere
valutate-come per gli utilitaristi o i welfaristi-in termini di utilità o di
benessere ma alla luce di quell'ideale più ampio di pieno compimento delle
capacità cui attribuiamo maggior valore. Quando stabiliamo i parametri per
valutare lo sviluppo dei paesi ricchi e di quelli poveri-è l'esempio fatto
da Sen-- dobbiamo tener presente che ci sono nazioni poverissime, per
reddito pro capite, che, tuttavia, grazie all'azione di <politiche di buon
senso> in materia di sanità pubblica, istruzione, sicurezza sociale,
riescono ad adempiere importanti funzioni a un livello paragonabile a quello
dei paesi ricchi (v. il caso dello stato indiano del Kerala).
L'insegnamento di Aristotele s'inquadra in una prospettiva dichiaratamente
liberale che ha al suo centro il valore irrinunciabile della libertà
individuale, la rivendicazione (assente nel filosofo greco) di una libertà
eguale per tutti e, soprattutto, una forte ispirazione pluralistica.
Questa particolare connessione di liberalismo e aristotelismo-che salda
insieme prospettive universalistiche e 'approccio delle capacità'-è all'
origine della visione peculiare che Sen ha della globalizzazione intesa come
straordinaria opportunità di sviluppo che, tuttavia, per essere colta
appieno richiede la contemporanea-e altrettanto globale-promozione di ogni
forma di libertà politica e sociale. In Globalizzazione e libertà (Ed.
Mondadori), si sostiene che lo sviluppo non consiste solo nel possesso di
più ampie conoscenze e in una maggiore ricchezza di beni materiali ma anche,
e soprattutto, in un processo di trasformazione sociale che elimini le
principali fonti di 'illibertà', ovvero fame, povertà, ignoranza, malattie,
mancanza di democrazia e sfruttamento indiscriminato dell'ambiente.
Da qui una nuova idea di cittadinanza, un 'cosmopolitismo possibile' indotto
dalla globalizzazione. In luogo delle comunità particolari, si assume come
ambito di riferimento l'intera umanità, con una forte valorizzazione-occorre
aggiungere-della componente femminile e dei popoli in via di sviluppo. Come
non ricordare gli studi dedicati da Sen al problema delle diseguaglianze di
genere, una delle battaglie ideali che lo hanno impegnato fin dagli anni 70
?
Contro il pensiero semplificatore che si basa sugli stereotipi e sulle
dicotomie fittizie-la più classica è quella Oriente/Occidente--l'
economista-filosofo bengalese ci esorta a ricercare pazientemente le
connessioni, riscoprendo quegli 'elementi costitutivi' che stanno, in
Oriente come in Occidente, alle radici delle moderne idee democratiche e
liberali. La tesi della contrapposizione tra valori asiatici ed europei-è la
lezione conclusiva di Laicismo indiano-aggiunge poco alla nostra
comprensione e molto alla nostra confusione sulle basi normative della
libertà e della democrazia.
Amartya Sen ci invita, pertanto, a pensare in termini di complessità ai
problemi cruciali del dibattito contemporaneo: identità, libertà,
eguaglianza, diritti umani. Nella sua analisi, l'identità, lungi dall'essere
qualcosa 'che si scopre', è il risultato di appartenenze molteplici, spesso
in conflitto, tra cui l'individuo è chiamato a scegliere. La libertà è
insieme, inscindibilmente, negativa e positiva: è, sì, assenza di vincoli e
impedimenti ma, al contempo, capacità effettiva, per gli individui, di
realizzare ciò cui attribuiscono valore e che dà un senso alla loro vita. L'
eguaglianza, per essere definita e precisata, deve rispondere alla domanda
in che cosa? ed essere vagliata nelle sue diverse facce. I diritti, infine,
lungi dall'essere dotazione esclusiva dell'Occidente, non derivano dall'
appartenenza a una nazione ma trovano il loro fondamento nella nostra
umanità condivisa.

Giampiero Cama

A. Sen nel corso della sua brillantissima carriera di studioso si è posto,
tra le altre, una domanda cruciale, che ha tormentato per secoli schiere
innumerevoli di filosofi e scienziati sociali: quali sono i criteri migliori
per valutare, ed eventualmente migliorare, il livello di benessere materiale
e civile di una società?
L'economia, campo disciplinare cui il nostro studioso appartiene, si è
cimentata con questo problema soprattutto nell'ambito di un suo sottosettore
specialistico, la teoria delle scelte pubbliche e l'economia del benessere.
Ma Sen non è solo un economista. Appartiene alla razza, purtroppo assai
rarefatta, degli scienziati sociali a tutto campo, umanisti si sarebbe detto
un tempo, che coltivano con la stessa assiduità l'economia, la filosofia
politica e la morale. Tale propensione interdisciplinare ha arricchito il
contributo di Sen alla scienza economica, contribuendo ad ampliare,
attraverso sapienti innesti da altri versanti, il suo orizzonte a volte
troppo asfittico. Ampliamento che è partito dalla discussione critica di uno
dei suoi principali capisaldi teorici: l'utilitarismo.
Per gli utilitaristi il raggiungimento di una condizione di benessere
discende da un'aggregazione che, semplicemente, si limiti a sommare le
preferenze dei singoli individui che compongono una determinata società.
Tale criterio, basato sulla "sovranità del consumatore", è tributario di un
estremo rispetto nei confronti degli individui, dal momento che toglie a
qualsiasi autorità esterna la prerogativa di prescrivere cosa è meglio per
loro. Tuttavia, in contrasto a questa visione, Sen sottolinea tre cose. In
primo luogo, certe preferenze espresse dai singoli hanno una chiara natura
antisociale (e sono quindi censurabili). Secondariamente, esistono cose che
hanno valore anche se non sono desiderate (o preferite) da alcuno. In terzo
luogo, esistono individui che non hanno la possibilità di manifestare le
loro preferenze (perché oppressi e impauriti nel rivelare i loro desideri),
e, per questo motivo, non sarebbe giusto negare loro quanto non chiesto
esplicitamente.
Riferendosi specialmente a quest'ultimo punto, Sen coglie con nettezza la
fragilità dell'utilitarismo sul terreno dei diritti, l'impossibilità di
farli entrare a pieno titolo nel calcolo morale che stabilisce i criteri del
benessere sociale. Questa riflessione sulle implicazioni morali dell'
utilitarismo hanno influenzato profondamente anche la teoria economica di
Sen, portandolo a ridefinire in modo innovativo i concetti di ineguaglianza
economica e povertà in una visione allargata che tiene conto, più
realisticamente, delle effettiva capacità di cui ciascun individuo è dotato.
Ecco allora che non basta per analizzare il livello di eguaglianza
socio-economica (o di sviluppo) soffermarsi sulla mera distribuzione del
reddito o della ricchezza, ma occorre individuare i livelli minimi di
benessere capaci di sostenere talune libertà fondamentali (ad esempio la
libertà di partecipare alla vita sociale). Progressivamente, nel corso del
suo lavoro, Sen sviluppa l'idea che la capacità dei diversi gruppi della
popolazione di disporre di beni e servizi dipende dal contesto di relazioni
vigenti in una determinata società, relazioni che, a loro volta, dipendono
dalle caratteristiche giuridiche (da qui l'importanza dei diritti),
economiche, sociali e culturali di quella società.
In virtù di questo approccio il nostro autore costruisce una serie
innovativa di indicatori che sono serviti a misurare e confrontare i livelli
di benessere raggiunti dai diversi paesi. Una delle applicazioni più
interessanti, in tal senso, è stata la celeberrima analisi sull'origine
delle carestie alimentari che periodicamente hanno afflitto il nostro
pianeta e in particolare proprio il paese natale di Sen, l'India. In questi
studi egli ci ha presentato sotto una veste nuova, il fenomeno della fame e
della carestia, modificando l'interpretazione tradizionale che le legava ad
una riduzione nella produzione (magari dovuta a fattori climatici) e
raccolta di beni alimentari. In realtà, le carestie sono spesso conseguenza
di un improvviso e rapido peggioramento nelle opportunità di scambio di
alcuni strati della popolazione. Opportunità che, nella sua visione,
dipendono da una serie di fattori economici e non economici (soprattutto i
diritti) dalla cui considerazione non è lecito prescindere se si è davvero
interessati alla situazione effettiva dei singoli.
Con questo contributo, Sen ha quindi dimostrato i fondamentali risvolti
applicativi che possono nascondersi nelle pieghe del pensiero economico
anche più astratto e speculativo, ponendo le premesse per ottenere un
importante risultato pratico: sviluppare misure adeguate per prevenire e
combattere la fame.

Valeria Ottonelli

Sen ha offerto un contributo incalcolabile alla filosofia politica
contemporanea, sia come protagonista di dibattiti cruciali, come quelli
sulla democrazia e la scelta collettiva, sulla libertà e sull'eguaglianza,
sia come fonte di ispirazione e punto di riferimento teorico per molte delle
più importanti opere di filosofia politica che siano state scritte negli
ultimi decenni.
Ma credo che il contributo fondamentale e distintivo di Sen sia dato
soprattutto dall'approccio, ossia dal modo, i fini e i metodi, coi quali ha
trattato le questioni teoriche cruciali della filosofia politica. Si
potrebbe dire che una delle caratteristiche fondamentali dell'approccio di
Sen è la centralità e l'importanza che nei suoi lavori viene data alla
descrizione dei fatti. Sen ha dedicato alcuni saggi molto belli all'attività
intellettuale del descrivere, rivendicandone l'importanza rispetto alle
attività apparentemente "maggiori" come quella dei filosofi morali e
politici, che si occupano di "prescrivere", e quella degli scienziati, che
spesso identificano la solidità delle loro teorie con la capacità di
"prevedere", ossia di produrre previsioni accurate e verificabili.
Sen non ha solo teorizzato, ma ha anche mostrato quanto la descrizione sia
importante, per una ragione fondamentale. Molte dispute fra i filosofi
politici sono caratterizzate da differenze in quella che Sen ha definito
"base informazionale" delle teorie. In realtà, i grandi conflitti teorici
sono dati non tanto dalla struttura interna delle teorie, quanto dal tipo di
descrizioni del mondo di cui si curano, e le teorie normative possono essere
utilmente classificate in base al tipo di informazioni di cui tengono conto.
Il libertarismo, ad esempio, tiene conto solo del fatto che le azioni delle
persone rispettino certe regole. L'utilitarismo si concentra sul benessere
delle persone e "fotografa" il loro stato di benessere tendendo conto solo
di alcuni suoi aspetti specifici. Ciascuna di queste teorie dà giudizi su
ciò che è giusto o sbagliato, su ciò che è bene o male, concentrandosi solo
su alcuni aspetti della realtà, e lasciandone fuori altri. È come se
prendesse in esame solo descrizioni parzialissime, in cui compaiono solo
certi particolari, mentre tutto il resto è "tagliato" dalla descrizione.
Nel dibattito contemporaneo spesso si tende a pensare che il fatto che le
teorie normative tengano conto solo di certi dati ma non di altri sia una
conseguenza, e non una causa, della differenza di prospettiva fra visioni
del mondo diverse. In altre parole, quando ci sono valori ultimi diversi,
come si presume succeda nel caso delle "differenze fra culture", o delle
differenze fra dottrine filosofiche come l'utilitarismo e il libertarismo,
queste differenze condizionano le descrizioni del mondo e il tipo di fatti
di cui le persone tengono conto, e non è fornendo nuove descrizioni, o
descrizioni più complete, che si potrà riconciliare queste contrapposizioni.
In un articolo scritto all'inizio della sua carriera Sen ha messo in dubbio
questa visione, facendo un'osservazione importantissima: è ben vero che, se
ci sono "valori ultimi" radicalmente diversi, non è fornendo descrizioni del
mondo più complete o citando dei fatti che si potrà cambiare l'orientamento
della gente. Tuttavia, noi non possiamo mai essere certi, quando discutiamo
con qualcuno che ha opinioni diverse dalle nostre, che quello con cui
abbiamo a che fare siano "valori ultimi", che non possono essere modificati
dal confronto coi fatti. Non solo non lo sappiamo degli altri, ma non lo
sappiamo neppure di noi stessi, perché nessuno di noi ha in testa una mappa
precisa del proprio sistema normativo. Questa considerazione apre lo spazio
per la possibilità di basare le discussioni e i confronti, anche fra quelli
posizioni apparentemente divergenti e inconciliabili, sul richiamo ai fatti,
sull'attenzione per descrizioni della realtà più sensibili alla sua
complessità e alla sua ricchezza. Il programma che ne consegue potrebbe
essere definito "pluralismo dubitativo": un riconoscimento del fatto che le
persone hanno opinioni diverse, e del fatto che queste divergenze potrebbero
essere inconciliabili perché basate su valori ultimi, ma anche il tentativo
costante di trovare quei fatti, quelle descrizioni della realtà, che possono
riallineare e riconciliare le divergenze normative.
Questo programma non è stato solo enunciato, ma è stato efficacemente svolto
da Sen nel corso della sua formidabile carriera intellettuale. Le sue
ricerche sulle carestie, o l'approccio delle "capacitazioni" al problema
dell'eguaglianza sono solo gli esempi più noti e luminosi di questa
impostazione, ma su un richiamo ai fatti sono imperniate molte altre sue
discussioni su temi cruciali per la filosofia politica: penso ad esempio
alla sua discussione sul comunitarismo, contestato non tanto per il suo
approccio normativo, quanto per le descrizioni sbrigative, "burocratiche" e
povere delle comunità di fatto esistenti che spesso sono associate alle
rivendicazioni comunitariste. Oppure, penso al contributo di Sen a uno dei
dibattiti fondamentali in corso in questi anni, ossia il dibattito sulla
giustizia globale, nel quale Sen ha soprattutto richiamato l'esigenza di
partire da una descrizione corretta e completa degli attori che si muovono
effettivamente sulla scena globale, evitando di considerare come punto di
partenza per le teorie normative uno scenario descrittivo povero e
incompleto in gli unici protagonisti solo gli stati o gli individui isolati.