il tessile in italia



dal corriere.it

Non possiamo concederci il lusso di perdere il tessile

Per l'Italia è una risorsa fondamentale. A livello globale due fatti chiave:
l'emergere di concorrenti vigorosi e la fine delle barriere all'import

di marco vitale

«Perché in Italia vi è questo fiorire di bravi stilisti?» mi capitò di
chiedere, or sono vent'anni, a Gianni Versace. «Perché - mi rispose - in
Italia abbiamo l'industria che produce i più bei tessuti del mondo». Non ho
mai dimenticato questa fulminea risposta, che illuminò il concetto di
filiera tessile. Un settore questo in grande travaglio per due precisi
motivi. Il primo è che, dopo anni di successi ininterrotti, l'emergere di
concorrenti vigorosi (in primo luogo Cina, ma anche Turchia e India),
contestualmente alla debolezza del dollaro (che equivale, in soldoni, a una
riduzione dei prezzi imposta da uno dei maggiori clienti) ha segnato, nel
2002 e nel 2003, una diminuzione, a volte molto sensibile, del fatturato,
dei prezzi, della produzione, dei margini. Se estrapoliamo senza alcuna
azione correttiva e con gli stessi tassi ciò che è successo nel 2003 e 2002
per i prossimi 30 anni, l'industria del tessile-abbigliamento italiana ed
europea sarebbe destinata a scomparire. Ma, se in Cina avessero proiettato
in generale i tassi di produzione e di crescita che avevano 30 anni fa per i
successivi 30 anni, avrebbero previsto che, nel 2003, sarebbero tutti morti
di fame. Così non è stato, per fortuna. Nell'economia imprenditoriale e di
mercato, estrapolare i risultati di uno o due anni e proiettarli nel lungo
periodo è sempre sbagliato perché l'economia imprenditoriale ha la grande
forza di riproporre, ogni giorno, un'equazione diversa, di cambiare
continuamente il tavolo e le regole del gioco.
Il secondo motivo è che il 1° gennaio 2005 uscirà di scena l'Accordo
Multifibre che, per 4 decenni, ha protetto, con quote all'importazione,
l'industria dei Paesi industrializzati da quella dei Paesi in via di
sviluppo. L'appuntamento è stato invero preparato a lungo con una
liberalizzazione graduale dei prodotti meno sensibili e con una grande
crescita delle quote. È dunque diffusa tra gli esperti la convinzione che il
mercato mondiale del tessile dovrebbe aver digerito l'appuntamento del 2005
e sulla carta non dovrebbe verificarsi alcun contraccolpo violento. C'è anzi
la convinzione che la definitiva eliminazione delle quote darà un colpo di
accelerazione, in generale, al commercio internazionale dei prodotti
tessili, facendo crescere il mercato globale. Questo convincimento non è
condiviso dalla grande maggioranza dei piccoli produttori italiani
(industriali e artigiani spesso di grande qualità e di minuscole dimensioni,
botteghe sofisticate più che industrie). Questi sono molto preoccupati per
gli effetti del Big Bang tessile e chiedono una maggiore gradualità nella
liberalizzazione.

Preoccupazioni

Ma analoghe preoccupazioni esprimono anche imprenditori importanti.
Particolare impressione ha suscitato la forte presa di posizione di Edoardo
Miroglio che, su CorrierEconomia (il 26 gennaio scorso), alla domanda «Che
cosa succederà all'industria del tessile abbigliamento europeo» ha risposto:
«Sparirà». La presa di posizione di Edoardo Miroglio ha destato scalpore per
la sua schiettezza e linearità, perché proviene da un giovane imprenditore
di riconosciute capacità e di grande scuola, dal rappresentante di un gruppo
tessile-abbigliamento di grande forza tecnologica e finanziaria e che è
stato tra i primi, sin dagli anni '70, a iniziare il processo di
internazionalizzazione. Nella discussione che ne è seguita, si sono sentite
molte voci interessanti e numerose posizioni divergenti.
Incominciamo dunque a prendere le misure, a livello mondiale ed europeo, di
questo importante settore, per poi focalizzarci sull'Italia. Il commercio
mondiale di prodotti del tessile-abbigliamento ammonta a 353 miliardi di
dollari, pari al 6% degli scambi globali mondiali (dati 2002 Wto).
È un settore chiave per i Paesi in via di sviluppo che detengono una quota
del 50% delle esportazioni mondiali di prodotti tessili e del 70% dell'
export globale dell'abbigliamento.
L'Asia ha, negli anni più recenti, con una posizione di primo piano,
conquistato una quota superiore al 40% dell'export mondiale del
tessile-abbiglimento. Il primo produttore del continente asiatico è, di gran
lunga, la Cina, con una quota del 20,6% dell'export mondiale di
abbigliamento e del 13,5% dell'export del tessile. Altri Paesi asiatici
rilevanti sono, sul fronte del tessile, Corea del Sud, Taiwan, Giappone,
Pakistan, India; sul fronte dell'abbigliamento India, Bangladesh, Indonesia,
Thailandia. L'Europa occidentale è sulla difensiva, con quantità prodotte in
Europa significativamente calanti. Ma il settore conserva in Europa un peso
notevole, con una quota di poco inferiore al 40% sull'export mondiale di
tessuti e del 30% sull'export di abbigliamento. Ma i tassi di crescita negli
ultimi anni, soprattutto della Cina, sono tali da giustificare serie
preoccupazioni in Europa, nei Paesi dell'Europa dell'Est e nei Paesi del
Nord Africa (segnatamente Tunisia, che ha un buon polo tessile). La Cina del
resto non ha nascosto la sua volontà di diventare il maggior produttore
tessile del mondo e di mirare nel medio termine a un raddoppio della sua
attuale quota del commercio mondiale.
La Cina è diventata una grande protagonista dell'economia mondiale. Basti
pensare che la prima volta che andai in Cina, 25 anni fa, praticamente non
esistevano autovetture private, mentre oggi la Cina, è il quarto produttore
mondiale di automobili e conta su un parco di 10 milioni di vetture private.
Il presidente Bush ha detto, poco tempo fa: «La rapida crescita dell'
economia cinese è una delle grandi realizzazioni dei nostri tempi. Ha
procurato grandi benefici per il popolo cinese e per i partner commerciali
della Cina, ma deve diffondersi in tutti gli angoli del Paese. Per questo il
governo cinese deve integrarsi nelle norme del commercio e della finanza
internazionale». Questa è la grande sfida della leadership cinese: creare un
mercato interno e integrarsi, senza eccezioni, nelle regole del corretto
commercio internazionale. Sulla base dei contatti sino ad ora avuti ho anche
maturato la convinzione che la maggior parte delle imprese cinesi ha
giganteschi problemi di organizzazione e cultura manageriale (soprattutto
nell'amministrazione e nel marketing), da risolvere e che molte di esse sono
di una fragilità organizzativa e finanziaria impressionante.
Avrei esitato a comunicare questa mia impressione, basata su un'esperienza
limitata, se non avessi letto che un grande manager globale come Carlo
Ghosn, ex Renault, presidente e risanatore della Nissan in Giappone, si
domanda se «potrà essere a lungo efficiente un sistema dove in una grande
azienda capita spesso di trovare che la stessa persona è direttore del
personale, segretario della cellula comunista e capo del sindacato». Domanda
appropriata. Non si tratta di puntare sulle difficoltà altrui ma di dare una
lettura realistica e non fiabesca degli interlocutori.
Il nuovo mercato mondiale, dopo il Big Bang tessile del 1° gennaio 2005,
vedrà certamente un ruolo centrale per Cina e India, ma sarà un mercato
diverso, molto più vasto, ricco, aperto di quello attuale e in esso maggiori
spinte competitive saranno sempre combinate a maggiori opportunità.
Ecco perché preoccuparsi della Cina è serio, pretendere un commercio
corretto è sacrosanto, protestare (come Edoardo Miroglio e molti altri hanno
fatto), contro l'inerzia delle autorità europee e italiane nel reagire a
comportamenti commerciali scorretti è doveroso, negoziare, per alcuni
settori, un passaggio ancor più graduale alla liberalizzazione, può essere
accettabile.
Ma limitarsi a esprimere verso la Cina una sgomenta paura, invocando dazi o
analoghe misure, non è imprenditorialmente serio. Ecco, perché, anche se è
difficile e faticoso, in Cina bisogna esserci e quei pochi gruppi del
tessile-abbigliamento italiano che vi si sono insediati per tempo (come il
Gruppo Zegna e pochi altri), incominciano a cogliere le prime soddisfazioni.
La logica non è quella di trasferire là tutto, di «delocalizzare», come si
dice oggi con orrenda espressione, ma, per i gruppi che hanno la stazza
giusta, di «essere presenti», di «esserci» in una delle aree che nei
prossimi anni avrà un grande sviluppo, che non sarà prevalentemente uno
sviluppo mercantilistico ma del mercato interno.

Europa distratta

In questo contesto mondiale l'Europa sembra distratta e disinteressata al
destino del suo tessile. Ma l'Italia non può permettersi questo lusso: il
tessile-abbigliamento italiano con circa 45 milioni di euro di fatturato,
con un saldo commerciale attivo che, dopo i due cattivi anni 2002 e 2003, si
colloca intorno ai 12.500 milioni di euro, con quasi un milione di addetti
(oltre l'indotto), resta una delle colonne della nostra economia. Per fare
un raffronto, il settore in Francia occupa solo 200 mila addetti.
Forse se, per inettitudine, non avessimo distrutto la nostra chimica, perso
i treni dell'elettronica, frantumato l'informatica e l'elettromeccanica
hi-tech, portato l'auto dai vertici alla serie B, venduto i due terzi dell'
industria alimentare e quasi tutta l'industria farmaceutica alle
multinazionali straniere, potremmo anche essere più remissivi nel
tessile-abbigliamento. Ma avendo distrutto o svilito interi settori
industriali di punta, ora non possiamo lasciar perdere il tessile o altri
settori definiti maturi, come oreficeria, rubinetteria, piastrelle, mobili,
moda, olio, vino e pasta che, forse, non c'entrano molto con la ricerca di
base, ma rappresentano il 75% della nostra capacità manifatturiera, sono
tecnologicamente ai vertici mondiali nella loro categoria e sono, con la
fabbricazione di macchine e apparecchi meccanici, le colonne della nostra
bilancia commerciale, quelle che ci permettono di pagare la bolletta
dell'energia necessaria per tenere accese le lampadine e i computer, che una
non politica energetica ha reso così sventuratamente elevata.


Ristrutturarsi, tessere alleanze, andare all'estero

di Marco Vitale


Si parla del tessile-abbigliamento come se fosse un settore unitario, mentre
è estremamente articolato, soprattutto in Italia. Quella dei prodotti di
base e dei tessuti di fascia medio-bassa è la categoria che subisce l'
impatto più duro del nuovo contesto competitivo e che si trova a
fronteggiare prezzi talora disperanti. Per capire perché ciò può succedere
basta consultare la classifica del costo del lavoro nel settore tessile in
52 Paesi, elaborata da Werner International.

La differenza

Il costo medio orario del lavoro degli operai tessili, nel 2002, è stato in
Italia di 15,60 dollari contro gli 0,69 della Cina costiera, 0,57 dell'
India, 0,34 del Pakistan, 2,90 della Polonia, 2,13 della Turchia, 1,90 della
Slovacchia. Ma il costo medio italiano è superiore anche a quello degli Usa,
del Regno Unito, del Canada, della Spagna.
La differenza con questi Paesi più sviluppati si allarga enormemente se si
considerano le incidenze percentuali degli oneri sociali (Italia 39,3%, Usa
18,9%, Regno Unito 18,6%). È interessante, invece, ora notare che in Cina l'
incidenza degli oneri sociali si colloca agli stessi altissimi livelli dell'
Italia (39,4%). Se la partita si giocasse solo sul costo del lavoro sarebbe
chiusa in partenza. Ma essa si gioca anche su altri fattori.
La risposta principale che oggi viene data è: delocalizzazione. È una
risposta in parte indispensabile, anche se non sempre e non per tutti facile
da realizzare, ma che deve esser inquadrata in una precisa strategia di
internazionalizzazione. Sembra inevitabile che il raggruppamento in esame
metta in conto un ridimensionamento quantitativo. Anche questo
ridimensionamento richiede però lucidità e strategia. Una ritirata tattica è
meglio di una débacle. Purtroppo basta esaminare l'ultima piattaforma del
contratto dei tessili ed alcuni atteggiamenti sindacali chiaramente
politico-ideologici in recenti casi di ristrutturazioni aziendali dei
tessili per dimostrare che il sindacato (che in passato non ha mancato di
intelligenza tattica e strategica), sta vivendo una fase di arroccamento
ideologico.
Ma questa categoria deve anche dar vita ad una vera e propria
ristrutturazione di settore. Quello che si può fare all'interno delle
singole aziende non è sufficiente. Bisogna unire le forze, superare antichi
personalismi, dar vita ad imprese dotate di dimensione, forza, strategia
adatte al nuovo contesto competitivo. Per fare un esempio concreto: nel
piccolo ma qualificato settore dei filati di lana, dove l'Italia conta su
una tradizione di primo piano, è possibile, consolidando pochi soggetti, dar
vita ad un'azienda integrata che sarebbe l'indiscutibile numero uno a
livello mondiale e che inserendo anche una opportuna internazionalizzazione,
chiuderebbe la partita due a zero con il resto del mondo.
Filati
Un processo analogo, anche se con risultati meno eclatanti, è possibile per
i filati di cotone, per i tessuti per camiceria e per numerosi altri
comparti. Su questo tema gli imprenditori si trovano, ancora una volta, di
fronte al dilemma: è meglio essere soli e orgogliosi su una scialuppa che
affonda o dividere il comando con un team di altri ufficiali per guidare,
con successo, un transatlantico al di là della bufera? Ma, si chiede, che
succederà dei piccoli artigiani o quasi specialisti, a seguito di questa
strategia di consolidamento ed internazionalizzazione? Il loro numero
diminuirà, ma i più validi troveranno proprio in questo processo di
consolidamento ed internazionalizzazione delle maggiori imprese loro clienti
la strategia valida anche per la loro sopravvivenza.

Filiere e parole

Ma qui bisogna fare uno sforzo ulteriore: bisogna smettere di parlare di
filiera senza praticarla. È necessario diventare consapevoli che il valore
generale della filiera è reale e che va rafforzato seriamente. Mentre una
selvaggia politica di delocalizzazione è distruttiva, una ragionata politica
di internazionalizzazione non disperde ma conserva il valore della filiera.
Che però va rafforzata, con un superamento della cruda contrapposizione
cliente-fornitore, a favore di un approccio costruttivo e programmato di
partenariato. E se così fosse sarebbe meno urgente andare in Cina alla pura
ricerca di riduzione dei costi ma piuttosto si potrebbe pensare di andare in
quel grande Paese alla ricerca di un grande mercato (la classe benestante
cinese, sempre più ampia, apprezza il made in Italy).

Distretti specializzati: i distretti, come le persone e come le aziende,
hanno dei cicli di vita. Pensare che si possa stare immobili, seduti sul
successo raggiunto, è l'errore che molti distretti italiani (non solo nel
tessile), hanno compiuto. Ma le grandi, radicate tradizioni non si perdono
così facilmente e totalmente. Bisogna ripensare i distretti, aggiornarli,
dotarli di nuovi approcci e strumentazioni, identificare delle aziende
leader che in una fase iniziale di solito non esistono ma che in una fase
più matura sono indispensabili, arricchirli di centri di ricerca applicata e
formazione.

Imprese medio-grandi di qualità: già presenti su un piano internazionale
sono, anche nel tessile, l'ossatura del settore. L'Italia può contare su un
certo numero di queste imprese decisamente di alta qualità e solidità. Per
queste la strategia di fondo è segnata: diventare sempre più internazionali,
conquistare un ruolo significativo in tutti i mercati importanti, da quelli
storici (Usa, Europa) a quelli nuovi (Cina, Russia). Ed è anche necessario
fare un bagno di umiltà, senza coltivare pericolosi autocompiacimenti.
Bisogna guardare quello che altre aziende del settore hanno saputo fare
negli ultimi 20 anni, dai piccoli spagnoli come Zara diventati, in un paio
di decenni, autentici colossi, alla tedesca Hugo Boss, fortunatamente sotto
controllo italiano; a parecchi altri, che hanno saputo correre molto, molto
di più e molto meglio delle più note imprese italiane.
E proprio nel momento in cui si diventa più internazionali, bisognare
rimanere ben radicati in Italia, per proteggere il Made in Italy che è un
valore per tutti.
Sotto questo profilo, compete a questo segmento anche una responsabilità
primaria (insieme ai grandi ed eccellenti produttori del meccano-tessile
italiano), per lo sviluppo dei centri di ricerca e formazione nelle
università e/o in scuole specializzate. È uno scandalo il fatto che il
nostro Paese, malgrado la presenza, nelle sole province del Nord, della
maggiore concentrazione industriale tessile d'Europa, non vantasse fino a
poco tempo fa una facoltà di ingegneria tessile.

Qualcosa si muove

Negli ultimi tempi qualcosa si è mosso, oltre all'isolato impegno del
Politecnico di Torino. È solo l'inizio di un processo al quale le maggiori
imprese devono dare supporto e partecipazione. Così come le maggiori imprese
devono esercitare un ruolo molto più deciso nel guidare il riassetto del
mondo associativo e soprattutto di quello fieristico, troppo frammentati ed
egoisticamente proiettati al servizio degli interessi delle burocrazie
associative più che degli interessi del settore.
Due parole sulla moda, che fa parte del tessile-abbigliamento ma che rientra
anche nella nuova categoria dei luxury goods , i beni di lusso. È questo un
mercato stimato nel 2002 sui 132 miliardi di euro e nel quale l'
abbigliamento rappresenta il 32%. È un settore di grande importanza per
l'intera filiera tessile-abbigliamento, perché ha un effetto costitutivo del
made in Italy, ed il suo successo od insuccesso si riversa sull'intero
settore. Qui ci aspetteremmo una posizione dominante delle imprese italiane,
ma saremo, in parte, delusi.

Giganti e gigantini

Il gigante del settore è americano, Polo Ralph Lauren con vendite al
dettaglio (2002) di 14.854 milioni di euro (11.3% del mercato). Secondo è
però, pur a grande distanza, l'italiano Armani (5.608 milioni di euro, 4,3%
del mercato). Nei primi dieci non vi sono altri italiani, se prescindiamo da
Hugo Boss (6° con il 3,5% del mercato) parte del gruppo Marzotto ma tedesco
come origine, storia, management, immagine. Una categoria, dunque, di grande
importanza ma nella quale i gruppi italiani, ancora molto legati alle
persone e poco istituzionalizzati, presentano, proprio per questo, una
notevole fragilità. Qui vi è poco da fare se non auspicare un processo di
maturazione dei principali attori che li guidi verso una maggiore
istituzionalizzante di quanto hanno saputo creare affinché possa reggere nel
tempo, oltre inevitabili limiti personali.
Non ho toccato temi di difesa da comportamenti commercialmente scorretti di
operatori di altri paesi, né appelli allo Stato per interventi di sostegno,
non perché li ritenga irrilevanti ma perché molti altri hanno già dato voce
a queste istanze e solo a queste.
Ho preferito riflettere sulle strategie imprenditoriali di un settore che
resta importantissimo per il nostro paese.
In conclusione...
Concludo rispondendo alla madre che mi aveva posto il quesito sul futuro del
figlio che lavora nel settore tessile: vale la pena di continuare? La
risposta è e non può che essere problematica. Il settore
tessile-abbigliamento italiano è in guerra, dalla quale emergerà un nuovo
modello competitivo a livello mondiale. Come in tutte le guerre, ci saranno
morti e feriti. Ma non è destinato a scomparire e anzi potrebbe emergere tra
i vincitori se gli imprenditori avranno visione e capacità operativa, se i
sindacati scenderanno dal bastione ideologico-politico nel quale si sono
nuovamente arroccati, se il governo smetterà di sovvenzionare i perdenti, se
si saprà operare a due livelli.
A livello di settore bisogna operare una vera e propria ristrutturazione,
giocata intorno a tre pilastri, tra loro peraltro connessi: consolidamento
tra imprese, valore della filiera non chiacchierata ma realizzata,
internazionalizzazione.
A livello di ogni singola impresa bisogna porre a base della propria
strategia tutti gli elementi competitivi che, oltre ed accanto ai costi
sempre centrali, sono, per tutte le imprese di tutti i comparti: innovazione
di prodotto, vicinanza ai mercati, servizio, qualità, immagine presso i
consumatori.