petrolio russo e nuove strategie



da liberazione.it
giovedi 25 marzo 2004

Accordo fra Mosca e Tokyo per la costruzione di un oleodotto da 10 miliardi
di dollari

Caccia al petrolio, la strategia russa

Nella feroce partitura della guerra globale c'è una trama sottostante. Come
la filigrana, va osservata in controluce perché non è facile cogliere le
sottili ramificazioni delle rotte petrolifere. Sappiamo tutti che il
petrolio c'entra qualcosa con quanto sta accadendo, ma rimaniamo spiazzati
quando un autorevole esperto come l'ex dirigente Eni Benito Li Vigni,
descrive la guerra di Washington come un attacco votato alla prevenzione non
tanto del terrorismo, quanto della possibilità che potenze regionali come
Europa, Russia, Giappone e Cina si assicurino un accesso indipendente alle
risorse. Ma se gli Stati Uniti mettono piede in Caucaso - dottrina Clinton -
e cercano di assicurarsi il controllo del petrolio iracheno - dottrina
Bush - stracciando i contratti delle aziende russe e francesi, come
rispondono le suddette potenze? Edificando nuove alleanze e sottraendo
importanti depositi di risorse al controllo della vera task force della Casa
Bianca, le grandi corporation Usa.

Tanto petrolio,
ma lontano

Sulla prima pagina del Financial times di ieri campeggiava l'annuncio del
raggiunto accordo fra Mosca e Tokyo per la costruzione di un oleodotto da 10
miliardi di dollari. La pipeline dovrebbe partire da Taishnet, in Siberia, e
terminare nel porto di Nakhodka, sul Mar del Giappone. La rotta giapponese
sarebbe stata preferita a quella cinese che doveva portare il petrolio
siberiano a Daqing, grande centro energetico e sede di raffinerie. A
guardare la cartina, però, si rimane stupiti: i due tracciati sono
perfettamente compatibili. E' del resto interesse dei russi far affluire
verso l'Asia del Pacifico le risorse naturali del paese, e non è poi tanto
importante se passeranno per il Giappone o per la Cina, cosa sempre
possibile come assicurano i funzionari del Sol levante. Una notizia non
particolarmente importante, insomma, finché non si guarda alla filigrana
sottostante.
In primo piano ci sono le enormi riserve russe di petrolio e di gas
naturale. Sui giacimenti petroliferi, che attualmente pompano nel mercato
mondiale fra i 7 e gli 8 milioni di barili al giorno, ci sono poche certezze
mentre è sicuro che la Russia detiene un terzo delle riserve mondiali di gas
naturale. Entrambi però, sia petrolio che gas, hanno lo stesso problema: la
vastità del paese rende il trasporto estremamente costoso. Ecco quindi che
un nuovo sistema di oleodotti diventa essenziale, soprattutto ora che le
zone caucasiche attraversate dalla vecchia rete sono ormai quasi totalmente
destabilizzate - situazione a cui gli americani, interessati alla rotta
turca, non sono completamente estranei.
Sfilarsi dal Caucaso presenta quindi due vantaggi per i russi: cominciare a
sfruttare massicciamente i giacimenti siberiani a fronte di un aumento
esponenziale della domanda asiatica - la Cina ha appena sorpassato il
Giappone come secondo consumatore mondiale di energia - e manovrare in una
zona dove gli States non hanno ancora una presenza militare. L'accesso al
mercato asiatico non è quindi solo un grande affare ma, come si dice oggi, è
una questione di sicurezza nazionale. Il Giappone, conservando il ruolo di
affidabile alleato di Washington, si ritaglia un ruolo commerciale come
intermediario con i paesi asiatici e con la costa statunitense del Pacifico;
la Cina, considerata dagli strateghi del Pentagono unico vero concorrente
strategico globale, deve assolutamente garantirsi una fonte alternativa a
quella mediorientale; infine la Russia, costretta all'angolo dall'aggressiva
strategia statunitense, non può certo consentire di lasciarsi risucchiare
via l'unica ricchezza che possiede, le risorse energetiche.

L'affare Yukos

Un altro tassello importante del grande gioco petrolifero è stato l'arresto
per frode ed evasione fiscale dell'oligarca a capo della Yukos, la
principale compagnia petrolifera russa. Nell'ottobre del 2003, Mikhail
Khodorkovsky è finito in carcere e le azioni della Yukos sono state
congelate. Immediatamente un brivido ha percorso il mercato finanziario
internazionale: che stiano ridiventando comunisti? L'allarme è aumentato
quando, poco dopo, Putin ha cacciato Alexander Voloshin, ex-capo dello staff
e ultra-privatizzatore vicino sia a Khodorkovsky che a Washington. A tutto
ciò va sommato lo scarso entusiasmo mostrato da Putin nel lanciare il
progetto di privatizzazione della Gazprom, l'azienda statale del gas
naturale che controlla un terzo delle risorse mondiali.
Nel caso della Yukos, però, invece di rimandare e di rassicurare gli
investitori internazionali sulla sua fede liberista - privatizzando magari
settori meno strategici come scuola e sanità - Putin ha agito con estrema
rapidità rischiando gli strali dei pasdaran neo-liberisti. Per quale motivo?
Per capirlo bisogna andare a spulciare le notizie economiche della primavera
2003, quando venne annunciata per la prima volta l'intenzione di costruire
un oleodotto fra i giacimenti siberiani della Yukos e la Cina
settentrionale. Il progetto venne presentato come l'occasione del secolo:
l'accesso al mercato asiatico potrebbe far passare la produzione da 380 ai
500 milioni di petrolio annui entro il 2010, proiettando la Russia in cima
alla lista degli esportatori di petrolio, perfino più in alto dell'Arabia
Saudita. Ma Khodorkovsky, sapendo di non avere forze sufficienti per un
piano così ambizioso, decise di mettere Yukos sul mercato.
I risultati non si fecero attendere. All'inizio dell'ottobre ExxonMobil,
gigante petrolifero statunitense, annunciò l'imminente fusione con Yukos.
Khodorkovsky ammise candidamente che gli americani puntavano ad acquisire il
50% più uno delle azioni della Yukos, ovvero il controllo integrale della
compagnia. Un affare da 25 miliardi di dollari soffiato alla Chevron e
destinato a proiettare la ExxonMobil al top dei giganti petroliferi
mondiali. Nel commentare l'evento gli analisti economici prospettarono però
una probabile spartizione della torta Yukos fra le due compagnie, con il
risultato di aprire ai petrolieri statunitensi i giacimenti della Siberia e,
soprattutto, di sottrarre definitivamente al Cremino ogni controllo sulle
proprie risorse nazionali.
Quello che quindi non funzionava nell'oleodotto cinese non era tanto il
tracciato quanto l'architettura finanziaria. Sotto questa luce
l'acquisizione della Yukos da parte della Exxon assume un significato che va
ben al di là del business. Dopo l'occupazione militare dell'Afghanistan -
con l'istallazione di basi militari basi nelle ex-Repubbliche sovietiche
confinanti - e dell'Iraq, e dopo essersi garantita il petrolio caucasico
tramite la costruzione dell'oleodotto che arriva in Turchia, a Washington
non restava che mettere le mani sulle compagnie russe per isolare la Cina e
ipotecare il futuro energetico del pianeta. A quel punto lo zar ha reagito
rapidamente: prima gettando Khodorkovsky in galera - dove ancora risiede - e
poi rilanciando la rotta giapponese.

Sabina Morandi