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acciaio - partita finita per l'italia?
- Subject: acciaio - partita finita per l'italia?
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 16 Feb 2004 06:54:17 +0100
dal corriere.it martedi 10 febbraio 2004 I segreti della battaglia Europa-Asia per conquistare clienti e mercati Degli italiani solo Riva è tra i primi dieci al mondo I lavoratori delle Acciaierie di Terni non avranno la solidarietà della compagna Xie Qihua. L'austero membro del comitato centrale del Partito comunista cinese, 60 anni, ingegnere civile, nubile, senza un filo di trucco, ha scelto da tempo l'altra parte della barricata e quando si parla di ThyssenKrupp preferisce stringere le mani dei dirigenti piuttosto che quelle degli operai. Xie, però, potrebbe spiegare come pochi altri che cosa succede al giorno d'oggi nell'industria mondiale dell'acciaio. È infatti la presidente della Baosteel di Shangai, che nel campo è il primo e più efficiente produttore della Cina, cioè del Paese che sta sconvolgendo il settore. E con i proprietari tedeschi della Ast di Terni ha formato una joint-venture da oltre un miliardo di euro per la produzione di acciaio inossidabile. La compagna Xie racconterebbe di una guerra che si combatte in una trincea planetaria nella quale i Paesi si battono ogni giorno per conquistare un pezzo d'industria, uno spicchio di mercato, qualche migliaio di posti di lavoro e che travolge ogni solidarietà politica. Una guerra che nella vicenda di Terni mette in questione l'acciaio ma che l'Italia sta perdendo o ha perso in molti altri settori. È la «deindustrializzazione dell 'Europa», denunciata da Romano Prodi qualche mese fa, che sta facendo passi avanti? Non proprio: non per tutti è così. Nell'acciaio o nella farmaceutica, nell'automobile piuttosto che nell'alimentare, alcuni Paesi, anche europei, riescono a tenere il passo della concorrenza, altri sembrano colabrodi che perdono intere industrie e posti di lavoro in quantità. «Credo che l'Italia non abbia mai deciso che cosa vuole - dice Brian Beeden, un consulente d'impresa indipendente di Londra -. Non ha puntato a creare i "campioni nazionali" come ha fatto la Francia, cioè non ha avuto una politica industriale centrale, diretta dallo Stato, che favorisse aggregazioni competitive. Ma non ha nemmeno avuto una politica di completa liberalizzazione, di tipo anglosassone, che puntasse a rafforzare le imprese nella gara della concorrenza». Un'analisi simile a quella elaborata negli ultimi tempi al ministero dell'Economia che ha portato Tremonti a parlare della necessità di un «neo-colbertismo», cioè di un ruolo forte dello Stato nella guida dell'economia. Il caso acciaio, in effetti, mostra come l' accelerazione delle dinamiche nell'economia globale richieda scelte radicali. Negli ultimi anni, la Cina è divenuta la più grande divoratrice di acciaio che si sia mai vista, grazie al boom della sua economia. Si calcola che nel 2003 abbia consumato 260 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, un quarto del mercato mondiale. Ne ha però prodotte «solo» 220 milioni (è di gran lunga la prima produttrice: il doppio del Giappone, una volta e un quarto gli Usa). I 40 milioni di tonnellate mancanti li ha quindi dovuti importare e, così facendo, ha fatto esplodere il prezzo mondiale dell'acciaio, mai stato così alto (per alcuni tipi è raddoppiato in un anno). Una società di ricerca americana, World Steel Dynamics (Wsd), calcola che ci sarà una penuria di acciaio per almeno tutto il primo trimestre del 2004. E Fabio Riva, consigliere delegato del gruppo Riva, numero uno in Italia, quinto in Europa e nono al mondo, ha denunciato una situazione sempre più difficile nel mercato dovuta a penuria di materie prime causata dalla voracità cinese. Lo spostamento della manifattura mondiale verso l'Asia ha insomma spostato lì anche il baricentro dell'acciaio: mentre vuole chiudere a Terni, per esempio, la ThyssenKrupp ha ieri annunciato di avere l'intenzione di investire in Corea del Sud. Conseguenza: la Cina sta ristrutturando le sue imprese statali nel settore, di cui la Baosteel è la più brillante, con controllate quotate in Borsa, numero tre nella classifica delle migliori aziende del settore compilata dalla Wsd e in joint-venture con l'europea Arcelor e la giapponese Nippon Steel, oltre che con la ThyssenKrupp. E le imprese indiane sono letteralmente all'assalto del mercato: la Lnm, controllata da Lakshmi Mittal (amico di Tony Blair ma indiano), ha effettuato il mese scorso un'acquisizione che dovrebbe farla diventare il primo gruppo mondiale del settore, con una presenza ormai in cinque continenti. Questa tendenza allo spostamento a Est e alla nascita di nuovi e portentosi protagonisti si inserisce su una spinta, forte per tutti gli anni Novanta, alla fusione tra gruppi per affrontare il mercato globale con muscoli più robusti. Così, nel 2001 era nato (dalla fusione della spagnola Aceralia, della lussemburghese Arbed e della francese Usinor) il gruppo Arcelor, finora numero uno al mondo. Un chiaro esempio di costruzione di un «campione nazionale» voluto dai governi (soprattutto Parigi). Fusioni si erano registrate in Giappone, anche là sostenute dal governo di Tokio. E negli Stati Uniti l'industria, frammentata e spesso in bancarotta, si è concentrata attorno all'International Steel Group e alla Us Steel, che poi hanno ottenuto dall'Amministrazione Bush la manna di più di un anno di dazi all'importazione. Mittal e Guy Dollè, il capo della Arcelor (che produce 44 milioni di tonnellate di acciaio l'anno), prevedono che nei prossimi anni si creeranno alcuni Golia da 80-120 milioni di tonnellate. Nel gruppo ci saranno certamente i franco-spagnoli, gli indiani, i cinesi, i giapponesi. Forse i coreani e gli americani. Gli italiani, che pure hanno una tradizione gloriosa nel settore e ancora oggi possono contare su un gruppo tra i primi dieci al mondo (il milanese Riva), saranno della partita? La compagna Xie probabilmente sarebbe scettica. Danilo Taino
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