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noi e le nanotecnologie
- Subject: noi e le nanotecnologie
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 2 Feb 2004 07:46:13 +0100
dall'unità.it lunedi 19 gennaio 2004 18.01.2004 Noi, prede delle nanotecnologie di Pietro Greco La polemica era antica, ma poi è definitivamente esplosa nelle scorse settimane sulle pagine del Chemical & Engeneering News (C&En), la più importante rivista di informazione sulla chimica al mondo. Da un lato Eric Drexler, fisico formatosi al Massachussetts Institute of Technology (Mit) di Boston, padre (pentito) della disciplina scientifica emergente (vedi box), quella delle nanotecnologie, e ispiratore di Michael Crichton e del suo più recente romanzo, Preda. Dall'altra Richard Smalley, premio Nobel per la chimica, scopritore insieme ad Harold Kroto di una delle «molecole del secolo», il fullerene, e protagonista entusiasta delle ricerche nanotecnologiche, in forze alla Rice University di Houston. La polemica è tutt'altro che accademica. Non solo perché coinvolge in modo così pesante il nostro futuro. Ma anche perché getta un'ombra inquietante su quelle nanotecnologie che già molti vedono come il terzo apice, con le tecnologie informatiche e le biotecnologie, del triangolo su cui sarà fondata la società (e l'economia) del futuro prossimo venturo. Oggetto della contesa i «molecular assemblers», letteralmente gli assemblatori molecolari, immaginati a grandi linee dal grande fisico Richard Feynman negli anni '50 dello scorso secolo e riproposti con dovizia di dettagli nel 1986 da Eric Drexler in «Engines of Creation», da molti considerato il libro che ha dato inizio alla nuova era delle nanotecnologie. Drexler, come Feynman, immagina che presto, creando un cortocircuito virtuoso tra informatica, chimica e fisica della materia, sarà possibile costruire fantastiche macchine microscopiche in grado di svolgere qualsiasi lavoro con un minimo di energia e senza produrre inquinamento mettendo insieme, assemblandole appunto, con precisione assoluta «atomo per atomo» e realizzando oggetti con le proprietà e le capacità desiderate. Queste macchine saranno in grado di apprendere in breve i segreti della nanotecnologia e, quindi, saranno in grado di autoreplicarsi. A questo punto Eric Drexler, che intanto ha lasciato il Mit per mettersi in proprio, si ritrae inorridito davanti allo scenario che egli stesso ha costruito. Se queste minuscole e perfettissime macchine saranno in grado di replicare se stesse senza bisogno dell'intervento umano, allora è certo che prima o poi sfuggiranno al controllo dell'uomo e assumeranno il dominio del pianeta. Da quel momento il Drexler inorridito dà inizio a una battaglia per fermare lo sviluppo nanotecnologico, prima che sia troppo tardi. Battaglia che presto tracima dalle stanze tecnoscientifiche sui grandi mezzi di comunicazione di massa. Nell'aprile del 2000, infatti, il nanotecnologo Bill Joy, cofondatore della Sun Microsystems, pubblica sulla rivista cult degli appassionati di informatica, Wired, un articolo dal titolo inequivocabile: «Why the Future Doesn't Need Us», perché il futuro non ha bisogno di noi. E due anni dopo, nel 2002, Michael Crichton, l'autore di Jurassic Park, scrive un nuovo best-seller, Prey, sul filo del terrore nanotecnologico. Lasciando il lettore nel dubbio: e se Drexler e Joy avessero ragione? No, che non hanno ragione, interviene Richard Smalley con un articolo pubblicato nel 2001 sulla rivista Scientific American. Perché quei due costruiscono un futuro che non ha alcun fondamento chimico. C'è un limite di impossibilità dettato dalle leggi chimiche che impedisce la costruzione dell 'assemblatore molecolare. Anzi ci sono tre limiti chimici che rendono in linea di principio impossibile l'assemblatore molecolare di Drexler e, di conseguenza, falsificano ogni ipotesi che l'uomo possa diventare «preda» di macchine molecolari autoreplicanti. Il primo limite è quello Smalley chiama il «fat fingers problem», il problema delle dita grosse. Qualsiasi macchina noi pensiemo di costruire sarà comunque troppo grossa per afferrare, muovere e ricollocare con precisione assoluta i piccolissimi atomi. Non possiamo, neppure in linea di principio, costruire macchine con dita sufficientemente fini se non pagando il prezzo di perdere la precisione assoluta. Ma, allora, se accettiamo di pagare questo prezzo, allora le macchine di cui vagheggiamo già esistono. E lavorano ogni giorno nei laboratori chimici. Il secondo limite è quello che Smalley chiama lo «sticky fingers problem», il problema delle dita appiccicose. L'atomo non è una palla da biliardo più piccola. Né, in genere, esistono da soli. La gran parte degli atomi nel nostro mondo è associato ad altri atomi. Se si rompe un legame chimico, subito se ne forma un altro. Se l'assemblatore molecolare di Drexler rompe un legame chimico per prendere l'atomo desiderato, questo in qualche modo gli si appiccica alle mani. E, con questo problema del taglia e cuci, poi sarà difficile e comunque oneroso piazzarlo proprio lì dove si desidera. Il terzo fattore limitante, infine, è il fattore tempo. Nella nostra vita quotidiana abbiamo a che fare con moli di atomi, ovvero con collezioni di almeno centomila miliardi di miliardi di quelle minuscole particelle. Ammesso che fosse possibile costruire, atomo per atomo, una macchina molecolare, per avere effetti macroscopici occorrerebbe replicarla in centinaia di migliaia di miliardi di miliardi di copie. E anche ammettendo di aver messo a punto un assemblatore molecolare in grado di costruire rmicrorobot alla fantastica velocità di un microrobot ogni miliardesimo di secondo, impiegherebbe comunqe alcune decine di milioni di anni per metterne a punto una mole e, quindi, ottenere effetti sul mondo macroscopico. In conclusione, sostiene Smalley, non esisteranno mai assemblatori molecolari in grado di autoreplicarsi fino ad allestire un esercito e fare la guerra all'uomo. Nello scambio di lettere pubblicate dalla C&En, Eric Drexler risponde che le macchine di cui Smalley nega la possibilità di esistenza in realtà già ci sono. Sono gli enzimi e i ribosomi che rendono possibile la replicazione della vita. Se esistono macchine biologiche che costruiscono altre molecole atomo per atomo, sostiene Drexler, allora, almeno in linea di principio, possono esistere anche macchine non biologiche costruite dall'uomo. Gli enzimi e i ribosomi naturalmente esistono, ribatte Smalley. Tuttavia sono macchine molecolari che costruiscono sì, macchine molecolari atomo per atomo, ma con un tasso di errore piuttosto elevato, tant'è che le cellule sono in possesso di meccanismi di riparazione degli errori molto sofisticati. Che, però, in ogni caso non garantiscono la precisione assoluta. Gli organismi viventi sono in grado di autoreplicarsi, ma accettando di pagare il prezzo dell'errore. In ogni caso, enzimi e ribosomi lavorano solo in ambiente acquoso. Cosicchè se Drexler pensa di utilizzarli come operai al soldo del suo «assemblatore molecolare», pone un limite alla sua capacità di creazione. Non potrà mai costruire microrobot che non vivano in acqua. Precludendosi, di fatto, tutte le strade che non sono state già battute dalla natura con gli «assemblatori molecolari biologici». Concludendo. La polemica, breve e intensissima, tra Smalley e Drexler non ha modificato le intime convinzioni dei due scienziati. E ci ha mostrato quanto sia tuttora grande la difficoltà di comunicazione tra persone, di indubbio valore, appartenenti a discipline scientifiche diverse, per quanto contigue come la fisica e la chimica. Incomunicabilità che emerge quando quei due scienziati appartenenti a comunità scientifiche diverse si trovano, all' improvviso, ad affrontare il medesimo problema. La storia insegna che, in questi casi, uno solo risulterà vincitore. Chi, secondo voi, sarà premiato tra l'apocalittico Drexler e il prudente Smalley? Cosa sono di Pietro Greco Le nanotecnologie sono, secondo una definizione della National Science Foundation (Nsf) degli Stati Uniti, una rivoluzione scientifica e tecnologica «fondata sulla recente acquisizione della capacità di misurare, manipolare e organizzare la materia a livello della nanoscala: da 1 a 100 miliardesimi di metro». Da un punto di vista scientifico questa rivoluzione è di estremo interesse, perché la nanoscala non è un altro semplice passo verso la miniaturizzazione, ma una dimensione qualitativamente nuova, perché la materia cessa di comportarsi come la vediamo fare a livello macroscopico, seguendo le leggi della fisica e della chimica classiche, ma assume un comportamento nuovo: «dominato dalla meccanica quantistica, dal confinamento dei materiali in piccole strutture, da una notevole frazione del volume interfacciale e da altre proprietà, fenomeni e processi unici» per dirla con i tecnici della Nsf. Insomma, alla scala dei nanometri la fisica quantistica, la chimica, la biologia, la scienza dei materiali e l' ingegneria convergono verso i medesimi principi e strumenti. Verso principi e strumenti tutti da scoprire e inventare. Da un punto di vista tecnologico, la nanoscienza annuncia meraviglie mirabolanti in ogni settore: dalla medicina molecolare all'informatica, dalla robotica alla chimica. Talvolta queste meraviglie sono inquietanti: è già operativo presso il MIT un istituto sulle nanotecnologie per il soldato, ma qualcuno già parla di micidiali eserciti di microrobot. Eric Drexler e Bill Joy parlano, ancora, di macchine autoreplicanti in grado di ribellarsi all'uomo. La fantasia può correre, perché le nanotecnologie sono, per ora, più una promessa che una realtà. Una promesse che annuncia di produrre ricchezza in quantità inimmaginabile: Thomas Kalil, un esperto della Casa Bianca ai tempi di Clinton, sostiene che la nanoeconomia moltiplicherà per 100 la ricchezza mondiale entro il 2100. Ma che, intanto, assorbe enormi risorse. Nel 2004 gli Usa finanzieranno lo sviluppo delle nanoscienze con circa 850 milioni di dollari. Che è più o meno il doppio del budget che l'Italia assegna al suo Cnr per fare ricerca in tutti i campi dello scibile umano.
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