noi e le nanotecnologie



dall'unità.it

lunedi 19 gennaio 2004

 18.01.2004
Noi, prede delle nanotecnologie
di Pietro Greco

 La polemica era antica, ma poi è definitivamente esplosa nelle scorse
settimane sulle pagine del Chemical & Engeneering News (C&En), la più
importante rivista di informazione sulla chimica al mondo. Da un lato Eric
Drexler, fisico formatosi al Massachussetts Institute of Technology (Mit) di
Boston, padre (pentito) della disciplina scientifica emergente (vedi box),
quella delle nanotecnologie, e ispiratore di Michael Crichton e del suo più
recente romanzo, Preda. Dall'altra Richard Smalley, premio Nobel per la
chimica, scopritore insieme ad Harold Kroto di una delle «molecole del
secolo», il fullerene, e protagonista entusiasta delle ricerche
nanotecnologiche, in forze alla Rice University di Houston.
La polemica è tutt'altro che accademica. Non solo perché coinvolge in modo
così pesante il nostro futuro. Ma anche perché getta un'ombra inquietante su
quelle nanotecnologie che già molti vedono come il terzo apice, con le
tecnologie informatiche e le biotecnologie, del triangolo su cui sarà
fondata la società (e l'economia) del futuro prossimo venturo.
Oggetto della contesa i «molecular assemblers», letteralmente gli
assemblatori molecolari, immaginati a grandi linee dal grande fisico Richard
Feynman negli anni '50 dello scorso secolo e riproposti con dovizia di
dettagli nel 1986 da Eric Drexler in «Engines of Creation», da molti
considerato il libro che ha dato inizio alla nuova era delle nanotecnologie.
Drexler, come Feynman, immagina che presto, creando un cortocircuito
virtuoso tra informatica, chimica e fisica della materia, sarà possibile
costruire fantastiche macchine microscopiche in grado di svolgere qualsiasi
lavoro con un minimo di energia e senza produrre inquinamento mettendo
insieme, assemblandole appunto, con precisione assoluta «atomo per atomo» e
realizzando oggetti con le proprietà e le capacità desiderate. Queste
macchine saranno in grado di apprendere in breve i segreti della
nanotecnologia e, quindi, saranno in grado di autoreplicarsi.
A questo punto Eric Drexler, che intanto ha lasciato il Mit per mettersi in
proprio, si ritrae inorridito davanti allo scenario che egli stesso ha
costruito. Se queste minuscole e perfettissime macchine saranno in grado di
replicare se stesse senza bisogno dell'intervento umano, allora è certo che
prima o poi sfuggiranno al controllo dell'uomo e assumeranno il dominio del
pianeta. Da quel momento il Drexler inorridito dà inizio a una battaglia per
fermare lo sviluppo nanotecnologico, prima che sia troppo tardi. Battaglia
che presto tracima dalle stanze tecnoscientifiche sui grandi mezzi di
comunicazione di massa. Nell'aprile del 2000, infatti, il nanotecnologo Bill
Joy, cofondatore della Sun Microsystems, pubblica sulla rivista cult degli
appassionati di informatica, Wired, un articolo dal titolo inequivocabile:
«Why the Future Doesn't Need Us», perché il futuro non ha bisogno di noi. E
due anni dopo, nel 2002, Michael Crichton, l'autore di Jurassic Park, scrive
un nuovo best-seller, Prey, sul filo del terrore nanotecnologico. Lasciando
il lettore nel dubbio: e se Drexler e Joy avessero ragione?
No, che non hanno ragione, interviene Richard Smalley con un articolo
pubblicato nel 2001 sulla rivista Scientific American. Perché quei due
costruiscono un futuro che non ha alcun fondamento chimico. C'è un limite di
impossibilità dettato dalle leggi chimiche che impedisce la costruzione dell
'assemblatore molecolare.
Anzi ci sono tre limiti chimici che rendono in linea di principio
impossibile l'assemblatore molecolare di Drexler e, di conseguenza,
falsificano ogni ipotesi che l'uomo possa diventare «preda» di macchine
molecolari autoreplicanti.
Il primo limite è quello Smalley chiama il «fat fingers problem», il
problema delle dita grosse. Qualsiasi macchina noi pensiemo di costruire
sarà comunque troppo grossa per afferrare, muovere e ricollocare con
precisione assoluta i piccolissimi atomi. Non possiamo, neppure in linea di
principio, costruire macchine con dita sufficientemente fini se non pagando
il prezzo di perdere la precisione assoluta. Ma, allora, se accettiamo di
pagare questo prezzo, allora le macchine di cui vagheggiamo già esistono. E
lavorano ogni giorno nei laboratori chimici.
Il secondo limite è quello che Smalley chiama lo «sticky fingers problem»,
il problema delle dita appiccicose. L'atomo non è una palla da biliardo più
piccola. Né, in genere, esistono da soli. La gran parte degli atomi nel
nostro mondo è associato ad altri atomi. Se si rompe un legame chimico,
subito se ne forma un altro. Se l'assemblatore molecolare di Drexler rompe
un legame chimico per prendere l'atomo desiderato, questo in qualche modo
gli si appiccica alle mani. E, con questo problema del taglia e cuci, poi
sarà difficile e comunque oneroso piazzarlo proprio lì dove si desidera.
Il terzo fattore limitante, infine, è il fattore tempo. Nella nostra vita
quotidiana abbiamo a che fare con moli di atomi, ovvero con collezioni di
almeno centomila miliardi di miliardi di quelle minuscole particelle.
Ammesso che fosse possibile costruire, atomo per atomo, una macchina
molecolare, per avere effetti macroscopici occorrerebbe replicarla in
centinaia di migliaia di miliardi di miliardi di copie. E anche ammettendo
di aver messo a punto un assemblatore molecolare in grado di costruire
rmicrorobot alla fantastica velocità di un microrobot ogni miliardesimo di
secondo, impiegherebbe comunqe alcune decine di milioni di anni per metterne
a punto una mole e, quindi, ottenere effetti sul mondo macroscopico.
In conclusione, sostiene Smalley, non esisteranno mai assemblatori
molecolari in grado di autoreplicarsi fino ad allestire un esercito e fare
la guerra all'uomo.
Nello scambio di lettere pubblicate dalla C&En, Eric Drexler risponde che le
macchine di cui Smalley nega la possibilità di esistenza in realtà già ci
sono. Sono gli enzimi e i ribosomi che rendono possibile la replicazione
della vita. Se esistono macchine biologiche che costruiscono altre molecole
atomo per atomo, sostiene Drexler, allora, almeno in linea di principio,
possono esistere anche macchine non biologiche costruite dall'uomo.
Gli enzimi e i ribosomi naturalmente esistono, ribatte Smalley. Tuttavia
sono macchine molecolari che costruiscono sì, macchine molecolari atomo per
atomo, ma con un tasso di errore piuttosto elevato, tant'è che le cellule
sono in possesso di meccanismi di riparazione degli errori molto
sofisticati. Che, però, in ogni caso non garantiscono la precisione
assoluta. Gli organismi viventi sono in grado di autoreplicarsi, ma
accettando di pagare il prezzo dell'errore.
In ogni caso, enzimi e ribosomi lavorano solo in ambiente acquoso. Cosicchè
se Drexler pensa di utilizzarli come operai al soldo del suo «assemblatore
molecolare», pone un limite alla sua capacità di creazione. Non potrà mai
costruire microrobot che non vivano in acqua. Precludendosi, di fatto, tutte
le strade che non sono state già battute dalla natura con gli «assemblatori
molecolari biologici».
Concludendo. La polemica, breve e intensissima, tra Smalley e Drexler non ha
modificato le intime convinzioni dei due scienziati. E ci ha mostrato quanto
sia tuttora grande la difficoltà di comunicazione tra persone, di indubbio
valore, appartenenti a discipline scientifiche diverse, per quanto contigue
come la fisica e la chimica. Incomunicabilità che emerge quando quei due
scienziati appartenenti a comunità scientifiche diverse si trovano, all'
improvviso, ad affrontare il medesimo problema. La storia insegna che, in
questi casi, uno solo risulterà vincitore. Chi, secondo voi, sarà premiato
tra l'apocalittico Drexler e il prudente Smalley?

 Cosa sono

di Pietro Greco

 Le nanotecnologie sono, secondo una definizione della National Science
Foundation (Nsf) degli Stati Uniti, una rivoluzione scientifica e
tecnologica «fondata sulla recente acquisizione della capacità di misurare,
manipolare e organizzare la materia a livello della nanoscala: da 1 a 100
miliardesimi di metro».

Da un punto di vista scientifico questa rivoluzione è di estremo interesse,
perché la nanoscala non è un altro semplice passo verso la
miniaturizzazione, ma una dimensione qualitativamente nuova, perché la
materia cessa di comportarsi come la vediamo fare a livello macroscopico,
seguendo le leggi della fisica e della chimica classiche, ma assume un
comportamento nuovo: «dominato dalla meccanica quantistica, dal confinamento
dei materiali in piccole strutture, da una notevole frazione del volume
interfacciale e da altre proprietà, fenomeni e processi unici» per dirla con
i tecnici della Nsf. Insomma, alla scala dei nanometri la fisica
quantistica, la chimica, la biologia, la scienza dei materiali e l'
ingegneria convergono verso i medesimi principi e strumenti. Verso principi
e strumenti tutti da scoprire e inventare.

Da un punto di vista tecnologico, la nanoscienza annuncia meraviglie
mirabolanti in ogni settore: dalla medicina molecolare all'informatica,
dalla robotica alla chimica. Talvolta queste meraviglie sono inquietanti: è
già operativo presso il MIT un istituto sulle nanotecnologie per il soldato,
ma qualcuno già parla di micidiali eserciti di microrobot. Eric Drexler e
Bill Joy parlano, ancora, di macchine autoreplicanti in grado di ribellarsi
all'uomo.

La fantasia può correre, perché le nanotecnologie sono, per ora, più una
promessa che una realtà. Una promesse che annuncia di produrre ricchezza in
quantità inimmaginabile: Thomas Kalil, un esperto della Casa Bianca ai tempi
di Clinton, sostiene che la nanoeconomia moltiplicherà per 100 la ricchezza
mondiale entro il 2100. Ma che, intanto, assorbe enormi risorse. Nel 2004
gli Usa finanzieranno lo sviluppo delle nanoscienze con circa 850 milioni di
dollari. Che è più o meno il doppio del budget che l'Italia assegna al suo
Cnr per fare ricerca in tutti i campi dello scibile umano.