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come e dove farsi un paradiso - fiscale -
- Subject: come e dove farsi un paradiso - fiscale -
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 28 Jan 2004 06:58:42 +0100
dal corriere.it lunedi 19 gennaio 2004 «Lasci stare i Caraibi, hanno una pessima reputazione». ... «Lasci stare i Caraibi, hanno una pessima reputazione». Janson Lotery non ha dubbi: «Se fa business in Europa e nel Far East, ma non negli Usa, la soluzione migliore è una società americana. Non nel Delaware, troppo conosciuto, ma a Washington D. C.: è la capitale, ha una rispettabilità e zero tasse su società di non residenti. Per gestirla propongo l'isola di Madeira, e un ufficio a Londra. Il conto corrente? Dove vuole, ma l'Isola di Man è impenetrabile. A rendere operativa la società basta una settimana, per il conto corrente qualche giorno di più». Per mettere in moto Lotery e il suo giro del mondo in 90 parole basta chiedergli quale sia la soluzione migliore per evitare le tasse italiane. Sia nel caso di una finanziaria, sia per una società di trading che venda - ad esempio - progetti, design di moda, software e oggetti d'arredamento nell'Unione europea. Domanda posta telefonicamente partendo dalla pubblicità pubblicata su The Economist dall' Sfc group, di cui Lotery è «senior consultant». La società, attiva dal 1979 pubblicizza il suo sito Internet come uno tra i primi 30 siti finanziari raccomandati da Ft International Magazine . Lotery è chiarissimo anche quando dice che per mettere in piedi la società basta «compilare due moduli che mando per email , una fotocopia del suo passaporto e siamo in affari. Venire a Londra? Non serve. La maggior parte dei miei clienti non li ho mai visti». L'illusione che una società ai Caraibi o in uno dei paradisi fiscali sparsi per il mondo potesse tradursi nell'obbligo di una vacanza resta dunque delusa. D'altronde l'ex direttore finanziario di Parmalat, Fausto Tonna, l' ha detto: non è mai stato a Cayman. Comunque, l'email di Lotery arriva in pochi minuti e il questionario proposto è tra i più completi e articolati tra quelli ricevuti da CorrierEconomia durante il suo viaggio tra paradisi fiscali e società offshore. Al punto da richiedere i contatti di due persone che possano fornire referenze sull'onestà del beneficial owner , ovvero del proprietario reale della società, il cui nome naturalmente non comparirà su alcun documento ma che potrà gestire i conti bancari via Internet. Ultimo dettaglio, i costi: mettere in piedi e gestire lo schema Washington D. C.-Madeira-Londra-Isola di Man costa 2.715 sterline il primo anno (3.938 euro circa) e 1.890 sterline (2.741 euro) negli anni successivi. Una cifra elevata se confrontata alle offerte che si trovano sul web. Una ricerca alla voce «offshore companies» produce oltre un milione e trecentomila contatti: una vera e propria giungla dove c'è di tutto, in termini di offerta geografica, di tipologia di società e di costi. Si va dai 1.900 euro proposti da uno studio legale di Cipro, che in vista della sua adesione all' Ue ha riformato il sistema fiscale portando le tasse al 10%, ai 99 dollari (79 euro), per aprire una società a Nevis, nei Caraibi. Se si restringe il campo a Cayman, le cui attrattive sono sole, mare, zero tasse e (secondo il web), due anni di galera per chi dovesse diffondere dati e informazioni sulle società, i contatti diventano 19.500. A testimonianza che il fenomeno offshore nasce storicamente dalle colonie britanniche è proprio dall'Inghilterra e dalle ex colonie che le risposte arrivano in poche ore e con un elevato livello di precisione. Quando però si passa dall'email al telefono, in molti casi a rispondere sono operatori non in grado di fornire consigli. «Non saprei, se le interessa di più la riservatezza e anche spendere molto poco l'ideale sono i Caraibi. Per esempio Nevis, le British Virgin Islands o Belize», suggerisce una voce femminile al numero della Electronic Financial Services, sul cui sito si offre l'apertura online di società in una quarantina di Paesi: da Anguilla, un'isola nei Caraibi dove registrare una società costa 749 dollari (596 euro), all'United Kingdom dove costa 320 sterline (464 euro), e se la società posseduta da un non residente può non pagare tasse. Solo una, tra decine di società contattate ha risposto che l'ideale sarebbe stato incontrarsi (a Londra) e discutere per capire quale fosse la soluzione migliore per la specifica esigenza. Gli altri si accontentano di un pagamento e di un massimo di quattro documenti: la fotocopia del passaporto autenticata da un avvocato, la bolletta di un'utenza con nome e indirizzo, una lettera da parte di un avvocato e di una banca in cui si dice che conoscono la persona e che per quanto risulta a loro è una «brava persona». «Serve solo per i nostri archivi e per le leggi contro il riciclaggio di denaro», tranquillizzano tutti. Naturalmente, ogni documento va spedito via fax o posta, senza che nessuno si ponga il problema delle meraviglie che può fare uno scanner in tema di falsificazione. Consigli d'amministrazione, verbali e bilanci? Tutto compreso nel prezzo, e comunque in molti casi sostanzialmente fittizio. Se dal mondo anglosassone si torna in Italia, l'approccio di tributaristi e commercialisti sembra meno commerciale. «Non esistono problemi a costruire schemi di ottimizzazione fiscale - è la risposta ricorrente - ma bisogna prima capire qual è l'area di attività, il Paese in cui c'è mercato finale e i volumi di fatturato. I costi? Poca cosa, ma bisogna vedere». Su quale poi sia la giurisdizione più conveniente, le opinioni sono meno esotiche. «Non serve andare ai Caraibi - sostiene Giovanni Barbara, managing partner dello studio legale K-Legal Milano, associato a Kpmg -, perché l'Ue offre una serie di possibilità per realizzare architetture societarie che riducono pressoché a zero l'imposizione. E sono schemi alla fine dei quali un imprenditore si trova con gli utili che arrivano legalmente in Italia, non su un conto offshore. Chi va a Cayman non lo fa certo per risparmiare sulle tasse, le ragioni sono altre». Giovanni Paci Chissà se Parmalat aveva avuto il bollino blu Dal 2002 un'azienda che ha società offshore (le grandi quasi tutte) deve dimostrare che hanno uno scopo industriale e avere il via libera del Fisco C hissà se c'era anche il nome Parmalat. Chissà, cioè, se anche l'azienda di Calisto Tanzi aveva fatto (e che risposta aveva avuto), quello che la maggior parte dei gruppi italiani sta facendo per continuare a utilizzare la tassazione, più vantaggiosa, offerta dai paradisi fiscali. Perché dal primo gennaio del 2002 chi possiede società offshore in una serie definita di Paesi (dal primo gennaio 2004 anche per le società collegate) deve comunicarlo al fisco e dimostrare che quelle sue partecipazioni servono per produrre, per commercializzare, per fornire consulenza o know how. Insomma, che hanno una ragion d'essere di tipo industriale e non sono state costituite solo per risparmiare le tasse se non per scopi peggiori. Dal fisco un «bollino blu» In molti lo hanno fatto. La stragrande maggioranza dei gruppi italiani possiede società offshore e negli ultimi ventiquattro mesi ha prodotto documenti per ottenere quello che potremmo definire un «bollino blu» del fisco. Ha fornito contratti di locazione e di assunzione, estratti conto bancari e bollette telefoniche e dell'elettricità. Sono circa 400 le richieste arrivate in due anni alla direzione centrale normative e contenziosi dell'Agenzia delle Entrate di Roma. Di queste, l'80% hanno avuto un parere positivo. Purtroppo, la lista dei «buoni» e dei «cattivi» non si può avere, nessun nome - spiegano alle Entrate - è mai stato reso noto: è la privacy. Peccato. Perché lascia la sensazione di qualcosa che non va. Una norma da ricordare Quella introdotta con il decreto ministeriale del 21 novembre 2001 è una norma che altri Paesi, come gli Stati Uniti, hanno già da molti anni. Ed è una norma che gli azionisti delle società, soprattutto i piccoli, devono tenere a mente. Chi ha presentato al fisco la richiesta di poter continuare a godere delle agevolazioni consentite dai paradisi fiscali non è, infatti, tenuto a segnalarlo nel bilancio. Nemmeno se il fisco ha bocciato la sua richiesta. Eppure, questo potrebbe, un domani, cambiare i conti. Come spiega Vincenzo Busa, direttore centrale normative e contenzioso delle Entrate, «la società non è obbligata ad adeguarsi al nostro parere negativo. Deve, però, presentare la dichiarazione dei redditi. E su questa faremo le verifiche». Dice «faremo» perché la norma è recente e ancora il meccanismo deve mettersi in moto. Se l'accertamento verificherà che il parere del fisco non è stato seguito, si potrà andare in contenzioso. L'onere della prova A parte la possibilità, come ha dimostrato Parmalat, che i documenti siano falsi, il meccanismo ha importanti punti deboli: nessun obbligo di adeguarsi immediatamente al verdetto del fisco, possibilità di verifica sostanzialmente nulle, autodenuncia. Eppure, l'«onere della prova» a carico di chi vuole proporsi sul mercato del risparmio è uno dei modi, secondo Guglielmo Maisto, professore di diritto tributario alla Cattolica di Piacenza, che potrebbero aiutare. «Vietare l'uso dei paradisi fiscali - dice - mi sembra difficile. Oggi, comunque, sono già molto scoraggiati. Il problema in casi come Cirio e Parmalat riguarda, però, soprattutto i controlli. E penso che le norme che esistono sotto il profilo tributario possono essere un modello per gli specialisti del mercato regolamentare. Un deterrente, per esempio, potrebbe essere quello di subordinare l'emissione di obbligazioni o la quotazione di una società alla circostanza che non abbia partecipazioni offshore. A meno che non dimostri che quelle società hanno una ragion d'essere». Anche per questo sarebbe interessante vedere se Parmalat aveva avuto, o no, il «bollino blu». Dove sono i paradisi Spulciare i bilanci alla ricerca di società in paradisi fiscali è diventato un esercizio molto praticato tra chi deve investire. E quando si arriva a nomi come Delaware, Cayman, Antille Olandesi - i «magnifici tre» del crac Parmalat - l'attenzione si alza. Il paradiso fiscale è una soluzione molto diffusa, tanto che persino organismi come la Banca Mondiale hanno società offshore. Non è, dunque, detto che tutti nascondano qualcosa di illecito, basta pensare ai gruppi petroliferi che abbiano società in Paesi come il Bahrein o gli Emirati Arabi. Ma nella maggior parte dei casi (vedere articolo a pagina 2), danno da pensare. Soprattutto gli ultimi nati, molto aggressivi. «I paradisi fiscali - spiega Marco Cerrato, docente di diritto tributario all'Università di Castellanza - sono di solito piccoli Stati che non hanno grandi risorse economiche. La loro caratteristica è di essere uno Stato sovrano con una legislazione utilizzata come strumento per "offrire al mercato" soluzioni legislative e fiscali che servono per risparmiare imposte». Ciascuno Stato ha ormai le sue specializzazioni: chi va bene per i trust e chi per le compagnie di assicurazione «captive», chi per le società di trading e chi per il segreto bancario. L'Italia (art. 127-bis del Testo unico delle imposte sui redditi) ha fatto la lista di quelli che considera paradisi fiscali. L'Ocse, in totale, ne ha individuato una quarantina: di questi, cinque sono completamente chiusi, nel senso che non intendono cooperare in alcun modo (grafico in alto). «Tutti gli altri - continua Cerrato - si sono, almeno formalmente, impegnati a soddisfare alcuni standard, soprattutto a livello di scambio di informazioni con le amministrazioni degli Stati dell'Ocse». Troppi, ancora solo formalmente. In prospettiva, però, quest'uso massiccio dell'offshore potrebbe almeno in parte ridursi per chi vi ricorre per motivi fiscali. Il regime sulle holding, in vigore quest'anno, dovrebbe rendere inutili le holding olandesi e lussemburghesi. Quando alle successioni, che sono state motivo di costituzione di trust, oggi è l'Italia - non ci sono imposte né per le successioni né per le donazioni - a essere considerata paradiso fiscale. Maria Silvia Sacchi
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