come e dove farsi un paradiso - fiscale -



dal corriere.it

lunedi 19 gennaio 2004

«Lasci stare i Caraibi, hanno una pessima reputazione». ...

«Lasci stare i Caraibi, hanno una pessima reputazione». Janson Lotery non ha
dubbi: «Se fa business in Europa e nel Far East, ma non negli Usa, la
soluzione migliore è una società americana. Non nel Delaware, troppo
conosciuto, ma a Washington D. C.: è la capitale, ha una rispettabilità e
zero tasse su società di non residenti. Per gestirla propongo l'isola di
Madeira, e un ufficio a Londra. Il conto corrente? Dove vuole, ma l'Isola di
Man è impenetrabile. A rendere operativa la società basta una settimana, per
il conto corrente qualche giorno di più». Per mettere in moto Lotery e il
suo giro del mondo in 90 parole basta chiedergli quale sia la soluzione
migliore per evitare le tasse italiane. Sia nel caso di una finanziaria, sia
per una società di trading che venda - ad esempio - progetti, design di
moda, software e oggetti d'arredamento nell'Unione europea. Domanda posta
telefonicamente partendo dalla pubblicità pubblicata su The Economist dall'
Sfc group, di cui Lotery è «senior consultant». La società, attiva dal 1979
pubblicizza il suo sito Internet come uno tra i primi 30 siti finanziari
raccomandati da Ft International Magazine . Lotery è chiarissimo anche
quando dice che per mettere in piedi la società basta «compilare due moduli
che mando per email , una fotocopia del suo passaporto e siamo in affari.
Venire a Londra? Non serve. La maggior parte dei miei clienti non li ho mai
visti».
L'illusione che una società ai Caraibi o in uno dei paradisi fiscali sparsi
per il mondo potesse tradursi nell'obbligo di una vacanza resta dunque
delusa. D'altronde l'ex direttore finanziario di Parmalat, Fausto Tonna, l'
ha detto: non è mai stato a Cayman.
Comunque, l'email di Lotery arriva in pochi minuti e il questionario
proposto è tra i più completi e articolati tra quelli ricevuti da
CorrierEconomia durante il suo viaggio tra paradisi fiscali e società
offshore. Al punto da richiedere i contatti di due persone che possano
fornire referenze sull'onestà del beneficial owner , ovvero del proprietario
reale della società, il cui nome naturalmente non comparirà su alcun
documento ma che potrà gestire i conti bancari via Internet.
Ultimo dettaglio, i costi: mettere in piedi e gestire lo schema Washington
D. C.-Madeira-Londra-Isola di Man costa 2.715 sterline il primo anno (3.938
euro circa) e 1.890 sterline (2.741 euro) negli anni successivi. Una cifra
elevata se confrontata alle offerte che si trovano sul web. Una ricerca alla
voce «offshore companies» produce oltre un milione e trecentomila contatti:
una vera e propria giungla dove c'è di tutto, in termini di offerta
geografica, di tipologia di società e di costi. Si va dai 1.900 euro
proposti da uno studio legale di Cipro, che in vista della sua adesione all'
Ue ha riformato il sistema fiscale portando le tasse al 10%, ai 99 dollari
(79 euro), per aprire una società a Nevis, nei Caraibi. Se si restringe il
campo a Cayman, le cui attrattive sono sole, mare, zero tasse e (secondo il
web), due anni di galera per chi dovesse diffondere dati e informazioni
sulle società, i contatti diventano 19.500.
A testimonianza che il fenomeno offshore nasce storicamente dalle colonie
britanniche è proprio dall'Inghilterra e dalle ex colonie che le risposte
arrivano in poche ore e con un elevato livello di precisione. Quando però si
passa dall'email al telefono, in molti casi a rispondere sono operatori non
in grado di fornire consigli. «Non saprei, se le interessa di più la
riservatezza e anche spendere molto poco l'ideale sono i Caraibi. Per
esempio Nevis, le British Virgin Islands o Belize», suggerisce una voce
femminile al numero della Electronic Financial Services, sul cui sito si
offre l'apertura online di società in una quarantina di Paesi: da Anguilla,
un'isola nei Caraibi dove registrare una società costa 749 dollari (596
euro), all'United Kingdom dove costa 320 sterline (464 euro), e se la
società posseduta da un non residente può non pagare tasse.
Solo una, tra decine di società contattate ha risposto che l'ideale sarebbe
stato incontrarsi (a Londra) e discutere per capire quale fosse la soluzione
migliore per la specifica esigenza. Gli altri si accontentano di un
pagamento e di un massimo di quattro documenti: la fotocopia del passaporto
autenticata da un avvocato, la bolletta di un'utenza con nome e indirizzo,
una lettera da parte di un avvocato e di una banca in cui si dice che
conoscono la persona e che per quanto risulta a loro è una «brava persona».
«Serve solo per i nostri archivi e per le leggi contro il riciclaggio di
denaro», tranquillizzano tutti. Naturalmente, ogni documento va spedito via
fax o posta, senza che nessuno si ponga il problema delle meraviglie che può
fare uno scanner in tema di falsificazione. Consigli d'amministrazione,
verbali e bilanci? Tutto compreso nel prezzo, e comunque in molti casi
sostanzialmente fittizio.
Se dal mondo anglosassone si torna in Italia, l'approccio di tributaristi e
commercialisti sembra meno commerciale. «Non esistono problemi a costruire
schemi di ottimizzazione fiscale - è la risposta ricorrente - ma bisogna
prima capire qual è l'area di attività, il Paese in cui c'è mercato finale e
i volumi di fatturato. I costi? Poca cosa, ma bisogna vedere».
Su quale poi sia la giurisdizione più conveniente, le opinioni sono meno
esotiche. «Non serve andare ai Caraibi - sostiene Giovanni Barbara, managing
partner dello studio legale K-Legal Milano, associato a Kpmg -, perché l'Ue
offre una serie di possibilità per realizzare architetture societarie che
riducono pressoché a zero l'imposizione. E sono schemi alla fine dei quali
un imprenditore si trova con gli utili che arrivano legalmente in Italia,
non su un conto offshore. Chi va a Cayman non lo fa certo per risparmiare
sulle tasse, le ragioni sono altre».

Giovanni Paci


Chissà se Parmalat aveva avuto il bollino blu

Dal 2002 un'azienda che ha società offshore (le grandi quasi tutte) deve
dimostrare che hanno uno scopo industriale e avere il via libera del Fisco

C hissà se c'era anche il nome Parmalat. Chissà, cioè, se anche l'azienda di
Calisto Tanzi aveva fatto (e che risposta aveva avuto), quello che la
maggior parte dei gruppi italiani sta facendo per continuare a utilizzare la
tassazione, più vantaggiosa, offerta dai paradisi fiscali. Perché dal primo
gennaio del 2002 chi possiede società offshore in una serie definita di
Paesi (dal primo gennaio 2004 anche per le società collegate) deve
comunicarlo al fisco e dimostrare che quelle sue partecipazioni servono per
produrre, per commercializzare, per fornire consulenza o know how. Insomma,
che hanno una ragion d'essere di tipo industriale e non sono state
costituite solo per risparmiare le tasse se non per scopi peggiori. Dal
fisco un «bollino blu»
In molti lo hanno fatto. La stragrande maggioranza dei gruppi italiani
possiede società offshore e negli ultimi ventiquattro mesi ha prodotto
documenti per ottenere quello che potremmo definire un «bollino blu» del
fisco. Ha fornito contratti di locazione e di assunzione, estratti conto
bancari e bollette telefoniche e dell'elettricità. Sono circa 400 le
richieste arrivate in due anni alla direzione centrale normative e
contenziosi dell'Agenzia delle Entrate di Roma. Di queste, l'80% hanno avuto
un parere positivo. Purtroppo, la lista dei «buoni» e dei «cattivi» non si
può avere, nessun nome - spiegano alle Entrate - è mai stato reso noto: è la
privacy. Peccato. Perché lascia la sensazione di qualcosa che non va.

Una norma da ricordare

Quella introdotta con il decreto ministeriale del 21 novembre 2001 è una
norma che altri Paesi, come gli Stati Uniti, hanno già da molti anni. Ed è
una norma che gli azionisti delle società, soprattutto i piccoli, devono
tenere a mente. Chi ha presentato al fisco la richiesta di poter continuare
a godere delle agevolazioni consentite dai paradisi fiscali non è, infatti,
tenuto a segnalarlo nel bilancio. Nemmeno se il fisco ha bocciato la sua
richiesta. Eppure, questo potrebbe, un domani, cambiare i conti. Come spiega
Vincenzo Busa, direttore centrale normative e contenzioso delle Entrate, «la
società non è obbligata ad adeguarsi al nostro parere negativo. Deve, però,
presentare la dichiarazione dei redditi. E su questa faremo le verifiche».
Dice «faremo» perché la norma è recente e ancora il meccanismo deve mettersi
in moto. Se l'accertamento verificherà che il parere del fisco non è stato
seguito, si potrà andare in contenzioso.

L'onere della prova

A parte la possibilità, come ha dimostrato Parmalat, che i documenti siano
falsi, il meccanismo ha importanti punti deboli: nessun obbligo di adeguarsi
immediatamente al verdetto del fisco, possibilità di verifica
sostanzialmente nulle, autodenuncia. Eppure, l'«onere della prova» a carico
di chi vuole proporsi sul mercato del risparmio è uno dei modi, secondo
Guglielmo Maisto, professore di diritto tributario alla Cattolica di
Piacenza, che potrebbero aiutare. «Vietare l'uso dei paradisi fiscali -
dice - mi sembra difficile. Oggi, comunque, sono già molto scoraggiati. Il
problema in casi come Cirio e Parmalat riguarda, però, soprattutto i
controlli. E penso che le norme che esistono sotto il profilo tributario
possono essere un modello per gli specialisti del mercato regolamentare. Un
deterrente, per esempio, potrebbe essere quello di subordinare l'emissione
di obbligazioni o la quotazione di una società alla circostanza che non
abbia partecipazioni offshore. A meno che non dimostri che quelle società
hanno una ragion d'essere». Anche per questo sarebbe interessante vedere se
Parmalat aveva avuto, o no, il «bollino blu».

Dove sono i paradisi

Spulciare i bilanci alla ricerca di società in paradisi fiscali è diventato
un esercizio molto praticato tra chi deve investire. E quando si arriva a
nomi come Delaware, Cayman, Antille Olandesi - i «magnifici tre» del crac
Parmalat - l'attenzione si alza. Il paradiso fiscale è una soluzione molto
diffusa, tanto che persino organismi come la Banca Mondiale hanno società
offshore. Non è, dunque, detto che tutti nascondano qualcosa di illecito,
basta pensare ai gruppi petroliferi che abbiano società in Paesi come il
Bahrein o gli Emirati Arabi. Ma nella maggior parte dei casi (vedere
articolo a pagina 2), danno da pensare. Soprattutto gli ultimi nati, molto
aggressivi.
«I paradisi fiscali - spiega Marco Cerrato, docente di diritto tributario
all'Università di Castellanza - sono di solito piccoli Stati che non hanno
grandi risorse economiche. La loro caratteristica è di essere uno Stato
sovrano con una legislazione utilizzata come strumento per "offrire al
mercato" soluzioni legislative e fiscali che servono per risparmiare
imposte». Ciascuno Stato ha ormai le sue specializzazioni: chi va bene per i
trust e chi per le compagnie di assicurazione «captive», chi per le società
di trading e chi per il segreto bancario. L'Italia (art. 127-bis del Testo
unico delle imposte sui redditi) ha fatto la lista di quelli che considera
paradisi fiscali. L'Ocse, in totale, ne ha individuato una quarantina: di
questi, cinque sono completamente chiusi, nel senso che non intendono
cooperare in alcun modo (grafico in alto). «Tutti gli altri - continua
Cerrato - si sono, almeno formalmente, impegnati a soddisfare alcuni
standard, soprattutto a livello di scambio di informazioni con le
amministrazioni degli Stati dell'Ocse». Troppi, ancora solo formalmente. In
prospettiva, però, quest'uso massiccio dell'offshore potrebbe almeno in
parte ridursi per chi vi ricorre per motivi fiscali. Il regime sulle
holding, in vigore quest'anno, dovrebbe rendere inutili le holding olandesi
e lussemburghesi. Quando alle successioni, che sono state motivo di
costituzione di trust, oggi è l'Italia - non ci sono imposte né per le
successioni né per le donazioni - a essere considerata paradiso fiscale.

Maria Silvia Sacchi