trasporti , ultima fermata a milano



Da l'Unità del 15.01.2004

 Trasporti: Ultima fermata Milano
di Nicola Cacace

Di fronte alla rabbia dei tranvieri milanesi che si è espressa in modi
illegali - scioperi senza preavviso - e penosi per la massa dei cittadini,
sorgono una serie di quesiti cui le parti in causa, governo, imprese e
sindacati devono dare risposte chiare.
GOVERNO. In Italia, come in tutta Europa, il costo del trasporto urbano è in
gran parte fiscalizzato per motivi ambientali e sociali.
Ne consegue che il governo, principale finanziatore (più del 50% dei bilanci
aziendali) del trasporto urbano deve essere ed è l'attore centrale, anche se
indiretto, del sistema contrattuale. In questa vertenza il governo è
intervenuto tardivamente, poco e male. In quale modello contrattuale il
governo, che è, ripeto il principale finanziatore delle aziende di trasporto
urbano, intendeva ricercare la soluzione della vertenza? Nel modello
contrattuale vigente, a due livelli, contratto nazionale per recupero
dell'inflazione e contratto aziendale o decentrato per i frutti della
produttività e del progresso tecnico, così come sancito dall'accordo di
concertazione del 1993, oppure in un nuovo modello contrattuale basato solo
sul contratto nazionale che il governo pretenderebbe addirittura varare al
di fuori di ogni accordo coi sindacati confederali; in pratica una
sconfessione secca dell'accordo confederale del 1993? Se, come credo, il
governo non aveva alcuna intenzione di disdettare l'accordo di concertazione
del 1993, che malgrado tante chiacchiere governative e confindustriali su
concertazione e consultazione risulta ancora valido, non si capisce perché
il governo non si adoperi con chiarezza e trasparenza sull'azienda milanese
perché questa assuma le sue responsabilità con un contratto integrativo che
i bilanci dell'azienda, anche grazie agli aumenti di produttività del lavoro
che ci sono stati, certificati anche dal miglioramento dei conti aziendali,
è in grado di pagare. In questo caso è successo che i sindacati confederali
dei trasporti hanno firmato una intesa nazionale ritenuta sopportabile dalle
imprese più scassate e da quelle più efficienti, sottintendendo che queste
ultime, Milano in testa, avrebbero potuto recuperare con la contrattazione
aziendale il resto del dovuto. La cosa stenta a passare ma qui deve passare.
CONCERTAZIONE. Il modello contrattuale a due livelli sancito dall'accordo di
concertazione del 1993, che, non dimentichiamolo mai, è servito a far
entrare l'Italia in Europa, ha funzionato solo in parte per il semplice
motivo che la contrattazione decentrata ha coperto il 30% dei lavoratori
nelle categorie più sindacalizzate come i metalmeccanici e quote inferiori o
nulle nelle altre, garantendo a livello nazionale, a mala pena, il potere
d'acquisto dei salari ma espropriando i lavoratori dei frutti del progresso
tecnico. La prova indiscussa di questa "rapina" sta nelle cifre della
contabilità nazionale. Dal 1993 al 2002 i redditi da lavoro dipendente sono
aumentati del 40%, quasi come l'inflazione, malgrado l'aumento di
occupazione, mentre i profitti sono aumentati del 58%, col risultato che i
"redditi da lavoro dipendente" sono passati dal 48,5% del Pil (al costo dei
fattori, cioè senza le tasse) al 45,6% ed i profitti dal 51,5% del Pil al
54,4%. Tre punti del Pil, spostatisi da salari a profitti, sono quasi pari a
70mila miliardi di lire del 2002, cioè 4,7 milioni di lire persi nel 2002
(rispetto al 1993) mediamente da ciascuno dei 15 milioni di lavoratori
dipendenti. Soldi che non sarebbero stati persi se i salari, nel rispetto
dell'accordo del 1993, avessero partecipato anche ai frutti del progresso
tecnico o crescita di ricchezza reale. In nove anni la somma persa, o meglio
investita a caro prezzo nell'Europa, da ciascun lavoratore si può stimare in
più di 20 milioni di lire, e non è poco, se si pensa che tutto il surplus è
andato ai profitti e non ha neanche alimentato un aumento di investimenti
produttivi, ristagnati negli anni novanta; forse è servito all'acquisto di
qualche azienda di telefoni, di autostrade o di energia, in settori più
"comodi" e meno aperti alla concorrenza internazionale o, peggio, ad
alimentare la fantasia creativa di padroni come Cragnotti e Tanzi e relativo
stuolo di managers corrotti o servili.
MODELLO CONTRATTUALE. Oggi tutti parlano di un nuovo modello di
contrattazione anche se personalmente sono convinto che il modello del 1993,
se applicato alla generalità dei lavoratori e non solo ad una minoranza come
è successo nell'ultimo decennio, è quello meglio in grado di garantire
l'obiettivo di una equa redistribuzione della ricchezza prodotta senza
minare la solidità delle aziende, che restano sempre le cellule vitali del
sistema economico. Sul modello contrattuale a due livelli non dovrebbe
essere difficile trovare un accordo tra le tre confederazioni Cgil, Cisl e
Uil, se la Cgil, come spero ed auspico, avrà l'intelligenza di superare
finalmente una atavica diffidenza verso la contrattazione decentrata. Il
pericolo di svuotamento dei contratti nazionali è un falso pericolo.
Dal 1993 al 2002 il Pil italiano è aumentato in valore nominale del 52%, per
un quarto dovuto alla crescita reale di ricchezza e per tre quarti
all'inflazione. È successo che ai lavoratori dipendenti sia andata solo la
parte dell'aumento da inflazione mentre tutto l'aumento del Pil reale sia
andato ai profitti. Anche questo ha contribuito al declino del paese ed
all'impoverimento della classe media e della classe lavoratrice. Come ha
scritto Pier Luigi Ciocca in una recente relazione alla Società italiana
degli economisti dedicata alla mancata crescita italiana "l'accentuarsi
della sperequazione nella distribuzione del reddito negli anni novanta, che
era già alta nei confronti degli altri paesi industriali, può aver concorso
a frenare la crescita, limitando l'apporto dei meno abbienti alla
produttività oltre che ai consumi ed al risparmio nazionale; profitti facili
come quelli, alti, degli anni novanta, possono non generare crescita ma
stagnazione e possono esaurirsi nel consolidamento meramente finanziario
dell'impresa". Condivido in pieno l'analisi di Ciocca.
Il declino economico del paese è legato all'aumento delle sperequazioni
sociali, alla deregulation selvaggia del lavoro, alla flessibilità diventata
precarietà, ai salari di fame ormai realtà per milioni di lavoratori
soprattutto giovani, molto più di quanto si pensa.
Quando un giornale non di sinistra come il Corsera (12.01.04) giunge a
denunciare in prima pagina paghe mensili di 900 euro per giovani ingegneri e
guadagni simili per giovani architetti una prima conseguenza è una
compressione delle motivazioni al lavoro e degli investimenti nella sua
qualità. E quando peggiora la qualità del lavoro, è ben difficile attivare
le volontà di progresso e realizzare quel salto di qualità delle produzioni
necessario perché l'Italia resti nel novero dei paesi industriali. In altre
parole la crisi dell'Italia che produce beni e servizi e dell'Italia che
pensa di risolvere i suoi problemi con la finanza creativa è legata, più di
quanto si creda, alle sperequazioni sociali crescenti, alle ignobili
condizioni salariali e di lavoro di milioni di giovani, alla riduzione
continua di quei paletti che, come diceva Alan Greenspan, il governatore
centrale americano, servono a contenere l'avidità degli uomini ("l'avidità
umana non è eliminabile, quello che possiamo fare è mettere paletti per
contenerla"), quei paletti che molte leggi del governo Berlusconi si sono
diligentemente adoperate per eliminare.