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trasporti , ultima fermata a milano
- Subject: trasporti , ultima fermata a milano
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 18 Jan 2004 08:05:30 +0100
Da l'Unità del 15.01.2004 Trasporti: Ultima fermata Milano di Nicola Cacace Di fronte alla rabbia dei tranvieri milanesi che si è espressa in modi illegali - scioperi senza preavviso - e penosi per la massa dei cittadini, sorgono una serie di quesiti cui le parti in causa, governo, imprese e sindacati devono dare risposte chiare. GOVERNO. In Italia, come in tutta Europa, il costo del trasporto urbano è in gran parte fiscalizzato per motivi ambientali e sociali. Ne consegue che il governo, principale finanziatore (più del 50% dei bilanci aziendali) del trasporto urbano deve essere ed è l'attore centrale, anche se indiretto, del sistema contrattuale. In questa vertenza il governo è intervenuto tardivamente, poco e male. In quale modello contrattuale il governo, che è, ripeto il principale finanziatore delle aziende di trasporto urbano, intendeva ricercare la soluzione della vertenza? Nel modello contrattuale vigente, a due livelli, contratto nazionale per recupero dell'inflazione e contratto aziendale o decentrato per i frutti della produttività e del progresso tecnico, così come sancito dall'accordo di concertazione del 1993, oppure in un nuovo modello contrattuale basato solo sul contratto nazionale che il governo pretenderebbe addirittura varare al di fuori di ogni accordo coi sindacati confederali; in pratica una sconfessione secca dell'accordo confederale del 1993? Se, come credo, il governo non aveva alcuna intenzione di disdettare l'accordo di concertazione del 1993, che malgrado tante chiacchiere governative e confindustriali su concertazione e consultazione risulta ancora valido, non si capisce perché il governo non si adoperi con chiarezza e trasparenza sull'azienda milanese perché questa assuma le sue responsabilità con un contratto integrativo che i bilanci dell'azienda, anche grazie agli aumenti di produttività del lavoro che ci sono stati, certificati anche dal miglioramento dei conti aziendali, è in grado di pagare. In questo caso è successo che i sindacati confederali dei trasporti hanno firmato una intesa nazionale ritenuta sopportabile dalle imprese più scassate e da quelle più efficienti, sottintendendo che queste ultime, Milano in testa, avrebbero potuto recuperare con la contrattazione aziendale il resto del dovuto. La cosa stenta a passare ma qui deve passare. CONCERTAZIONE. Il modello contrattuale a due livelli sancito dall'accordo di concertazione del 1993, che, non dimentichiamolo mai, è servito a far entrare l'Italia in Europa, ha funzionato solo in parte per il semplice motivo che la contrattazione decentrata ha coperto il 30% dei lavoratori nelle categorie più sindacalizzate come i metalmeccanici e quote inferiori o nulle nelle altre, garantendo a livello nazionale, a mala pena, il potere d'acquisto dei salari ma espropriando i lavoratori dei frutti del progresso tecnico. La prova indiscussa di questa "rapina" sta nelle cifre della contabilità nazionale. Dal 1993 al 2002 i redditi da lavoro dipendente sono aumentati del 40%, quasi come l'inflazione, malgrado l'aumento di occupazione, mentre i profitti sono aumentati del 58%, col risultato che i "redditi da lavoro dipendente" sono passati dal 48,5% del Pil (al costo dei fattori, cioè senza le tasse) al 45,6% ed i profitti dal 51,5% del Pil al 54,4%. Tre punti del Pil, spostatisi da salari a profitti, sono quasi pari a 70mila miliardi di lire del 2002, cioè 4,7 milioni di lire persi nel 2002 (rispetto al 1993) mediamente da ciascuno dei 15 milioni di lavoratori dipendenti. Soldi che non sarebbero stati persi se i salari, nel rispetto dell'accordo del 1993, avessero partecipato anche ai frutti del progresso tecnico o crescita di ricchezza reale. In nove anni la somma persa, o meglio investita a caro prezzo nell'Europa, da ciascun lavoratore si può stimare in più di 20 milioni di lire, e non è poco, se si pensa che tutto il surplus è andato ai profitti e non ha neanche alimentato un aumento di investimenti produttivi, ristagnati negli anni novanta; forse è servito all'acquisto di qualche azienda di telefoni, di autostrade o di energia, in settori più "comodi" e meno aperti alla concorrenza internazionale o, peggio, ad alimentare la fantasia creativa di padroni come Cragnotti e Tanzi e relativo stuolo di managers corrotti o servili. MODELLO CONTRATTUALE. Oggi tutti parlano di un nuovo modello di contrattazione anche se personalmente sono convinto che il modello del 1993, se applicato alla generalità dei lavoratori e non solo ad una minoranza come è successo nell'ultimo decennio, è quello meglio in grado di garantire l'obiettivo di una equa redistribuzione della ricchezza prodotta senza minare la solidità delle aziende, che restano sempre le cellule vitali del sistema economico. Sul modello contrattuale a due livelli non dovrebbe essere difficile trovare un accordo tra le tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil, se la Cgil, come spero ed auspico, avrà l'intelligenza di superare finalmente una atavica diffidenza verso la contrattazione decentrata. Il pericolo di svuotamento dei contratti nazionali è un falso pericolo. Dal 1993 al 2002 il Pil italiano è aumentato in valore nominale del 52%, per un quarto dovuto alla crescita reale di ricchezza e per tre quarti all'inflazione. È successo che ai lavoratori dipendenti sia andata solo la parte dell'aumento da inflazione mentre tutto l'aumento del Pil reale sia andato ai profitti. Anche questo ha contribuito al declino del paese ed all'impoverimento della classe media e della classe lavoratrice. Come ha scritto Pier Luigi Ciocca in una recente relazione alla Società italiana degli economisti dedicata alla mancata crescita italiana "l'accentuarsi della sperequazione nella distribuzione del reddito negli anni novanta, che era già alta nei confronti degli altri paesi industriali, può aver concorso a frenare la crescita, limitando l'apporto dei meno abbienti alla produttività oltre che ai consumi ed al risparmio nazionale; profitti facili come quelli, alti, degli anni novanta, possono non generare crescita ma stagnazione e possono esaurirsi nel consolidamento meramente finanziario dell'impresa". Condivido in pieno l'analisi di Ciocca. Il declino economico del paese è legato all'aumento delle sperequazioni sociali, alla deregulation selvaggia del lavoro, alla flessibilità diventata precarietà, ai salari di fame ormai realtà per milioni di lavoratori soprattutto giovani, molto più di quanto si pensa. Quando un giornale non di sinistra come il Corsera (12.01.04) giunge a denunciare in prima pagina paghe mensili di 900 euro per giovani ingegneri e guadagni simili per giovani architetti una prima conseguenza è una compressione delle motivazioni al lavoro e degli investimenti nella sua qualità. E quando peggiora la qualità del lavoro, è ben difficile attivare le volontà di progresso e realizzare quel salto di qualità delle produzioni necessario perché l'Italia resti nel novero dei paesi industriali. In altre parole la crisi dell'Italia che produce beni e servizi e dell'Italia che pensa di risolvere i suoi problemi con la finanza creativa è legata, più di quanto si creda, alle sperequazioni sociali crescenti, alle ignobili condizioni salariali e di lavoro di milioni di giovani, alla riduzione continua di quei paletti che, come diceva Alan Greenspan, il governatore centrale americano, servono a contenere l'avidità degli uomini ("l'avidità umana non è eliminabile, quello che possiamo fare è mettere paletti per contenerla"), quei paletti che molte leggi del governo Berlusconi si sono diligentemente adoperate per eliminare.
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