giudici e costituzione



ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
Convegno su: Lo stato della Costituzione italiana e
l'avvio della Costituzione europea - 14-15 luglio 2003

Alessandro Pizzorusso

Giustizia e giudici

1. - Fra le norme della Costituzione italiana che più spesso sono state
chiamate in causa nell'ambito della crisi costituzionale alla cui analisi
questo
convegno è dedicato, i principi e le regole che essa dedica all'ordinamento
giudiziario ed al diritto processuale sono certamente quelle che hanno
sofferto gli
attacchi più violenti. E se fin qui esse non hanno subito modificazioni
esplicite se
non quella dell'art. 111 (il quale peraltro non si pone in contrasto con i
principi già
espressi dalla Costituzione, ma piuttosto li sviluppa), le aperte
contestazioni di cui
tali principi hanno costituito oggetto da parte dei più autorevoli esponenti
della
maggioranza parlamentare attualmente in carica lasciano pensare che
difficilmente
esse potranno essere difese fino alla fine della legislatura in corso,
specialmente
ove si cerchi di rovesciarli non tanto mediante procedure di revisione
quanto con
leggi ordinarie o puramente in via di fatto.
La Costituzione si occupa di queste materie nell'intero titolo quarto della
seconda parte, oltre che in varie disposizioni sparse nella prima parte,
ponendo
così un complesso di principi e di regole mediante le quali i costituenti si
erano
proposti, non solo di pone le basi di una radicale inversione di tendenza
rispetto
alla fase anteriore durante la quale il regime fascista aveva accentuato
oltre ogni
limite il carattere autoritario ed illiberale dello Stato, ma anche di
determinare
consistenti
progressi rispetto al livello di attuazione del principio di legalità che
era stato raggiunto
nella prima fase postunitaria. Al centro di questo complesso di principi sta
l'affermazione
dell'indipendenza della Magistratura, che trova il suo cardine nel
trasferimento dal
Ministro della Giustizia ad un rinnovato Consiglio superiore della
Magistratura di quelle
funzioni di gestione del personale giudiziario nelle quali Piero Calamandrei
aveva
indicato la principale fonte degli inconvenienti riscontrati in passato.1
L'attuazione delle norme costituzionali relative a questa materia aveva
incontrato una serie di difficoltà che, nel corso di vari decenni trascorsi
dall'entrata in vigore della Costituzione fino agli anni '80, erano state
gradualmente superate, senza tuttavia che si fosse pervenuti alla redazione
di
nuovi testi legislativi dotati di una adeguata organicità. Lo stesso codice
di
procedura penale del 1988, che costituisce il testo più ambizioso che si sia
riusciti
ad adottare in questo periodo, ha dato luogo a non poche incertezze, mentre
non è
stata mai neppure tentata la redazione di una nuova legge generale
sull'ordinamento giudiziario, nonostante che la Costituzione esplicitamente
la
prescrivesse in una sua disposizione transitoria.
Ciò nonostante, all'inizio degli anni '90, il movimento culturale che
rivendicava la piena attuazione del principi costituzionali in tema di
indipendenza
della Magistratura aveva ormai conquistato molte posizioni, tanto che si
poteva
cominciare a pensare ad un generale riassetto della legislazione che
portasse la
Giustizia italiana ad un livello d'indipendenza paragonabile ai celebri
modelli
anglosassoni e si cominciava a parlare del "modello italiano" di ordinamento
giudiziario come del principale punto di riferimento per le riforme
progettate nei
paesi dell'Europa orientale e dell'America
latina che avevano recentemente recuperato maggiori spazi di libertà.
Il sostanziale fallimento dell'offensiva scatenata in quegli anni da
importanti esponenti della politica contro i magistrati che si erano messi
in vista
per la loro indipendenza e contro il Consiglio superiore della Magistratura
che li
aveva difesi aveva dimostrato infatti come i risultati raggiunti fossero
ormai
abbastanza consolidati, anche se ai progressi compiuti sotto questo profilo
non
aveva corrisposto un generale miglioramento dell'efficienza delle nostre
istituzioni giudiziarie, nei confronti delle quali le forze politiche e gli
organi
legislativi e di governo avevano tenuto quasi sempre un atteggiamento di
sostanziale incuria, se non addirittura di latente ostruzionismo, come era
dimostrato in particolare dalla mancata realizzazione di istituzioni per la
formazione professionale dei magistrati paragonabili a quelle che esistono
ormai
in tutti i paesi di analogo livello di sviluppo e dal carattere quasi
esclusivamente
demagogico di gran parte dei provvedimenti che in materia di Giustizia
venivano
presi dal Parlamento o dal Governo, quasi sempre soltanto al fine di dare
l'impressione di saper rispondere alle vicende segnalate dalla cronaca che
maggiormente colpivano l'opinione pubblica.
Era naturale che, a mano a mano che venivano meno gli strumenti che in
passato, legalmente o illegalmente, avevano quasi sempre impedito l'
esercizio del
controllo giudiziario sui reati dei potenti, le inchieste relative a questo
genere di
attività si facessero più frequenti e nel 1992 ciò avvenne con caratteri di
particolare intensità. Bisogna dire, però, a correzione di una opinione
assai diffusa
ma largamente infondata, che inchieste e condanne per reati di questo genere
se ne
erano avute non poche anche negli anni precedenti, da quelle relative alla
vicenda
dell'Istituto Nazionale per la Gestione delle Imposte di Consumo, che risale
addirittura agli anni '50, a quella sullo "scandalo dei
petroli", che aveva costituito il pretesto per l'introduzione del
finanziamento pubblico dei partiti nel 1974, all'affare Lockheed e a molti
altri.
Negli anni '90, la possibilità che si avessero più frequenti iniziative di
questo genere era aumentata, non soltanto per il rafforzamento delle
garanzie di
indipendenza derivanti dalla progressiva assunzione del proprio molo ad
opera del
Consiglio superiore della Magistratura, ma anche per le esperienze compiute
da
molti magistrati inquirenti nell' ambito dei processi di concernenti la
criminalità
organizzata ed in quelle relativi al terrorismo, le quali avevano consentito
una
migliore organizzazione di alcune Procure della Repubblica e degli organi di
polizia che collaborano con esse. Ed un importante contributo in questa
direzione
era venuto anche dal codice di procedura penale del 1988, che aveva reso più
concreta la dipendenza della polizia giudiziaria dalle procure e che aveva
per
contro eliminato quasi completamente la gerarchizzazione degli uffici di
procura
che in passato era stata spesso utilizzata dal potere politico per frenare
iniziative di
questo genere.
E' inoltre da riaffermare, contrariamente a quanto viene sostenuto da una
tambureggiante propaganda, che le inchieste giudiziarie iniziate nel 1992,
valutate
nel loro complesso, non possono essere considerate come un anomalia e che se
di
anomalia può correttamente parlarsi è piuttosto con riferimento al livello
assunto
nel nostro paese dalla corruzione e dal malaffare. Cosicché, ove si tenga
conto
dello stato delle cose che si era venuto a realizzare e che fu attestato fra
gli altri da
un memorabile discorso del senatore Agnelli, non può sorprendere nessuno che
taluno degli uffici giudiziari specificamente preposti alla persecuzione dei
reati si
adoperasse per contrastare questo stato di cose, così come negli anni
precedenti
alcune procure si erano coraggiosamente impegnate con risultati importanti
nella
persecuzione dei reati di terrorismo e di quelli di mafia,
nonostante i pesanti costi che ne erano derivati anche in termini di vite
umane.
Qui non interessa stabilire se nel corso di tali inchieste siano stati
compiuti
errori o eccessi come possono aversene in qualunque altra procedura
giudiziaria e
se le decisioni prese meritino commenti maggiormente favorevoli o
maggiormente
sfavorevoli di altre; quello che conta è che nulla induce a ritenere che
esse siano
state frutto di influenze esterne, o comunque tali da alterare il normale
corso delle
procedure in questione. Tutte le numerosissime denunce presentate e tutte le
inchieste svolte nei confronti dei magistrati che le hanno condotte, del
resto,
nonostante l'anormale impulso ad esse date da alcuni ministri della
giustizia la cui
mancanza di imparzialità è apparsa di clamorosa evidenza, sono rimaste senza
esito alcuno.
La principale anomalia che si è avuta in questo periodo è stata
rappresentata dalla linea di condotta che è stata seguita dalla difesa di un
determinato imputato, un imprenditore milanese il quale, essendo stato
incriminato
per una lunga serie di reati comuni - sottolineo, comuni, non politici - i
quali
riguardavano molti episodi di corruzione di funzionari pubblici (fra cui
alcuni
magistrati che occupavano posizioni di grande rilievo nel sistema
giudiziario
italiano), reati societari e altre violazioni di legge di vario genere2,
organizzò la
sua difesa in modo assolutamente originale.
Egli infatti non si limitò ad assumere squadre di avvocati che assicurassero
la difesa tecnica nell'ambito delle varie inchieste e dei numerosi
procedimenti
penali che ne seguirono, ma procedette anche ad una imponente serie di
attività
stragiudiziali, le quali finirono per esercitare un molo decisivo al fine di
assicurargli assoluzioni, dichiarazioni di improcedibilità per prescrizione
o per
altri motivi, oppure, quanto meno, con
uno jus singulare, lo sospensione dei procedimenti sine die.
Queste attività consistettero principalmente nell'impiego sistematico dei
mass media di sua proprietà (e di altri che per motivi diversi si uniscono
ai suoi
nell'assolvimento di questo compito) per accusare di parzialità e di
"politicizzazione" tutti i magistrati che, avendo dovuto occuparsi di lui
per ragione
del proprio ufficio, hanno adottato decisioni non conformi alla richieste
della
difesa e comunque per orientare l'opinione pubblica in senso favorevole a
lui e
sfavorevole ai magistrati ed all'intero potere giudiziario. Nel 1993,
inoltre, egli
procedette alla costituzione di un partito politico, gestito più come un'
azienda che
come un'associazione, ma comunque capace di raccogliere sotto le sue
bandiere
parecchi personaggi atipici, aventi in comune l'orientamento anti-politico,
i quali
in precedenza erano rimasti emarginati, anche se per ragioni diverse, e ciò
gli
consentì di conquistare la maggioranza parlamentare e di assumere ruoli di
guida
del Governo italiano (ed ora persino dell'Unione europea), dei quali si
avvalse
pesantemente per influire in senso a lui favorevole sui processi in corso
mediante
provvedimenti legislativi e amministrativi, oltre che mediante una costante
pressione propagandistica tendente a presentare sé stesso come una vittima
di
un'organizzazione politica a lui avversa alla quale sarebbero affiliati, non
solo
gran parte dei magistrati italiani, ma anche magistrati stranieri ed in
genere tutti
coloro che in un modo o in un altro omettono di favorire i suoi interessi
processuali, commerciali o politici.
Fra le innumerevoli dichiarazioni rese da questo imputato basterà ricordare
a titolo di esempio come, intervistato dai giornalisti nella sua qualità di
presidente
del consiglio italiano a proposito di una legge che la sua maggioranza
parlamentare aveva approvato per cercare di far dichiarare processualmente
inutilizzabili taluni documenti che le autorità italiane avevano ottenuto,
per
rogatoria, dalle autorità giudiziarie svizzere, non si peritò di qualificare
tali
documenti come "prove false", affermando così implicitamente - senza neppure
addurre alcun elemento di prova a sostegno - che i magistrati svizzeri
avrebbero
falsificato quei documenti per danneggiarlo! Per quanto riguarda i
magistrati
italiani, d'altronde, basterà ricordare come egli abbia recentemente
qualificato la
Magistratura nel suo complesso come un ''cancro" da cui il paese dovrebbe
liberarsi. Quanto poi ai "suoi" ministri non si può non ricordare almeno
come il
Ministro per la riforme, nel pronunciarsi contro le proposte di sviluppare
la
collaborazione europea nel campo della giustizia, abbia qualificato l'Unione
europea come "Forcolandia" e come il Ministro delle infrastrutture - senza
venir
contraddetto - abbia definito la mafia come una realtà con la quale bisogna
imparare a convivere.
Questa vicenda - per quanto incredibile essa possa apparire - ha fatto sì
che il nostro personaggio abbia potuto fin qui evitare ogni condanna
definitiva,
anche se raramente ha ottenuto pronunce le quali escludessero che il fatto
illecito
fosse realmente avvenuto. In molti casi, infatti, egli è stato prosciolto
per essere il
reato estinto per prescrizione (alla quale egli non ha mai rinunciato, come
la legge
consente e come fanno coloro che aspirano ad ottenere il riconoscimento
della loro
innocenza), oppure perché è stato escluso che egli avesse personalmente
partecipato alla commissione del reato (del quale si sono dichiarati autori
suoi
collaboratori, che avrebbero quindi agito a suo vantaggio ma a sua insaputa
o
contro la sua volontà), oppure perché il processo è stato sospeso grazie ad
una
legge ad hoc fino a quando egli rivesta la carica di presidente del
consiglio (su
questo punto peraltro è stata sollevata una questione di costituzionalità
sulla quale
dovrà decidere la Corte costituzionale).
Pare indiscutibile che questa incredibile vicenda rappresenta la più vistosa
violazione che i principi
stabiliti dalla Costituzione italiana abbiano subito in questi ultimi anni
ed una delle
più singolari che si siano mai verificate nella storia costituzionale di
tutti i popoli.
Per illustrare i problemi che essa ha fatto sorgere, e tuttavia necessario
riassumere,
sia pur sinteticamente, gli immediati antefatti della situazione attuale.
Al momento dell'unificazione politica dell'Italia, venne esteso all'
intero
territorio nazionale l'ordinamento giudiziario che era stato adottato
qualche anno
prima in Piemonte e che risultava dalla recezione del sistema vigente in
Francia ed
avente il suo testo principale nella legge napoleonica del 1810.
Questa legge aveva concluso una serie di tempestose riforme iniziate dopo
la rivoluzione del 1789, a seguito della quale il sistema giudiziario
esistente al
tempo dell'ancien régime era stato abolito e si erano susseguite riforme di
diverso
orientamento, dapprima ispirate ai principi enunciati nella celebre opera di
Montesquieu (come si desume tra l'altro dal richiamo alla separazione dei
poteri
come elemento fondamentale di qualunque ordinamento conforme ai principi del
costituzionalismo liberale, che si legge nel celebre art. 16 della
Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino, adottata dall'Assemblea costituente il 26
agosto
1789), ma poi invece tendenti a realizzare la completa subordinazione dell'
attività
giudiziaria al controllo politico (dimostrata soprattutto dal ricorso all'
istituto del
reféré législatif in virtù del quale al giudice era imposto di chiedere al
legislatore
l'interpretazione della legge ogni qual volta essa apparisse controversa).
Concepita
in funzione della caratterizzazione ultra-democratica del potere politico
prevalsa
nella fase più estrema della Rivoluzione, questa impostazione era stata
conservata
anche quando l'assetto dei pubblici poteri aveva assunto una connotazione
autoritaria nel periodo napoleonico e nell'età della Restaurazione.
Si era venuto così consolidando un modello di ordinamento giudiziario in
base al quale la Magistratura era configurata come un corpo di funzionari,
assistiti
bensì da talune garanzie loro specifiche, ma soggetti al Ministro della
Giustizia per
tutto quanto riguardava la gestione del loro rapporto d'impiego e quindi
dotati di
un regime di indipendenza più teorico che reale. Per il Pubblico ministero,
in
particolare, vigeva un vero e proprio rapporto di dipendenza gerarchica, che
comportava il potere del Ministro di impartire ordini e direttive anche per
quanto
riguarda le funzioni inerenti all'esercizio dell'azione penale.
Durante la fase che va dall'unificazione all'avvento del fascismo, il
sistema
adottato, seguendo questo modello, con la prima legge italiana di
ordinamento
giudiziario (che è del 1865) costituì oggetto di critica da parte di un
movimento di
opinione il quale si ispirava, oltre che al pensiero originario dell'
Illuminismo, agli
esempi anglosassoni, nell'ambito dei quali l'indipendenza del giudice era
considerata come un principio fondamentale dell' ordinamento costituzionale.
Esponenti di spicco di questo movimento di pensiero furono sopratutto
Lodovico Mortara e Piero Calamandrei: il primo, in alcuni scritti pubblicati
tra la
fine del XIX ed i primi anni del XIX secolo, segnalò le condizioni di
depressione
culturale e di dipendenza funzionale in cui operavano i magistrati italiani3
il
secondo, in un suo celebre discorso, tenuto per l'inaugurazione dell'anno
accademico dell'Università di Siena il 13 novembre 19214, illustrò le
ragioni della
subordinazione dei magistrati nei confronti del potere politico e della
stessa
burocrazia, ragioni che egli individuò principalmente nella gestione, da
parte del
Ministero, della carriera dei magistrati. Va ricordata altresì la
costituzione,
avvenuta nel 1907,
dell'Associazione Nazionale dei Magistrati italiani, sulla base di un
programma
ispirato ad analoghi presupposti.
Sul piano legislativo le riforme conseguite in questo periodo dal
movimento per l'indipendenza della Magistratura furono assai limitate: le
più
importanti riguardarono l'introduzione del concorso per esami come unico
metodo
di selezione iniziale, che risale a una legge Zanardelli del 1890, e la
previsione di
forme di consultazione di organi composti di magistrati in vista di taluni
provvedimenti relativi alla carriera dei magistrati stessi, dovuti a una
serie di
provvedimenti culminati in una legge Orlando del 1907, istitutiva di un
primo
Consiglio superiore della Magistratura. Queste riforme, tuttavia, non
scalfirono, né
la struttura gerarchica del corpo, né il cordone ombelicale che lo legava al
potere
politico, particolarmente in virtù del collegamento assai stretto esistente
fra il
Ministero della Giustizia e la Corte di cassazione, la quale a sua volta
esercitava la
sua egemonia sull'intero corpo, sia attraverso il controllo delle sentenze,
sia - e
soprattutto - attraverso la gestione dei concorsi che condizionavano la
carriera dei
magistrati.
La dimostrazione di ciò fu offerta dal fatto che il regime fascista non ebbe
bisogno. di introdurre contro-riforme di particolare rilievo per esercitare
i poteri
autoritari di cui si era appropriato; le leggi di ordinamento giudiziario
del 1923 e
del 1941, che sostituirono quella del 1865, si limitarono ad eliminare
alcune delle
riforme del periodo precedente, senza necessità di sconvolgere un sistema
che ben
si adattava alle esigenze della dittatura. Lo scioglimento dell'Associazione
nazionale dei magistrati italiani fu uno dei provvedimenti di questo genere,
ma
esso fu determinato più dalla generale impostazione repressiva del regime,
che
non da finalità specificamente riferibili ai problemi della Giustizia.
All'indomani della liberazione del paese dal nazifascismo, il cammino
delle riforme tendenti a realizzare
l'indipendenza della Magistratura poté riprendere e due tappe fondamentali
di esso
furono la legge "sulle guarentigie della Magistratura" del 1946, che eliminò
il
rapporto di dipendenza gerarchica che legava gli organi del pubblico
ministero al
Ministro della Giustizia, e la Costituzione del 1947, che adottò molte
importanti
novità, la più importante delle quali fu l'attribuzione delle funzioni
relative allo
stato giuridico dei magistrati ad un organo indipendente dal potere politico
e
composto in maggioranza di magistrati eletti da tutti i magistrati, cioè ad
un
Consiglio superiore della Magistratura rinnovato nei suoi poteri e nella sua
composizione.
L'attuazione di questi principi trovò forti resistenze cui, in un primo
tempo,
non furono estranei i magistrati più anziani, la cui formazione culturale,
in molti
casi almeno, era quella ispirata agli orientamenti dominanti durante i
precedenti
regimi. Il progressivo ricambio generazionale comportò però la progressiva
diffusione dei principi costituzionali ed una larga adesione ad essi da
parte degli
operatori, per cui la figura del giudice (e del pubblico ministero)
concretamente
attuata venne progressivamente avvicinandosi a quella configurata da tali
principi.
Alla base di questo processo riformatore fu tuttavia, soprattutto, l'opera
di
riflessione teorica che fu svolta da un cospicuo numero di giuristi,
magistrati,
avvocati e studiosi, nell'ambito di talune organizzazioni culturali, nelle
università
e nella stessa Associazione Nazionale Magistrati. Questa riflessione teorica
portò
all'adozione di soluzioni nuove, sia mediante riforme legislative, sia
attraverso
l'elaborazione giurisprudenziale, sia attraverso l'opera del Consiglio
Superiore
della Magistratura.
Il risultato di questa maturazione culturale fu che fra il 1960 ed il 1990
circa l'ordinamento giudiziario italiano venne progressivamente
differenziandosi
dal modello napoleonico ed avvicinandosi invece - nei risultati, se non nei
metodi - ai modelli anglosassoni. In estrema sintesi può dirsi che al
termine di
questa fase i
magistrati italiani - giudici e pubblici ministeri -acquisirono la
consapevolezza
che era ormai praticamente possibile esercitare le loro funzioni in modo
indipendente, così come la Costituzione e la legge del 1946 avevano
enunciato
teoricamente: farlo o meno dipendeva ormai soltanto dalla loro coscienza. I
risultati così raggiunti non erano certamente sufficienti a realizzare una
giustizia
efficiente, ma rappresentavano un presupposto essenziale perché un tale
traguardo
potesse venir raggiunto il giorno cui le forze politiche del paese fossero
disposte
ad impegnarsi a tal fine.
A questo punto infatti sarebbe stato necessario concludere la lunga fase
dell'attuazione dei principi costituzionali elaborando una legislazione
ordinaria
che integrasse e sviluppasse tali principi, ma così non è stato. La legge
sull'ordinamento giudiziario richiesta dalla VII disposizione transitoria
della
Costituzione non ha mai visto la luce, cosicché sono ancora in vigore molte
parti e
l'intelaiatura generale di quella del 1941, alla quale sono state apportate
modifiche
mediante innumerevoli provvedimenti peraltro spesso ispirati a logiche del
tutto
scoordinate tra loro. Il Consiglio Superiore della Magistratura si è
sforzato di
rendere meno disomogeneo possibile questo coacervo di regole mediante
proprie
delibere, le quali peraltro non possono spingersi oltre la funzione che è
loro
propria e che consiste nel suggerire interpretazioni le quali consentano di
superare
le antinomie e di colmare le lacune. Sicché provvedimenti ispirati ai
principi
costituzionali coesistono con un quadro generale ispirato ai canoni
stabiliti dalla
legge napoleonica del 1810. Né migliore è la situazione per quanto riguarda
i
codici di procedura, dei quali quello penale, rinnovato nel 1988, ha subito
già
numerosissime modifiche ispirate a visioni contrastanti, mentre per certi
versi
claudicante appare altresì l'assetto del processo civile, più volte
riformato, ma
sempre in modo parziale per far fronte ad esigenze contingenti.
Invece, l'intero campo della legislazione giudiziaria è sconvolto dalle
polemiche determinate dalle vicende che già ho ricordato le quali vedono il
presidente del consiglio e i suoi collaboratori accusare la Magistratura di
costituire
un "cancro" del paese e propone riforme costituzionali o legislative
tendenti a
ripristinare l'assetto esistente prima della Costituzione. Una prima
modifica di
questo tipo è già stata adottata con la legge di riforma dell'ordinamento
del
Consiglio superiore approvata nel 2002, la quale ha determinato il numero
dei
consiglieri eletti dal Parlamento la cui presenza è necessaria per la
validità delle
sedute del Consiglio in modo tale che è sufficiente che quattro di essi si
assentino
perché si determini l'invalidità della seduta e quindi venga bloccato il
funzionamento del Consiglio. E dato che una convenzione parlamentare assegna
alla maggioranza cinque degli otto posti destinati ai "laici" e che in
regime di
partito-azienda tra il leader della maggioranza parlamentare e i "suoi"
membri del
Consiglio sussiste un vincolo assai stretto, la minaccia è molto più reale
di quanto
fosse in passato, quando i partiti riconoscevano una certa autonomia agli
eletti al
Consiglio su loro designazione. Questa modifica è stata approvata con legge
ordinaria, ma è evidente che la sua portata pratica è quella di
ridimensionare non
di poco la norma costituzionale che assegna al Consiglio le sue funzioni,
subordinandone l'esercizio ad una sorta di tacito nulla-osta del leader
della
maggioranza parlamentare. Trattandosi d'altronde di una norma di procedura
relativa al funzionamento di un organo giudiziario, ma non giurisdizionale,
è
estremamente difficile che essa possa venir sottoposta al sindacato di
costituzionalità, che richiede l'applicazione giurisdizionale della norma da
rimettere al controllo della Corte costituzionale.
Progetti ancor più gravi sono stati inoltre annunciati negli ultimi mesi. Se
venissero approvati, essi ripristinerebbero il tipo di gestione del
personale
giudiziario che esisteva prima che i principi
costituzionali cominciassero a ricevere attuazione, riorganizzando la
carriera dei
magistrati sulla base di una lunga serie di concorsi cui sovrintenderebbe la
Corte
di cassazione, e restituirebbero a questa la funzione di organo di
collegamento col
Ministero per assicurare quel tipo di controllo latente che essa svolgeva
fino a non
molto tempo fa. In questo ordine di idee, verrebbe altresì istituita una
"Scuola
della Magistratura", ma per sottoporla, anch'essa, al controllo della
Cassazione
così ristrutturata.
Credo che queste poche indicazioni - fra le moltissime che dovrebbero essere
fornite per offrire un quadro esauriente della situazione - siano
sufficienti a far
comprendere in quale situazione ci troviamo. Basterà aggiungere che il
Governo e
la maggioranza parlamentare sembrano ritenere che modificazioni di questa
portata, che sconvolgono il modello di ordinamento giudiziario adottato
dalla
Costituzione, possano essere adottate con legge ordinaria, realizzando così
delle
"modificazioni tacite" della Costituzione stessa del tipo di quelle che
aveva subito,
ai suoi tempi, lo Statuto albertino, che peraltro era generalmente
considerato una
costituzione "flessibile", cioè modificabile con legge ordinaria, non
prevedendo
una procedura "aggravata" per la sua revisione. Questa prospettiva dovrebbe
essere considerata inammissibile, perché chiaramente contraria al diritto
vigente,
se in questi ultimi tempi modificazioni tacite di questo genere non fossero
state
realizzate sempre più frequentemente, in questa ed in altre materie, come è
stato
illustrato nel corso di questo convegno.
Se guardiamo ai problemi giudiziari in una prospettiva non
esclusivamente italiana, dobbiamo interrogarci piuttosto sulle ragioni che
in molti
paesi hanno portato, specialmente nella seconda metà del XX secolo, ad
accrescere il ruolo esercitato da organi
giurisdizionali o comunque da organi indipendenti e delle reazioni che ciò
ha
determinato.
Per rendersi conto di questo dato di fatto occorre riflettere sul modo in
cui si è
realizzato il passaggio dal tipo di forme di governo che erano proprie degli
ordinamenti statali all'epoca dell'ancien régime a quello che ha
caratterizzato
invece il periodo, tuttora in corso, in cui gli ordinamenti stessi si sono
ispirati, più
o meno fedelmente, ai principi che corrispondono a definizioni del tipo di
quelle
dello "stato democratico", dello "stato di diritto", dello "stato sociale",
ecc.
A questo fine occorre menzionare innanzi tutto il caso degli Stati uniti i
quali,
essendosi svincolati dal rapporto di tipo coloniale che li legava alla Gran
Bretagna,
non ebbero necessità di fare i conti con un ancien régime e poterono
adottare fin
dall'inizio un assetto costituzionale ispirato ai nuovi principi. La
conseguenza fu
che la Costituzione del 1787 si ispirò al principio della separazione dei
poteri,
collocando il potere giudiziario sullo stesso piano degli altri due, e la
sentenza
della Corte suprema Marbury v. Madison, fin dal 1803, introdusse il
controllo
giurisdizionale di costituzionalità delle leggi, sul cui1 ruolo fondamentale
per la
ricostruzione della forma di governo americana non è necessario insistere.
I casi europei, pur presentando rilevanti differenze l'uno dall'altro,
furono
invece tutti caratterizzati dai contrasti che si determinarono fra gli
organi che
risultavano maggiormente sensibili alla necessità di trasformare l'assetto
costituzionale del paese in vista del progressivo adattamento di esso ai
principi
propri dello stato democratico, dello stato di diritto, dello stato sociale,
ecc., e
quelli che invece si presentarono, almeno tendenzialmente, come gli
oppositori di
questa evoluzione.
In alcuni paesi, come soprattutto m Gran Bretagna, le trasformazioni
avvennero senza forti scosse, in altri si ebbero rivoluzioni più o meno
cruente, ma
considerando
il fenomeno nei suoi termini complessivi può dirsi che, nel giro di circa
due secoli,
la maggior parte degli ordinamenti costituzionali europei passarono, da una
forma
di governo qualificabile, come monarchia assoluta o come monarchia
costituzionale, ad una forma di governo qualificabile come monarchia o
repubblica parlamentare, nell'ambito della quale il corpo elettorale si
presentava
come il titolare della "sovranità popolare" e una o più assemblee elettive
operavano come una sorta di filtro fra i cittadini e il Governo, titolare
del potere
esecutivo e spesso anche delle superstiti prerogative del capo dello stato,
monarchico o repubblicano che fosse. Nonostante l'enunciazione del principio
della separazione dei poteri come condizione necessaria del
"costituzionalismo"
espressa nell'art.16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, sopra
ricordato, il
potere giudiziario, per contro, era ovunque subordinato alla "legge" e,
talora,
anche alle direttive dell'esecutivo ed il controllo di costituzionalità
delle leggi era
generalmente escluso.
Anche nel caso inglese, nell'ambito del quale i precedenti giudiziari erano
- e sono - riconosciuti ufficialmente come una fonte del diritto, posta
sullo stesso
piano degli statutes approvati dalle Camera e sanzionati dal Monarca, e il
potere
giudiziario ha una posizione di grande rilievo, si parla di parliamentary
sovereignity e si nega ai giudici ogni potere di controllare la
costituzionalità delle
leggi (solo l'European Communities Act del 1972 e 1'Human Rights Act del
1998
hanno modificato questa situazione, ma lo hanno fatto soltanto sotto
particolari
profili).
Parallelo a questa evoluzione della forma di governo fu l'ampliamento del
suffragio elettorale, per effetto del quale, a partire da un momento
mediamente
collocato fra gli ultimi anni del XIX secolo e la prima metà del XX, le
corrispondenti funzioni cessarono di essere riservate ad una ristretta élite
per
divenire proprie delle masse, delle quali facevano parte una maggioranza di
cittadini
particolarmente soggetti all'influenza di eventuali campagne
propagandistiche
fondate sulla demagogia. E l'avvento di mezzi tecnici come la radio e, più
tardi, la
televisione ingigantì ovviamente le opportunità di questo tipo di influenze.
Questa evoluzione fece sì che, nella prima metà del XX secolo, si avessero
una
serie di casi di conquista del potere da parte di personaggi che, dopo avere
vinto
competizioni elettorali svoltesi in modo almeno parzialmente rispettoso
delle
regole della democrazia liberale, modificarono l'ordinamento costituzionale
del
paese, dando vita a regimi di tipo autoritario, alcuni dei quali risultarono
particolarmente pericolosi per l'umanità intera ed in ogni caso molto
dannosi per i
loro popoli. Queste vicende suscitarono viva preoccupazione e furono cercate
soluzioni teoricamente capaci di difendere la democrazia liberale contro
questo
tipo di movimenti sovversivi.
Conseguenza di queste esperienze fu che, nelle costituzioni del secondo
dopoguerra, soprattutto nei paesi che avevano subito regimi dittatoriali,
venne
adottato il principio di rigidità della costituzione ed il controllo di
costituzionalità
delle leggi e fu valorizzata l'indipendenza del potere giudiziario,
cercandosi di
bilanciare così il principio democratico con il principio di legalità. Donde
l'accresciuto ruolo delle istituzioni giudiziarie, cui successivamente
spesso
vennero affiancate anche alcune autorità amministrative indipendenti,
mediante le
quali si cercava di ottenere risultati analoghi indipendentemente dal
ricorso alla
tecnica del processo.
Un'evoluzione di questo tipo si è avuta anche in Italia, dove la
Costituzione del 1947 fu prevista come costituzione rigida e garantita
mediante il
controllo di costituzionalità delle leggi e dove l'indipendenza della
Magistratura fu
potenziata come già vi ho detto. Queste misure, tuttavia, furono commisurate
ad
un'organizzazione della forma di governo fondata sull'impiego della
rappresentanza proporzionale e sulla presenza di partiti di massa nei quali
i
cittadini si aggregassero in base alle loro tendenze ideologiche. L'adozione
di
sistemi elettorali di tipo maggioritario, avvenuta nel 1993 senza alcuna
correzione
delle maggioranze richieste per le revisioni costituzionali, e l'evoluzione
dei partiti
politici, che ha grandemente ridotto il carattere democratico della loro
organizzazione interna, ha tuttavia reso insufficienti le garanzie
costituzionali,
rendendo facile il loro superamento, e questo problema sussiste soprattutto
per
quanto riguarda le prospettive di revisione dalla Costituzione e per quanto
riguarda
le minacce di modifica dell'ordinamento della Corte costituzionale, che si
sono
manifestate già in passato e che tuttora sono all'orizzonte.
Le minacce all'indipendenza della Magistratura segnalate in questa relazione
hanno avuto una storia particolare, essendo il frutto della strategia
processuale ed
extraprocessuale del tutto atipica che è stata seguita da un imputato il
quale
presentava la particolarità di potersi avvalere del controllo dei mass media
in una
misura quale, in regime democratico, raramente è stata conseguita anche da
soggetti politici investiti di funzioni di governo, oltre che di poter
investire nella
propria difesa somme di denaro praticamente illimitate. Questa strategia lo
ha
condotto, non solo ad assoldare, direttamente o indirettamente, gran parte
degli
avvocati, dei giornalisti e degli altri professionisti del paese, mediante
la cui opera
sottopone a pressioni inusitate i magistrati che dovevano giudicare dei
reati a lui
imputati. Oltre a ciò, gli è stato possibile unire, ad un fuoco permanente
di
eccezioni procedurali tendenti quanto meno a ritardare il corso delle
procedure,
una sistematica pressione determinata da accuse di ogni genere formulate nei
confronti di tutti quei magistrati che non accogliessero le richieste dei
suoi
difensori, in istanze di ricusazione o di rimessione ed altre sedi e, al di
fuori del processo, nell'organizzazione di programmi televisivi e
collaborazione
giornalistiche mediante le quali quegli stessi magistrati venivano
sistematicamente
ricoperti di ingiurie, di commenti diffamatori e di vessazioni di ogni
genere.
Il risultato che questa campagna ha conseguito è stato di convincere una
parte
non piccola dei cittadini italiani che tutti i numerosissimi magistrati,
italiani e
stranieri, che hanno condotto inchieste o procedimenti giudiziari nei
confronti del
nostro personaggio sono complici di un complotto tendente a danneggiarlo e
che
tali attività sono state condotte per incarico di alcuni partiti politici,
per lo più
genericamente indicati come "comunisti". Da ultimo, poi, come ho già
ricordato,
le accuse di questo genere sono state estese all'intera magistratura
italiana ed
anche a quelle di altri paesi. Per quanto queste tesi appaiano del tutto
risibili, esse
sono state sostenute da uomini politici, avvocati e giornalisti, alcuni dei
quali
dotati di una certa reputazione, e vengono presentate ormai ai lettori dei
giornali
ed agli ascoltatori della radio e della televisione come delle ovvietà su
cui non è
nemmeno il caso di discutere, per cui non può sorprendere che molti diano ad
esse
un certo credito.
Alle iniziative attuate da suoi avvocati, dai suoi giornalisti o da altri
suoi
collaboratori di varia qualificazione, si sono aggiunti poi, una volta che
lo stesso
imputato - come già si è visto - ha potuto assumere cariche politiche, gli
interventi
sistematicamente posti in essere da alcuni ministri della giustizia a lui
devoti per
interferire a suo vantaggio nei processi in corso mediante inchieste
disposte nei
confronti degli uffici giudiziari ove essi si svolgevano o mediante
provvedimenti
relativi a trasferimenti di magistrati e, successivamente, quando - dopo il
2001 -
egli ha potuto dispone anche di una compatta maggioranza parlamentare
disposta a
seguirlo su un terreno di questo genere, si sono avute modificazioni della
stessa
legislazione vigente tendenti ad alterare, con
effetto sui processi in corso, sia la configurazione dei reati a lui
ascritti,
depenalizzandoli o comunque attenuandone il regime punitivo, sia le norme
processuali applicabili, sia per rendere inutilizzabili prove raccolte, sia
per rendere
possibili modificazioni di competenza, sia per impone nuovi adempimenti
processuali che comportassero ritardi o possibili causa di nullità.
Non può sorprendere che questa enorme mobilitazione di forze gli abbia
consentito di paralizzare tutto un complesso di accuse a fondamento delle
quali
erano state raccolte prove non indifferenti e che i processi che è stato
possibile
iniziare si siano risolti quasi tutti con dichiarazioni di prescrizione del
reato o con
assoluzioni (non fondate peraltro sull'inesistenza del fatto-reato, ma sull'
avvenuta
depenalizzazione di esso, oppure perché un'altra persona se ne dichiarata
autore
esclusivo o per altre simili ragioni).
Senza diffondermi oltre su questa miserevole storia, che tutti abbiamo
potuto seguire quotidianamente negli ultimi anni in quei pochi organi di
stampa
che non sono controllati dal nostro personaggio, mi limiterà a concludere
con
cinque osservazioni che questa vicenda suggerisce.
La prima osservazione riguarda il comportamento degli innumerevoli
professionisti che hanno prestato la loro opera nell'ambito di questa
campagna e
consiste nel domandarsi se sia conforme all'etica professionale che un
avvocato
svolga la sua opera a difesa di un imputato, oltre che nell'ambito dei
processi in
cui questi è parte, anche adoperandosi in qualità di parlamentare per fargli
ottenere
un'immunità oppure per far depenalizzare il reato di cui è imputato o per
modificare le procedure in modo da conseguire la prescrizione del reato. Non
mi
pare necessario diffondersi molto per dimostrare come ciò determini una
certa
confusione di moli poco compatibile con la più rigorosa deontologia
professionale
forense.
La seconda osservazione riguarda il comportamento di quanti sembrano
ritenere che non sia legittimo che i cittadini valutino la moralità di un
personaggio
politico sulla base delle informazioni che sia stato possibile acquisire e
che
presentino un ragionevole grado di certezza, quando tali informazioni
riguardino
imputazioni penali, trasferendo così la presunzione di non colpevolezza (che
con
riferimento al processo penale, come tutti sanno, è stabilita dall'art. 27
della
Costituzione) dal processo penale stesso a qualunque altra situazione che
comporti
una valutazione della moralità di un candidato ad un' elezione, o di un
soggetto la
cui personalità debba essere valutata per qualsiasi altro motivo (ad
esempio, anche
ai fini di un semplice invito a pranzo da parte di un privato). Se un'
imputazione
non potrà essere mai valutata del giudice, ad esempio per un qualunque
motivo di
ordine processuale, verrà definitivamente meno anche la possibilità di
tenere conto
delle informazioni che l'opinione pubblica ha legittimamente acquisito ai
fini di
qualunque giudizio sulla moralità di una persona che sia doveroso compiere
in
sede elettorale o in qualunque altra circostanza? Analoghe considerazioni
valgono
per l'accettazione dei proscioglimenti per prescrizione o per amnistia: un
ladruncolo o un piccolo truffatore ben possono trovare in misure di questo
genere
la soluzione pratica per risolvere i loro problemi con la Giustizia. Ma un
uomo
politico che deve conquistarsi la fiducia degli elettori può farlo?
La terza osservazione riguarda le accuse di politicizzazione che sono state
sistematicamente rivolte a tutti i magistrati che si sono occupati del
nostro
personaggio e che non hanno accolto tutte le richieste dei suoi difensori.
Queste
accuse sono state spesso formulate in modo generico, quasi che qualunque
magistrato il quale, occupandosi di un uomo politico, non accolga le
richieste dei
suoi difensori debba automaticamente ritenersi che lo faccia per combatterlo
politicamente anziché, come normalmente avviene, perché ritiene che
sussistano i presupposti di fatto e di diritto per non accoglierle. Ma non
sarebbe il
caso di cercare di stabilire quali siano i criteri che consentano di parlare
di
"politicizzazione" di un magistrato? Come è stato molte volte dimostrato,
non è
possibile né opportuno che un cittadino, per il semplice fatto di rivestire
l'ufficio
di magistrato cessi di riflettere sui problemi del proprio paese ed in
genere su
qualunque problema che possa costituire oggetto di una valutazione
qualificabile
come politica. Tutto quello che si può pretendere è che il magistrato non si
faccia
influenzare dalle proprie idee politiche fino al punto da adottare
provvedimenti
infondati perché faziosi e che osservi un certo riserbo, nell'esercizio
delle sue
funzioni e fuori. Ma la grande maggioranza dei magistrati che sono
comunemente
accusati di politicizzazione rispettano perfettamente queste condizioni.
Mentre
invece ci sono magistrati che legittimamente si candidano a cariche
politiche,
anche per il partito del presidente del consiglio, e che occupano cariche
politiche,
senza che ciò dia luogo ad alcuna obiezione. Viene fatto di domandarsi se
non si
dovrebbe pretendere una qualche maggiore coerenza.
Una quarta osservazione riguarda il rifiuto di rispondere che il nostro
personaggio ha opposto ai giudici che lo interrogavano sulla origini delle
sue
ricchezze. Anche a questo proposito, nessuno può mettere m dubbio il diritto
dell'imputato a non rispondere a domande che potrebbero nuocere alla sua
difesa.
Come dice il detto latino, nemo tenetur se detegere e il 5° emendamento
della
Costituzione degli Stati uniti ha costituzionalizzato questo diritto dell'
imputato.
Ma proprio la storia americana ci mostra come questo diritto non possa
essere
esercitato da un uomo politico cui siano rivolte accuse di mancanza di
moralità
senza che egli perda la faccia dinanzi ai suoi elettori. E del resto anche
Gorbaciov
fece della glasnost uno dei pilastri della sua politica di rinnovamento con
risultati
di importanza storica. Forse che dobbiamo
ritenere che in Italia, invece, la qualità di imputato permanente consenta
ad un
uomo politico di sottrarsi indefinitamente alle domande degli elettori?
L'ultima osservazione che vorrei proporvi, a conclusione di queste
considerazioni, riguarda il rispetto della verità, al quale gli studiosi - e
i soci di
questa Accademia in particolare - sono particolarmente sensibili, perché
proprio a
stabilire l'esatta consistenza di certi comportamenti umani o di certi
eventi naturali
essi dedicano tutta la loro esistenza. Come deve valutare uno studioso
affermazioni come quelle secondo cui i magistrati svizzeri o i componenti
delle
Sezioni unite della Corte di cassazione italiana complottano contro il
nostro
personaggio perché subornati dai comunisti redivivi? Sarei curioso di
sentire quale
impressione facciano affermazioni di questo genere, buttate là senza che sia
indicato neppure un cenno di dimostrazione del loro fondamento, su persone
come
voi che hanno passato tutta la loro vita a dimostrare la verità o la falsità
di fatti
storici o la razionalità di determinate argomentazioni per puro amore della
verità,
senza lasciarsi condizionare da secondi fini di alcun tipo. Indubbiamente,
certe
forme di assuefazione alla menzogna sono proprie, ad esempio, di chi si
occupa di
pubblicità commerciale, perché ai fini della pubblicità non ha alcuna
importanza
che il messaggio proposto ai telespettatori o ai lettori della carta
stampata sia vero
o falso, dato che quello che conta è soltanto che serva ad imprimere nella
memoria
del consumatore il nome di un certo prodotto. Anche da un uomo politico si
può
accettare la promessa di ridurre le imposte, o di assicurare una casa a
tutti, perché
vi è un uso in questo senso. Ma è ammissibile che un presidente del
consiglio di
uno stato moderno racconti ai cittadini che la magistratura del suo paese è
un
cancro da estirpare, adducendo come unica prova di ciò il fatto che alcuni
magistrati si sforzano di applicare la legge nei suoi confronti nello stesso
modo in
cui abitualmente lo fanno nei confronti di tutti gli altri?