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giudici e costituzione
- Subject: giudici e costituzione
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 2 Jan 2004 18:36:50 +0100
ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI Convegno su: Lo stato della Costituzione italiana e l'avvio della Costituzione europea - 14-15 luglio 2003 Alessandro Pizzorusso Giustizia e giudici 1. - Fra le norme della Costituzione italiana che più spesso sono state chiamate in causa nell'ambito della crisi costituzionale alla cui analisi questo convegno è dedicato, i principi e le regole che essa dedica all'ordinamento giudiziario ed al diritto processuale sono certamente quelle che hanno sofferto gli attacchi più violenti. E se fin qui esse non hanno subito modificazioni esplicite se non quella dell'art. 111 (il quale peraltro non si pone in contrasto con i principi già espressi dalla Costituzione, ma piuttosto li sviluppa), le aperte contestazioni di cui tali principi hanno costituito oggetto da parte dei più autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare attualmente in carica lasciano pensare che difficilmente esse potranno essere difese fino alla fine della legislatura in corso, specialmente ove si cerchi di rovesciarli non tanto mediante procedure di revisione quanto con leggi ordinarie o puramente in via di fatto. La Costituzione si occupa di queste materie nell'intero titolo quarto della seconda parte, oltre che in varie disposizioni sparse nella prima parte, ponendo così un complesso di principi e di regole mediante le quali i costituenti si erano proposti, non solo di pone le basi di una radicale inversione di tendenza rispetto alla fase anteriore durante la quale il regime fascista aveva accentuato oltre ogni limite il carattere autoritario ed illiberale dello Stato, ma anche di determinare consistenti progressi rispetto al livello di attuazione del principio di legalità che era stato raggiunto nella prima fase postunitaria. Al centro di questo complesso di principi sta l'affermazione dell'indipendenza della Magistratura, che trova il suo cardine nel trasferimento dal Ministro della Giustizia ad un rinnovato Consiglio superiore della Magistratura di quelle funzioni di gestione del personale giudiziario nelle quali Piero Calamandrei aveva indicato la principale fonte degli inconvenienti riscontrati in passato.1 L'attuazione delle norme costituzionali relative a questa materia aveva incontrato una serie di difficoltà che, nel corso di vari decenni trascorsi dall'entrata in vigore della Costituzione fino agli anni '80, erano state gradualmente superate, senza tuttavia che si fosse pervenuti alla redazione di nuovi testi legislativi dotati di una adeguata organicità. Lo stesso codice di procedura penale del 1988, che costituisce il testo più ambizioso che si sia riusciti ad adottare in questo periodo, ha dato luogo a non poche incertezze, mentre non è stata mai neppure tentata la redazione di una nuova legge generale sull'ordinamento giudiziario, nonostante che la Costituzione esplicitamente la prescrivesse in una sua disposizione transitoria. Ciò nonostante, all'inizio degli anni '90, il movimento culturale che rivendicava la piena attuazione del principi costituzionali in tema di indipendenza della Magistratura aveva ormai conquistato molte posizioni, tanto che si poteva cominciare a pensare ad un generale riassetto della legislazione che portasse la Giustizia italiana ad un livello d'indipendenza paragonabile ai celebri modelli anglosassoni e si cominciava a parlare del "modello italiano" di ordinamento giudiziario come del principale punto di riferimento per le riforme progettate nei paesi dell'Europa orientale e dell'America latina che avevano recentemente recuperato maggiori spazi di libertà. Il sostanziale fallimento dell'offensiva scatenata in quegli anni da importanti esponenti della politica contro i magistrati che si erano messi in vista per la loro indipendenza e contro il Consiglio superiore della Magistratura che li aveva difesi aveva dimostrato infatti come i risultati raggiunti fossero ormai abbastanza consolidati, anche se ai progressi compiuti sotto questo profilo non aveva corrisposto un generale miglioramento dell'efficienza delle nostre istituzioni giudiziarie, nei confronti delle quali le forze politiche e gli organi legislativi e di governo avevano tenuto quasi sempre un atteggiamento di sostanziale incuria, se non addirittura di latente ostruzionismo, come era dimostrato in particolare dalla mancata realizzazione di istituzioni per la formazione professionale dei magistrati paragonabili a quelle che esistono ormai in tutti i paesi di analogo livello di sviluppo e dal carattere quasi esclusivamente demagogico di gran parte dei provvedimenti che in materia di Giustizia venivano presi dal Parlamento o dal Governo, quasi sempre soltanto al fine di dare l'impressione di saper rispondere alle vicende segnalate dalla cronaca che maggiormente colpivano l'opinione pubblica. Era naturale che, a mano a mano che venivano meno gli strumenti che in passato, legalmente o illegalmente, avevano quasi sempre impedito l' esercizio del controllo giudiziario sui reati dei potenti, le inchieste relative a questo genere di attività si facessero più frequenti e nel 1992 ciò avvenne con caratteri di particolare intensità. Bisogna dire, però, a correzione di una opinione assai diffusa ma largamente infondata, che inchieste e condanne per reati di questo genere se ne erano avute non poche anche negli anni precedenti, da quelle relative alla vicenda dell'Istituto Nazionale per la Gestione delle Imposte di Consumo, che risale addirittura agli anni '50, a quella sullo "scandalo dei petroli", che aveva costituito il pretesto per l'introduzione del finanziamento pubblico dei partiti nel 1974, all'affare Lockheed e a molti altri. Negli anni '90, la possibilità che si avessero più frequenti iniziative di questo genere era aumentata, non soltanto per il rafforzamento delle garanzie di indipendenza derivanti dalla progressiva assunzione del proprio molo ad opera del Consiglio superiore della Magistratura, ma anche per le esperienze compiute da molti magistrati inquirenti nell' ambito dei processi di concernenti la criminalità organizzata ed in quelle relativi al terrorismo, le quali avevano consentito una migliore organizzazione di alcune Procure della Repubblica e degli organi di polizia che collaborano con esse. Ed un importante contributo in questa direzione era venuto anche dal codice di procedura penale del 1988, che aveva reso più concreta la dipendenza della polizia giudiziaria dalle procure e che aveva per contro eliminato quasi completamente la gerarchizzazione degli uffici di procura che in passato era stata spesso utilizzata dal potere politico per frenare iniziative di questo genere. E' inoltre da riaffermare, contrariamente a quanto viene sostenuto da una tambureggiante propaganda, che le inchieste giudiziarie iniziate nel 1992, valutate nel loro complesso, non possono essere considerate come un anomalia e che se di anomalia può correttamente parlarsi è piuttosto con riferimento al livello assunto nel nostro paese dalla corruzione e dal malaffare. Cosicché, ove si tenga conto dello stato delle cose che si era venuto a realizzare e che fu attestato fra gli altri da un memorabile discorso del senatore Agnelli, non può sorprendere nessuno che taluno degli uffici giudiziari specificamente preposti alla persecuzione dei reati si adoperasse per contrastare questo stato di cose, così come negli anni precedenti alcune procure si erano coraggiosamente impegnate con risultati importanti nella persecuzione dei reati di terrorismo e di quelli di mafia, nonostante i pesanti costi che ne erano derivati anche in termini di vite umane. Qui non interessa stabilire se nel corso di tali inchieste siano stati compiuti errori o eccessi come possono aversene in qualunque altra procedura giudiziaria e se le decisioni prese meritino commenti maggiormente favorevoli o maggiormente sfavorevoli di altre; quello che conta è che nulla induce a ritenere che esse siano state frutto di influenze esterne, o comunque tali da alterare il normale corso delle procedure in questione. Tutte le numerosissime denunce presentate e tutte le inchieste svolte nei confronti dei magistrati che le hanno condotte, del resto, nonostante l'anormale impulso ad esse date da alcuni ministri della giustizia la cui mancanza di imparzialità è apparsa di clamorosa evidenza, sono rimaste senza esito alcuno. La principale anomalia che si è avuta in questo periodo è stata rappresentata dalla linea di condotta che è stata seguita dalla difesa di un determinato imputato, un imprenditore milanese il quale, essendo stato incriminato per una lunga serie di reati comuni - sottolineo, comuni, non politici - i quali riguardavano molti episodi di corruzione di funzionari pubblici (fra cui alcuni magistrati che occupavano posizioni di grande rilievo nel sistema giudiziario italiano), reati societari e altre violazioni di legge di vario genere2, organizzò la sua difesa in modo assolutamente originale. Egli infatti non si limitò ad assumere squadre di avvocati che assicurassero la difesa tecnica nell'ambito delle varie inchieste e dei numerosi procedimenti penali che ne seguirono, ma procedette anche ad una imponente serie di attività stragiudiziali, le quali finirono per esercitare un molo decisivo al fine di assicurargli assoluzioni, dichiarazioni di improcedibilità per prescrizione o per altri motivi, oppure, quanto meno, con uno jus singulare, lo sospensione dei procedimenti sine die. Queste attività consistettero principalmente nell'impiego sistematico dei mass media di sua proprietà (e di altri che per motivi diversi si uniscono ai suoi nell'assolvimento di questo compito) per accusare di parzialità e di "politicizzazione" tutti i magistrati che, avendo dovuto occuparsi di lui per ragione del proprio ufficio, hanno adottato decisioni non conformi alla richieste della difesa e comunque per orientare l'opinione pubblica in senso favorevole a lui e sfavorevole ai magistrati ed all'intero potere giudiziario. Nel 1993, inoltre, egli procedette alla costituzione di un partito politico, gestito più come un' azienda che come un'associazione, ma comunque capace di raccogliere sotto le sue bandiere parecchi personaggi atipici, aventi in comune l'orientamento anti-politico, i quali in precedenza erano rimasti emarginati, anche se per ragioni diverse, e ciò gli consentì di conquistare la maggioranza parlamentare e di assumere ruoli di guida del Governo italiano (ed ora persino dell'Unione europea), dei quali si avvalse pesantemente per influire in senso a lui favorevole sui processi in corso mediante provvedimenti legislativi e amministrativi, oltre che mediante una costante pressione propagandistica tendente a presentare sé stesso come una vittima di un'organizzazione politica a lui avversa alla quale sarebbero affiliati, non solo gran parte dei magistrati italiani, ma anche magistrati stranieri ed in genere tutti coloro che in un modo o in un altro omettono di favorire i suoi interessi processuali, commerciali o politici. Fra le innumerevoli dichiarazioni rese da questo imputato basterà ricordare a titolo di esempio come, intervistato dai giornalisti nella sua qualità di presidente del consiglio italiano a proposito di una legge che la sua maggioranza parlamentare aveva approvato per cercare di far dichiarare processualmente inutilizzabili taluni documenti che le autorità italiane avevano ottenuto, per rogatoria, dalle autorità giudiziarie svizzere, non si peritò di qualificare tali documenti come "prove false", affermando così implicitamente - senza neppure addurre alcun elemento di prova a sostegno - che i magistrati svizzeri avrebbero falsificato quei documenti per danneggiarlo! Per quanto riguarda i magistrati italiani, d'altronde, basterà ricordare come egli abbia recentemente qualificato la Magistratura nel suo complesso come un ''cancro" da cui il paese dovrebbe liberarsi. Quanto poi ai "suoi" ministri non si può non ricordare almeno come il Ministro per la riforme, nel pronunciarsi contro le proposte di sviluppare la collaborazione europea nel campo della giustizia, abbia qualificato l'Unione europea come "Forcolandia" e come il Ministro delle infrastrutture - senza venir contraddetto - abbia definito la mafia come una realtà con la quale bisogna imparare a convivere. Questa vicenda - per quanto incredibile essa possa apparire - ha fatto sì che il nostro personaggio abbia potuto fin qui evitare ogni condanna definitiva, anche se raramente ha ottenuto pronunce le quali escludessero che il fatto illecito fosse realmente avvenuto. In molti casi, infatti, egli è stato prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione (alla quale egli non ha mai rinunciato, come la legge consente e come fanno coloro che aspirano ad ottenere il riconoscimento della loro innocenza), oppure perché è stato escluso che egli avesse personalmente partecipato alla commissione del reato (del quale si sono dichiarati autori suoi collaboratori, che avrebbero quindi agito a suo vantaggio ma a sua insaputa o contro la sua volontà), oppure perché il processo è stato sospeso grazie ad una legge ad hoc fino a quando egli rivesta la carica di presidente del consiglio (su questo punto peraltro è stata sollevata una questione di costituzionalità sulla quale dovrà decidere la Corte costituzionale). Pare indiscutibile che questa incredibile vicenda rappresenta la più vistosa violazione che i principi stabiliti dalla Costituzione italiana abbiano subito in questi ultimi anni ed una delle più singolari che si siano mai verificate nella storia costituzionale di tutti i popoli. Per illustrare i problemi che essa ha fatto sorgere, e tuttavia necessario riassumere, sia pur sinteticamente, gli immediati antefatti della situazione attuale. Al momento dell'unificazione politica dell'Italia, venne esteso all' intero territorio nazionale l'ordinamento giudiziario che era stato adottato qualche anno prima in Piemonte e che risultava dalla recezione del sistema vigente in Francia ed avente il suo testo principale nella legge napoleonica del 1810. Questa legge aveva concluso una serie di tempestose riforme iniziate dopo la rivoluzione del 1789, a seguito della quale il sistema giudiziario esistente al tempo dell'ancien régime era stato abolito e si erano susseguite riforme di diverso orientamento, dapprima ispirate ai principi enunciati nella celebre opera di Montesquieu (come si desume tra l'altro dal richiamo alla separazione dei poteri come elemento fondamentale di qualunque ordinamento conforme ai principi del costituzionalismo liberale, che si legge nel celebre art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, adottata dall'Assemblea costituente il 26 agosto 1789), ma poi invece tendenti a realizzare la completa subordinazione dell' attività giudiziaria al controllo politico (dimostrata soprattutto dal ricorso all' istituto del reféré législatif in virtù del quale al giudice era imposto di chiedere al legislatore l'interpretazione della legge ogni qual volta essa apparisse controversa). Concepita in funzione della caratterizzazione ultra-democratica del potere politico prevalsa nella fase più estrema della Rivoluzione, questa impostazione era stata conservata anche quando l'assetto dei pubblici poteri aveva assunto una connotazione autoritaria nel periodo napoleonico e nell'età della Restaurazione. Si era venuto così consolidando un modello di ordinamento giudiziario in base al quale la Magistratura era configurata come un corpo di funzionari, assistiti bensì da talune garanzie loro specifiche, ma soggetti al Ministro della Giustizia per tutto quanto riguardava la gestione del loro rapporto d'impiego e quindi dotati di un regime di indipendenza più teorico che reale. Per il Pubblico ministero, in particolare, vigeva un vero e proprio rapporto di dipendenza gerarchica, che comportava il potere del Ministro di impartire ordini e direttive anche per quanto riguarda le funzioni inerenti all'esercizio dell'azione penale. Durante la fase che va dall'unificazione all'avvento del fascismo, il sistema adottato, seguendo questo modello, con la prima legge italiana di ordinamento giudiziario (che è del 1865) costituì oggetto di critica da parte di un movimento di opinione il quale si ispirava, oltre che al pensiero originario dell' Illuminismo, agli esempi anglosassoni, nell'ambito dei quali l'indipendenza del giudice era considerata come un principio fondamentale dell' ordinamento costituzionale. Esponenti di spicco di questo movimento di pensiero furono sopratutto Lodovico Mortara e Piero Calamandrei: il primo, in alcuni scritti pubblicati tra la fine del XIX ed i primi anni del XIX secolo, segnalò le condizioni di depressione culturale e di dipendenza funzionale in cui operavano i magistrati italiani3 il secondo, in un suo celebre discorso, tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università di Siena il 13 novembre 19214, illustrò le ragioni della subordinazione dei magistrati nei confronti del potere politico e della stessa burocrazia, ragioni che egli individuò principalmente nella gestione, da parte del Ministero, della carriera dei magistrati. Va ricordata altresì la costituzione, avvenuta nel 1907, dell'Associazione Nazionale dei Magistrati italiani, sulla base di un programma ispirato ad analoghi presupposti. Sul piano legislativo le riforme conseguite in questo periodo dal movimento per l'indipendenza della Magistratura furono assai limitate: le più importanti riguardarono l'introduzione del concorso per esami come unico metodo di selezione iniziale, che risale a una legge Zanardelli del 1890, e la previsione di forme di consultazione di organi composti di magistrati in vista di taluni provvedimenti relativi alla carriera dei magistrati stessi, dovuti a una serie di provvedimenti culminati in una legge Orlando del 1907, istitutiva di un primo Consiglio superiore della Magistratura. Queste riforme, tuttavia, non scalfirono, né la struttura gerarchica del corpo, né il cordone ombelicale che lo legava al potere politico, particolarmente in virtù del collegamento assai stretto esistente fra il Ministero della Giustizia e la Corte di cassazione, la quale a sua volta esercitava la sua egemonia sull'intero corpo, sia attraverso il controllo delle sentenze, sia - e soprattutto - attraverso la gestione dei concorsi che condizionavano la carriera dei magistrati. La dimostrazione di ciò fu offerta dal fatto che il regime fascista non ebbe bisogno. di introdurre contro-riforme di particolare rilievo per esercitare i poteri autoritari di cui si era appropriato; le leggi di ordinamento giudiziario del 1923 e del 1941, che sostituirono quella del 1865, si limitarono ad eliminare alcune delle riforme del periodo precedente, senza necessità di sconvolgere un sistema che ben si adattava alle esigenze della dittatura. Lo scioglimento dell'Associazione nazionale dei magistrati italiani fu uno dei provvedimenti di questo genere, ma esso fu determinato più dalla generale impostazione repressiva del regime, che non da finalità specificamente riferibili ai problemi della Giustizia. All'indomani della liberazione del paese dal nazifascismo, il cammino delle riforme tendenti a realizzare l'indipendenza della Magistratura poté riprendere e due tappe fondamentali di esso furono la legge "sulle guarentigie della Magistratura" del 1946, che eliminò il rapporto di dipendenza gerarchica che legava gli organi del pubblico ministero al Ministro della Giustizia, e la Costituzione del 1947, che adottò molte importanti novità, la più importante delle quali fu l'attribuzione delle funzioni relative allo stato giuridico dei magistrati ad un organo indipendente dal potere politico e composto in maggioranza di magistrati eletti da tutti i magistrati, cioè ad un Consiglio superiore della Magistratura rinnovato nei suoi poteri e nella sua composizione. L'attuazione di questi principi trovò forti resistenze cui, in un primo tempo, non furono estranei i magistrati più anziani, la cui formazione culturale, in molti casi almeno, era quella ispirata agli orientamenti dominanti durante i precedenti regimi. Il progressivo ricambio generazionale comportò però la progressiva diffusione dei principi costituzionali ed una larga adesione ad essi da parte degli operatori, per cui la figura del giudice (e del pubblico ministero) concretamente attuata venne progressivamente avvicinandosi a quella configurata da tali principi. Alla base di questo processo riformatore fu tuttavia, soprattutto, l'opera di riflessione teorica che fu svolta da un cospicuo numero di giuristi, magistrati, avvocati e studiosi, nell'ambito di talune organizzazioni culturali, nelle università e nella stessa Associazione Nazionale Magistrati. Questa riflessione teorica portò all'adozione di soluzioni nuove, sia mediante riforme legislative, sia attraverso l'elaborazione giurisprudenziale, sia attraverso l'opera del Consiglio Superiore della Magistratura. Il risultato di questa maturazione culturale fu che fra il 1960 ed il 1990 circa l'ordinamento giudiziario italiano venne progressivamente differenziandosi dal modello napoleonico ed avvicinandosi invece - nei risultati, se non nei metodi - ai modelli anglosassoni. In estrema sintesi può dirsi che al termine di questa fase i magistrati italiani - giudici e pubblici ministeri -acquisirono la consapevolezza che era ormai praticamente possibile esercitare le loro funzioni in modo indipendente, così come la Costituzione e la legge del 1946 avevano enunciato teoricamente: farlo o meno dipendeva ormai soltanto dalla loro coscienza. I risultati così raggiunti non erano certamente sufficienti a realizzare una giustizia efficiente, ma rappresentavano un presupposto essenziale perché un tale traguardo potesse venir raggiunto il giorno cui le forze politiche del paese fossero disposte ad impegnarsi a tal fine. A questo punto infatti sarebbe stato necessario concludere la lunga fase dell'attuazione dei principi costituzionali elaborando una legislazione ordinaria che integrasse e sviluppasse tali principi, ma così non è stato. La legge sull'ordinamento giudiziario richiesta dalla VII disposizione transitoria della Costituzione non ha mai visto la luce, cosicché sono ancora in vigore molte parti e l'intelaiatura generale di quella del 1941, alla quale sono state apportate modifiche mediante innumerevoli provvedimenti peraltro spesso ispirati a logiche del tutto scoordinate tra loro. Il Consiglio Superiore della Magistratura si è sforzato di rendere meno disomogeneo possibile questo coacervo di regole mediante proprie delibere, le quali peraltro non possono spingersi oltre la funzione che è loro propria e che consiste nel suggerire interpretazioni le quali consentano di superare le antinomie e di colmare le lacune. Sicché provvedimenti ispirati ai principi costituzionali coesistono con un quadro generale ispirato ai canoni stabiliti dalla legge napoleonica del 1810. Né migliore è la situazione per quanto riguarda i codici di procedura, dei quali quello penale, rinnovato nel 1988, ha subito già numerosissime modifiche ispirate a visioni contrastanti, mentre per certi versi claudicante appare altresì l'assetto del processo civile, più volte riformato, ma sempre in modo parziale per far fronte ad esigenze contingenti. Invece, l'intero campo della legislazione giudiziaria è sconvolto dalle polemiche determinate dalle vicende che già ho ricordato le quali vedono il presidente del consiglio e i suoi collaboratori accusare la Magistratura di costituire un "cancro" del paese e propone riforme costituzionali o legislative tendenti a ripristinare l'assetto esistente prima della Costituzione. Una prima modifica di questo tipo è già stata adottata con la legge di riforma dell'ordinamento del Consiglio superiore approvata nel 2002, la quale ha determinato il numero dei consiglieri eletti dal Parlamento la cui presenza è necessaria per la validità delle sedute del Consiglio in modo tale che è sufficiente che quattro di essi si assentino perché si determini l'invalidità della seduta e quindi venga bloccato il funzionamento del Consiglio. E dato che una convenzione parlamentare assegna alla maggioranza cinque degli otto posti destinati ai "laici" e che in regime di partito-azienda tra il leader della maggioranza parlamentare e i "suoi" membri del Consiglio sussiste un vincolo assai stretto, la minaccia è molto più reale di quanto fosse in passato, quando i partiti riconoscevano una certa autonomia agli eletti al Consiglio su loro designazione. Questa modifica è stata approvata con legge ordinaria, ma è evidente che la sua portata pratica è quella di ridimensionare non di poco la norma costituzionale che assegna al Consiglio le sue funzioni, subordinandone l'esercizio ad una sorta di tacito nulla-osta del leader della maggioranza parlamentare. Trattandosi d'altronde di una norma di procedura relativa al funzionamento di un organo giudiziario, ma non giurisdizionale, è estremamente difficile che essa possa venir sottoposta al sindacato di costituzionalità, che richiede l'applicazione giurisdizionale della norma da rimettere al controllo della Corte costituzionale. Progetti ancor più gravi sono stati inoltre annunciati negli ultimi mesi. Se venissero approvati, essi ripristinerebbero il tipo di gestione del personale giudiziario che esisteva prima che i principi costituzionali cominciassero a ricevere attuazione, riorganizzando la carriera dei magistrati sulla base di una lunga serie di concorsi cui sovrintenderebbe la Corte di cassazione, e restituirebbero a questa la funzione di organo di collegamento col Ministero per assicurare quel tipo di controllo latente che essa svolgeva fino a non molto tempo fa. In questo ordine di idee, verrebbe altresì istituita una "Scuola della Magistratura", ma per sottoporla, anch'essa, al controllo della Cassazione così ristrutturata. Credo che queste poche indicazioni - fra le moltissime che dovrebbero essere fornite per offrire un quadro esauriente della situazione - siano sufficienti a far comprendere in quale situazione ci troviamo. Basterà aggiungere che il Governo e la maggioranza parlamentare sembrano ritenere che modificazioni di questa portata, che sconvolgono il modello di ordinamento giudiziario adottato dalla Costituzione, possano essere adottate con legge ordinaria, realizzando così delle "modificazioni tacite" della Costituzione stessa del tipo di quelle che aveva subito, ai suoi tempi, lo Statuto albertino, che peraltro era generalmente considerato una costituzione "flessibile", cioè modificabile con legge ordinaria, non prevedendo una procedura "aggravata" per la sua revisione. Questa prospettiva dovrebbe essere considerata inammissibile, perché chiaramente contraria al diritto vigente, se in questi ultimi tempi modificazioni tacite di questo genere non fossero state realizzate sempre più frequentemente, in questa ed in altre materie, come è stato illustrato nel corso di questo convegno. Se guardiamo ai problemi giudiziari in una prospettiva non esclusivamente italiana, dobbiamo interrogarci piuttosto sulle ragioni che in molti paesi hanno portato, specialmente nella seconda metà del XX secolo, ad accrescere il ruolo esercitato da organi giurisdizionali o comunque da organi indipendenti e delle reazioni che ciò ha determinato. Per rendersi conto di questo dato di fatto occorre riflettere sul modo in cui si è realizzato il passaggio dal tipo di forme di governo che erano proprie degli ordinamenti statali all'epoca dell'ancien régime a quello che ha caratterizzato invece il periodo, tuttora in corso, in cui gli ordinamenti stessi si sono ispirati, più o meno fedelmente, ai principi che corrispondono a definizioni del tipo di quelle dello "stato democratico", dello "stato di diritto", dello "stato sociale", ecc. A questo fine occorre menzionare innanzi tutto il caso degli Stati uniti i quali, essendosi svincolati dal rapporto di tipo coloniale che li legava alla Gran Bretagna, non ebbero necessità di fare i conti con un ancien régime e poterono adottare fin dall'inizio un assetto costituzionale ispirato ai nuovi principi. La conseguenza fu che la Costituzione del 1787 si ispirò al principio della separazione dei poteri, collocando il potere giudiziario sullo stesso piano degli altri due, e la sentenza della Corte suprema Marbury v. Madison, fin dal 1803, introdusse il controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi, sul cui1 ruolo fondamentale per la ricostruzione della forma di governo americana non è necessario insistere. I casi europei, pur presentando rilevanti differenze l'uno dall'altro, furono invece tutti caratterizzati dai contrasti che si determinarono fra gli organi che risultavano maggiormente sensibili alla necessità di trasformare l'assetto costituzionale del paese in vista del progressivo adattamento di esso ai principi propri dello stato democratico, dello stato di diritto, dello stato sociale, ecc., e quelli che invece si presentarono, almeno tendenzialmente, come gli oppositori di questa evoluzione. In alcuni paesi, come soprattutto m Gran Bretagna, le trasformazioni avvennero senza forti scosse, in altri si ebbero rivoluzioni più o meno cruente, ma considerando il fenomeno nei suoi termini complessivi può dirsi che, nel giro di circa due secoli, la maggior parte degli ordinamenti costituzionali europei passarono, da una forma di governo qualificabile, come monarchia assoluta o come monarchia costituzionale, ad una forma di governo qualificabile come monarchia o repubblica parlamentare, nell'ambito della quale il corpo elettorale si presentava come il titolare della "sovranità popolare" e una o più assemblee elettive operavano come una sorta di filtro fra i cittadini e il Governo, titolare del potere esecutivo e spesso anche delle superstiti prerogative del capo dello stato, monarchico o repubblicano che fosse. Nonostante l'enunciazione del principio della separazione dei poteri come condizione necessaria del "costituzionalismo" espressa nell'art.16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, sopra ricordato, il potere giudiziario, per contro, era ovunque subordinato alla "legge" e, talora, anche alle direttive dell'esecutivo ed il controllo di costituzionalità delle leggi era generalmente escluso. Anche nel caso inglese, nell'ambito del quale i precedenti giudiziari erano - e sono - riconosciuti ufficialmente come una fonte del diritto, posta sullo stesso piano degli statutes approvati dalle Camera e sanzionati dal Monarca, e il potere giudiziario ha una posizione di grande rilievo, si parla di parliamentary sovereignity e si nega ai giudici ogni potere di controllare la costituzionalità delle leggi (solo l'European Communities Act del 1972 e 1'Human Rights Act del 1998 hanno modificato questa situazione, ma lo hanno fatto soltanto sotto particolari profili). Parallelo a questa evoluzione della forma di governo fu l'ampliamento del suffragio elettorale, per effetto del quale, a partire da un momento mediamente collocato fra gli ultimi anni del XIX secolo e la prima metà del XX, le corrispondenti funzioni cessarono di essere riservate ad una ristretta élite per divenire proprie delle masse, delle quali facevano parte una maggioranza di cittadini particolarmente soggetti all'influenza di eventuali campagne propagandistiche fondate sulla demagogia. E l'avvento di mezzi tecnici come la radio e, più tardi, la televisione ingigantì ovviamente le opportunità di questo tipo di influenze. Questa evoluzione fece sì che, nella prima metà del XX secolo, si avessero una serie di casi di conquista del potere da parte di personaggi che, dopo avere vinto competizioni elettorali svoltesi in modo almeno parzialmente rispettoso delle regole della democrazia liberale, modificarono l'ordinamento costituzionale del paese, dando vita a regimi di tipo autoritario, alcuni dei quali risultarono particolarmente pericolosi per l'umanità intera ed in ogni caso molto dannosi per i loro popoli. Queste vicende suscitarono viva preoccupazione e furono cercate soluzioni teoricamente capaci di difendere la democrazia liberale contro questo tipo di movimenti sovversivi. Conseguenza di queste esperienze fu che, nelle costituzioni del secondo dopoguerra, soprattutto nei paesi che avevano subito regimi dittatoriali, venne adottato il principio di rigidità della costituzione ed il controllo di costituzionalità delle leggi e fu valorizzata l'indipendenza del potere giudiziario, cercandosi di bilanciare così il principio democratico con il principio di legalità. Donde l'accresciuto ruolo delle istituzioni giudiziarie, cui successivamente spesso vennero affiancate anche alcune autorità amministrative indipendenti, mediante le quali si cercava di ottenere risultati analoghi indipendentemente dal ricorso alla tecnica del processo. Un'evoluzione di questo tipo si è avuta anche in Italia, dove la Costituzione del 1947 fu prevista come costituzione rigida e garantita mediante il controllo di costituzionalità delle leggi e dove l'indipendenza della Magistratura fu potenziata come già vi ho detto. Queste misure, tuttavia, furono commisurate ad un'organizzazione della forma di governo fondata sull'impiego della rappresentanza proporzionale e sulla presenza di partiti di massa nei quali i cittadini si aggregassero in base alle loro tendenze ideologiche. L'adozione di sistemi elettorali di tipo maggioritario, avvenuta nel 1993 senza alcuna correzione delle maggioranze richieste per le revisioni costituzionali, e l'evoluzione dei partiti politici, che ha grandemente ridotto il carattere democratico della loro organizzazione interna, ha tuttavia reso insufficienti le garanzie costituzionali, rendendo facile il loro superamento, e questo problema sussiste soprattutto per quanto riguarda le prospettive di revisione dalla Costituzione e per quanto riguarda le minacce di modifica dell'ordinamento della Corte costituzionale, che si sono manifestate già in passato e che tuttora sono all'orizzonte. Le minacce all'indipendenza della Magistratura segnalate in questa relazione hanno avuto una storia particolare, essendo il frutto della strategia processuale ed extraprocessuale del tutto atipica che è stata seguita da un imputato il quale presentava la particolarità di potersi avvalere del controllo dei mass media in una misura quale, in regime democratico, raramente è stata conseguita anche da soggetti politici investiti di funzioni di governo, oltre che di poter investire nella propria difesa somme di denaro praticamente illimitate. Questa strategia lo ha condotto, non solo ad assoldare, direttamente o indirettamente, gran parte degli avvocati, dei giornalisti e degli altri professionisti del paese, mediante la cui opera sottopone a pressioni inusitate i magistrati che dovevano giudicare dei reati a lui imputati. Oltre a ciò, gli è stato possibile unire, ad un fuoco permanente di eccezioni procedurali tendenti quanto meno a ritardare il corso delle procedure, una sistematica pressione determinata da accuse di ogni genere formulate nei confronti di tutti quei magistrati che non accogliessero le richieste dei suoi difensori, in istanze di ricusazione o di rimessione ed altre sedi e, al di fuori del processo, nell'organizzazione di programmi televisivi e collaborazione giornalistiche mediante le quali quegli stessi magistrati venivano sistematicamente ricoperti di ingiurie, di commenti diffamatori e di vessazioni di ogni genere. Il risultato che questa campagna ha conseguito è stato di convincere una parte non piccola dei cittadini italiani che tutti i numerosissimi magistrati, italiani e stranieri, che hanno condotto inchieste o procedimenti giudiziari nei confronti del nostro personaggio sono complici di un complotto tendente a danneggiarlo e che tali attività sono state condotte per incarico di alcuni partiti politici, per lo più genericamente indicati come "comunisti". Da ultimo, poi, come ho già ricordato, le accuse di questo genere sono state estese all'intera magistratura italiana ed anche a quelle di altri paesi. Per quanto queste tesi appaiano del tutto risibili, esse sono state sostenute da uomini politici, avvocati e giornalisti, alcuni dei quali dotati di una certa reputazione, e vengono presentate ormai ai lettori dei giornali ed agli ascoltatori della radio e della televisione come delle ovvietà su cui non è nemmeno il caso di discutere, per cui non può sorprendere che molti diano ad esse un certo credito. Alle iniziative attuate da suoi avvocati, dai suoi giornalisti o da altri suoi collaboratori di varia qualificazione, si sono aggiunti poi, una volta che lo stesso imputato - come già si è visto - ha potuto assumere cariche politiche, gli interventi sistematicamente posti in essere da alcuni ministri della giustizia a lui devoti per interferire a suo vantaggio nei processi in corso mediante inchieste disposte nei confronti degli uffici giudiziari ove essi si svolgevano o mediante provvedimenti relativi a trasferimenti di magistrati e, successivamente, quando - dopo il 2001 - egli ha potuto dispone anche di una compatta maggioranza parlamentare disposta a seguirlo su un terreno di questo genere, si sono avute modificazioni della stessa legislazione vigente tendenti ad alterare, con effetto sui processi in corso, sia la configurazione dei reati a lui ascritti, depenalizzandoli o comunque attenuandone il regime punitivo, sia le norme processuali applicabili, sia per rendere inutilizzabili prove raccolte, sia per rendere possibili modificazioni di competenza, sia per impone nuovi adempimenti processuali che comportassero ritardi o possibili causa di nullità. Non può sorprendere che questa enorme mobilitazione di forze gli abbia consentito di paralizzare tutto un complesso di accuse a fondamento delle quali erano state raccolte prove non indifferenti e che i processi che è stato possibile iniziare si siano risolti quasi tutti con dichiarazioni di prescrizione del reato o con assoluzioni (non fondate peraltro sull'inesistenza del fatto-reato, ma sull' avvenuta depenalizzazione di esso, oppure perché un'altra persona se ne dichiarata autore esclusivo o per altre simili ragioni). Senza diffondermi oltre su questa miserevole storia, che tutti abbiamo potuto seguire quotidianamente negli ultimi anni in quei pochi organi di stampa che non sono controllati dal nostro personaggio, mi limiterà a concludere con cinque osservazioni che questa vicenda suggerisce. La prima osservazione riguarda il comportamento degli innumerevoli professionisti che hanno prestato la loro opera nell'ambito di questa campagna e consiste nel domandarsi se sia conforme all'etica professionale che un avvocato svolga la sua opera a difesa di un imputato, oltre che nell'ambito dei processi in cui questi è parte, anche adoperandosi in qualità di parlamentare per fargli ottenere un'immunità oppure per far depenalizzare il reato di cui è imputato o per modificare le procedure in modo da conseguire la prescrizione del reato. Non mi pare necessario diffondersi molto per dimostrare come ciò determini una certa confusione di moli poco compatibile con la più rigorosa deontologia professionale forense. La seconda osservazione riguarda il comportamento di quanti sembrano ritenere che non sia legittimo che i cittadini valutino la moralità di un personaggio politico sulla base delle informazioni che sia stato possibile acquisire e che presentino un ragionevole grado di certezza, quando tali informazioni riguardino imputazioni penali, trasferendo così la presunzione di non colpevolezza (che con riferimento al processo penale, come tutti sanno, è stabilita dall'art. 27 della Costituzione) dal processo penale stesso a qualunque altra situazione che comporti una valutazione della moralità di un candidato ad un' elezione, o di un soggetto la cui personalità debba essere valutata per qualsiasi altro motivo (ad esempio, anche ai fini di un semplice invito a pranzo da parte di un privato). Se un' imputazione non potrà essere mai valutata del giudice, ad esempio per un qualunque motivo di ordine processuale, verrà definitivamente meno anche la possibilità di tenere conto delle informazioni che l'opinione pubblica ha legittimamente acquisito ai fini di qualunque giudizio sulla moralità di una persona che sia doveroso compiere in sede elettorale o in qualunque altra circostanza? Analoghe considerazioni valgono per l'accettazione dei proscioglimenti per prescrizione o per amnistia: un ladruncolo o un piccolo truffatore ben possono trovare in misure di questo genere la soluzione pratica per risolvere i loro problemi con la Giustizia. Ma un uomo politico che deve conquistarsi la fiducia degli elettori può farlo? La terza osservazione riguarda le accuse di politicizzazione che sono state sistematicamente rivolte a tutti i magistrati che si sono occupati del nostro personaggio e che non hanno accolto tutte le richieste dei suoi difensori. Queste accuse sono state spesso formulate in modo generico, quasi che qualunque magistrato il quale, occupandosi di un uomo politico, non accolga le richieste dei suoi difensori debba automaticamente ritenersi che lo faccia per combatterlo politicamente anziché, come normalmente avviene, perché ritiene che sussistano i presupposti di fatto e di diritto per non accoglierle. Ma non sarebbe il caso di cercare di stabilire quali siano i criteri che consentano di parlare di "politicizzazione" di un magistrato? Come è stato molte volte dimostrato, non è possibile né opportuno che un cittadino, per il semplice fatto di rivestire l'ufficio di magistrato cessi di riflettere sui problemi del proprio paese ed in genere su qualunque problema che possa costituire oggetto di una valutazione qualificabile come politica. Tutto quello che si può pretendere è che il magistrato non si faccia influenzare dalle proprie idee politiche fino al punto da adottare provvedimenti infondati perché faziosi e che osservi un certo riserbo, nell'esercizio delle sue funzioni e fuori. Ma la grande maggioranza dei magistrati che sono comunemente accusati di politicizzazione rispettano perfettamente queste condizioni. Mentre invece ci sono magistrati che legittimamente si candidano a cariche politiche, anche per il partito del presidente del consiglio, e che occupano cariche politiche, senza che ciò dia luogo ad alcuna obiezione. Viene fatto di domandarsi se non si dovrebbe pretendere una qualche maggiore coerenza. Una quarta osservazione riguarda il rifiuto di rispondere che il nostro personaggio ha opposto ai giudici che lo interrogavano sulla origini delle sue ricchezze. Anche a questo proposito, nessuno può mettere m dubbio il diritto dell'imputato a non rispondere a domande che potrebbero nuocere alla sua difesa. Come dice il detto latino, nemo tenetur se detegere e il 5° emendamento della Costituzione degli Stati uniti ha costituzionalizzato questo diritto dell' imputato. Ma proprio la storia americana ci mostra come questo diritto non possa essere esercitato da un uomo politico cui siano rivolte accuse di mancanza di moralità senza che egli perda la faccia dinanzi ai suoi elettori. E del resto anche Gorbaciov fece della glasnost uno dei pilastri della sua politica di rinnovamento con risultati di importanza storica. Forse che dobbiamo ritenere che in Italia, invece, la qualità di imputato permanente consenta ad un uomo politico di sottrarsi indefinitamente alle domande degli elettori? L'ultima osservazione che vorrei proporvi, a conclusione di queste considerazioni, riguarda il rispetto della verità, al quale gli studiosi - e i soci di questa Accademia in particolare - sono particolarmente sensibili, perché proprio a stabilire l'esatta consistenza di certi comportamenti umani o di certi eventi naturali essi dedicano tutta la loro esistenza. Come deve valutare uno studioso affermazioni come quelle secondo cui i magistrati svizzeri o i componenti delle Sezioni unite della Corte di cassazione italiana complottano contro il nostro personaggio perché subornati dai comunisti redivivi? Sarei curioso di sentire quale impressione facciano affermazioni di questo genere, buttate là senza che sia indicato neppure un cenno di dimostrazione del loro fondamento, su persone come voi che hanno passato tutta la loro vita a dimostrare la verità o la falsità di fatti storici o la razionalità di determinate argomentazioni per puro amore della verità, senza lasciarsi condizionare da secondi fini di alcun tipo. Indubbiamente, certe forme di assuefazione alla menzogna sono proprie, ad esempio, di chi si occupa di pubblicità commerciale, perché ai fini della pubblicità non ha alcuna importanza che il messaggio proposto ai telespettatori o ai lettori della carta stampata sia vero o falso, dato che quello che conta è soltanto che serva ad imprimere nella memoria del consumatore il nome di un certo prodotto. Anche da un uomo politico si può accettare la promessa di ridurre le imposte, o di assicurare una casa a tutti, perché vi è un uso in questo senso. Ma è ammissibile che un presidente del consiglio di uno stato moderno racconti ai cittadini che la magistratura del suo paese è un cancro da estirpare, adducendo come unica prova di ciò il fatto che alcuni magistrati si sforzano di applicare la legge nei suoi confronti nello stesso modo in cui abitualmente lo fanno nei confronti di tutti gli altri?
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