grande distribuzione usa e ue



il manifesto - 28 Dicembre 2003

Wal Mart e le catene d'Europa
ANDREA ROCCO


Wal Mart e le catene d'Europa
I sindacati europei del commercio hanno già preso posizione contro il
colosso americano del commercio, che tuttavia si è già espanso alla grande e
comunque è in buona compagnia nel cercare di stracciare, insieme ai prezzi,
le protezioni sociali dei lavoratori europei

ANDREA ROCCO

«Wal-Mart? No, Grazie!». Lo scorso maggio a Stoccolma i sindacati europei
del commercio (Uni Euro Commerce) hanno approvato una risoluzione durissima
contro il colosso americano della grande distribuzione. «Il gigante del
dettaglio dell'Arkansas - vi si legge - a casa sua, negli Usa, è conosciuto
come un pessimo datore di lavoro, che ha costruito la sua competitività su
bassi salari e la negazione dei più basilari benefici per i lavoratori, e
per far questo si è impegnato in primo luogo a tenere fuori il sindacato dai
luoghi di lavoro... La Commissione Europea e le autorità anti-trust
americane dovrebbero esaminare urgentemente gli effetti provocati da
Wal-Mart sulla società, la concorrenza, i consumatori e i lavoratori.
Andrebbe analizzato se ci si trova di fronte ad una posizione dominante che
minaccia la libera concorrenza e se non ci sia la necessità di imporre il
frazionamento di Wal-Mart». Il «Gigante dell'Arkansas» ha già 95 ipermercati
in Germania, frutto di due acquisizioni, ed è la quarta catena di
ipermercati tedesca. In Gran Bretagna Wal-Mart opera attraverso la catena
Asda (265 supermercati) acquisita nel 1999, ed ha intenzione di espandersi
in altri Paesi (soprattutto a Est).

Ma non è solo Wal-Mart a tentare di scardinare il sistema di protezioni
sociali dei lavoratori europei. Corte Inglès, la più grande catena al
dettaglio iberica, nell'agosto del 2003 è stata condannata per comportamento
anti-sindacale dal tribunale di Madrid, poiché aveva licenziato due
attivisti sindacali. Corte Inglès ha creato un sindacato giallo per il
settore del commercio e lo ha «gentilmente offerto» anche alla concorrenza:
Auchan, il gruppo francese, lo ha fatto entrare nei suoi punti vendita
spagnoli, mentre ha escluso dal tavolo della trattative i delegati eletti
nelle liste della Ugt e delle Comisiones Obreras. Il colosso tedesco Metro
ha avuto invece la sua quota di guai in Turchia, dove ha tentato a più
riprese di distruggere il sindacato Tez-Koop-IS.Le pratiche anti-sindacali,
relativamente nuove in Europa occidentale, si intrecciano con le grandi
manovre tendenzialmente orientate verso una concentrazione della proprietà
su scala continentale. I supermercati e le altre strutture "self-service"
sono arrivati in Europa negli anni `60, alcuni decenni dopo la loro nascita
negli Stati uniti, alcuni fondati da americani (Selfridge's e Safeway in
Gran Bretagna). All'epoca esistevano norme che impedivano «guerre dei
prezzi» contro i piccoli negozi che i nuovi supermercati si impegnarono a
far abolire. Il Parlamento inglese nel 1964 abolisce il «Retail Price
Maintenance» dando via libera all'affermarsi delle grandi catene di
supermercati.

In questi ultimi anni il panorama europeo della grande distribuzione si è da
un lato fortemente integrato, con strutture che operano in numerosi Paesi
europei, dall'altro ha viaggiato rapidamente verso una progressiva
concentrazione. Così Tesco (inglese) ha punti vendita in Regno Unito,
Irlanda e Francia, Lidl (tedesca) è presente praticamente in tutti i Paesi
dell'Europa occidentale e in Scandinavia, Netto (danese) opera anche in
Germania, Regno Unito e Svezia, Auchan (francese) controlla il gruppo
Upim-La Rinascente-Sma in Italia e opera anche in Spagna, Portogallo e
Lussemburgo.

L'espansione di questi gruppi si è realizzata attraverso acquisizioni di
catene più piccole o fusioni tra catene di pari forza. Una delle battaglie
più grosse è quella, ancora in corso, per il controllo dei 480 supermercati
Safeway in Gran Bretagna. Catena nata a inizio secolo in Idaho, e sbarcata a
Londra nel 1962. Dopo il fallimentare tentativo di lanciare una carta
fedeltà, Safeway diventa una possibile «preda» degli altri grandi gruppi di
supermercati. In corsa sono Sainsbury, Tesco, Morrison's e Asda. Asda è, di
fatto, Wal-Mart. Nella battaglia interviene anche il sindacato dei
lavoratori del commercio, cercando di sbarrare la strada a Wal-Mart.
Interviene anche la Commissione Concorrenza del governo inglese, vengono
bloccati i tentativi di Tesco, Asda, Sainsbury (le tre catene maggiori) e
data via libera a Morrison che comunque dovrà vedersela con un'altra offerta
e con l'obbligo, a operazione conclusa, di vendere 53 dei 480 supermercati ,
per non trovarsi in «posizione dominante» in alcune aree.

Il «modello americano» di rapporto tra vita e consumo, tra territorio e
strutture di vendita (oltre che tra lavoro e diritti) ha incontrato ostacoli
e difficoltà ad affermarsi in Europa Occidentale. Solo a metà degli anni `80
ad esempio è passata l'idea dello shopping «24 ore su 24» e dell'apertura di
alcuni punti vendita la domenica. Ancora più delicata è la questione del
modello di uso del territorio che dovrebbe essere imposta dalla
«walmartizzazione». L'idea del «Big Box», del supernegozio-scatolone
piazzato in un deserto urbanistico è difficilmente praticabile, per ovvie
ragioni di spazio fisico e di sedimenti storici del territorio europeo.
Semmai il modello di sviluppo (che c'è stato e che prosegue) della Grande
Distribuzione in Europa è quello del recupero di aree industriali alla
funzione commerciale.

Emblematico, in Italia, il caso di Genova, dove la Val Polcevera, cuore
industriale della città, della sua classe operaia (e tuttora roccaforte
elettorale della sinistra cittadina) si è trasformata in un enorme emporio a
cielo aperto: Carrefour, Metro, Ikea, Mercatone Uno, Ipercoop hanno aperto
nel giro di pochi anni, quasi tutte in edifici ex-industriali, creando non
pochi problemi di mobilità e di traffico nei quartieri popolari di Rivarolo,
Cornigliano e Bolzaneto e la morìa di piccoli negozi in centro.

Ma dove sembra passare il modello Usa è in Europa dell'Est, paradossalmente
più omogenea alle condizioni di sviluppo americane delle origini: grandi
distanze, spazi suburbani da valorizzare, scarsi controlli, bisogno di
creare occupazione quali che siano gli standard sociali e retributivi. Non a
caso Tesco ha aperto ipermercati in Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e
ha raddoppiato l'anno scorso la sua presenza in Polonia. La tedesca Rewe
opera in Repubblica Ceca (e ha già dato il via alla demolizione dei
contratti collettivi di lavoro) ed è in forte espansione in Ucraina (aprirà
di 5-7 ipermercati all'anno per i prossimi 5 anni), considerata una delle
«terre promesse» per i supermercati del futuro. L'altra, più vicina a casa,
è quella delle patrie galere: nel 1999 Tesco, Safeway e Sainsbury si sono
affrontati in una gara per la gestione di 103 «supermercati di prigione»
inglesi: in palio le 10 sterline al giorno che ogni prigioniero deve
spendere in generi alimentari, detersivi e dentifrici. Una clientela molto
facilmente «fidelizzabile», direbbero i guru del marketing.


I grandi attori

In Europa i grandi attori del settore degli ipermercati e dei discount sono
le tedesche Metro e Rewe, le francesi Auchan e Carrefour, l'olandese Ahold e
l'inglese Tesco. La maggiore concentrazione di punti vendita (per
l'alimentare) è nel Regno Unito (1 negozio ogni 1519 abitanti) e in Francia
(1 ogni 1500). Ancora frammentata la situazione a Est: Ungheria (1 negozio
ogni 428 abitanti), Repubblica ceca (1 ogni 540) e soprattutto Polonia (1
ogni 276). In Italia lo sviluppo delle grandi strutture è stato molto forte
nell'ultimo trentennio. I supermercati, 609 in tutta Italia nel 1971, erano
7193 nel 2001. A essi vanno aggiunti 436 ipermercati (158 nel `91) e 2913
discount (600 nel `93). Le «grandi superfici» di vendita che aderiscono alla
Faid, Federazione del settore, sono passate da 4200 nel `96 a 6900 nel 2002,
con oltre 40 milioni di Euro di fatturato, 223.000 addetti di cui circa due
terzi a tempo pieno e un terzo a tempo parziale. Il 60% sono donne, il 30%
sotto i 30 anni.


In Cina, una coppia infernale

Anche qui i sindacati protestano, ma l'Oriente per il gigante è la terra
ideale

ANGELA PASCUCCI

Se una piovra dell'economia globale come Wal Mart incontra un ircocervo
politico-economico come la Cina, gli effetti speciali sono assicurati. Come
ad esempio il braccio di ferro ingaggiato dall'organizzazione ufficiale dei
sindacati cinesi, la All China Federation of Trade unions (Acftu) che vuole
piegare il Moloch di Bentonville all'evento che questo più detesta: la
sindacalizzazione dei dipendenti. Proprio come accade negli Usa. Solo che il
particolare teatro dello scontro cambia radicalmente i termini della
rappresentazione. In questo caso, Wal Mart vede rimbalzargli contro in modo
speculare la sua tattica di controllo del territorio. Contesa etologica
dunque, più che ideologica, che poco o nulla ha a che vedere coi diritti dei
lavoratori. Il vertice di Wal Mart sa benissimo che un rappresentante dei
sindacati ufficiali cinesi non rassomiglia neppure alla lontana a un
attivista dell'Afl-Cio. Un membro dell'Acftu risponde solo al Partito e al
governo, limitandosi il più delle volte a catechizzare i dipendenti di
un'impresa, a inquadrarli e a garantire la governabilità dell'azienda dal
punto di vista delle relazioni interne, in questo trattando direttamente coi
vertici dell'impresa. Un comportamento che, per la sua essenza, gli eredi di
Sam Walton non sopportano, anche a costo di rinunciare a preziosi cani da
guardia. Sarebbe uno sfregio al credo interno e vedi poi che persino una
situazione così anomala non costituisca un insidioso precedente.

Oltre ad aver avviato una campagna pubblica di attacco contro la compagnia,
la Confederazione cinese minaccia di passare alle vie legali. Wal Mart
controbatte asserendo che le autorità centrali le hanno assicurato che non è
tenuta a garantire l'ingresso all'Acftu (anche se la legge sindacale cinese
all'articolo 10 stabilisce l'obbligo di sindacalizzazione nelle imprese con
più di 25 dipendenti).

Ma quale che sarà l'esito del duello in corso, l'alleanza tra le due potenze
è iscritta nei fatti perché in nessun luogo come in Cina Wal Mart ha trovato
tutti gli ingredienti di cui necessita per tener fede al suo slogan «prezzi
bassi tutti i giorni». Comparse essenziali di questa rappresentazione, i
lavoratori cinesi soggiacciono alla logica. Sia che vengano arruolati,
maglietta rosso fuoco e jeans, da uno degli scintillanti superstore che
danno ai cinesi il brivido dell'odiata-amata America. Sia che sgobbino a
produrre merci per gli scaffali dei centri commerciali locali o
internazionali.

In Cina Wal Mart ha finora aperto 31 punti di vendita che contano 16mila
dipendenti pagati dagli 84 ai 96 dollari al mese, quanto basta per vivere in
un centro urbano a un singolo senza famiglia. Ancor peggio però va a quelli
che nelle tremila fabbriche «prescelte» dal colosso producono merci che nel
2002 hanno toccato i 12 miliardi di dollari. Costretti a lavorare 7 giorni
su 7 per meno di un quarto di dollaro l'ora in sweathshop senza misure anti
incendio, obbligati a straordinari non retribuiti, ammassati in dormitori
sporchi, senza contratto.

L'accoppiata infernale Cina -Wal Mart, che determina un nuovo «standard di
costi» globale sta abbattendo ogni speranza di far uscire le schiere di
operai cinesi da una condizione di sfruttamento selvaggio, e fa terra
bruciata anche del futuro dei lavoratori occidentali.