[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
economia della conoscenza
- Subject: economia della conoscenza
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 9 Dec 2003 06:57:04 +0100
da lavoce info dic 2003 LE POLITICHE INDUSTRIALI E DEL LAVORO NELL'ECONOMIA DELLA CONOSCENZA di Riccardo Cappellin 1. Il concetto di economia della conoscenza Il concetto dell'economia della conoscenza sottolinea il legame tra i processi di apprendimento, l'innovazione e la competitività del sistema economico. Si parla comunemente di "economia della conoscenza e dell'apprendimento" per indicare una nuova fase di sviluppo in cui la conoscenza scientifica e le risorse umane rappresentano i fattori strategici.La competitività delle imprese si gioca sulla qualità del prodotto e del processo, sulla riduzione dei tempi di decisione, di produzione e di lancio di nuovi prodotti, sull'adozione di innovazioni nei processi produttivi sia tecnologiche che organizzative. Cruciale è quindi sviluppare le competenze e le professionalità della forza lavoro, dei quadri e dei dirigenti. Il fattore che determina la sopravvivenza ed il successo delle imprese non sono tanto gli investimenti fissi o le risorse finanziarie, ma soprattutto il know-how, le risorse intangibili e le competenze distintive. Come indicato i ritardi dell'Italia nello sviluppo della "economia della conoscenza" sono dimostrati da una serie, ormai ben nota, di statistiche omogenee a scala internazionale. Secondo l'approccio dell' "economia della conoscenza", è l'adozione di innovazioni di prodotto e di processo e non la diffusione delle tecnologie il fattore cruciale della competitività delle imprese e delle economie nazionali. In particolare, le scoperte scientifiche e l'adozione di innovazioni da parte rispettivamente degli inventori e degli imprenditori richiedono informazioni, nuove conoscenze e competenze tecniche e organizzative, alla base delle quali è lo sviluppo di processi di apprendimento sia collettivi ("interattivi") che individuali della forza lavoro, dei quadri e degli imprenditori. In questa prospettiva, il problema dello sviluppo tecnologico non si risolve solo nella crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo, ma richiede un aumento della spesa pubblica e privata nella formazione continua delle risorse umane e nella creazione di strutture ("reti" o "capitale sociale") che favoriscano lo scambio delle conoscenze e la loro integrazione originale, che genera le innovazioni. In particolare, i processi di apprendimento di tipo interattivo giocano un ruolo cruciale nel processo di sviluppo economico. Essi infatti consentono da un lato le innovazioni nelle imprese già esistenti e dall'altro la creazione di nuove imprese innovative. Le innovazioni aumentano la competitività internazionale delle imprese e quindi stimolano la loro integrazione nell'economia internazionale. Mentre la nascita di nuove imprese favorisce la diversificazione settoriale dell'economia locale e nazionale e la creazione di reti produttive e tecnologiche a scala locale e nazionale. Questo porta ad un processo di tipo cumulativo, dato che sia il maggiore accesso alle reti a scala internazionale che lo sviluppo di reti di cooperazione all'interno dell'economia locale o nazionale facilitano i processi di apprendimento interattivo e quindi l'innovazione e la creazione di nuove imprese Obiettivo di questo contributo al dibattito sulle politiche industriali e del lavoro, è quello di mostrare l'importanza che il concetto di "economia della conoscenza" può avere nel disegno di un nuovo approccio alle politiche industriali e del lavoro. In particolare, esso affronta il tema degli obiettivi e delle strategie di intervento con particolare riferimento da un lato alle piccole e medie imprese e dall'altro alle trasformazioni nel rapporto tra i lavoratori e l'impresa. Infine, si sottolinea la necessità di superare la contrapposizione classica tra Stato e Mercato e di adottare l'approccio moderno della "governance", basato sulla concertazione tra i diversi attori economici e le istituzioni nazionali e locali. 2. L'individuazione di sei fattori strategici dello sviluppo Nell'economia della conoscenza, il tempo e la velocità sono diventati i fattori cruciali della competitività delle imprese. Infatti, più dei costi e della produttività del lavoro sono importanti fattori, quali: . il tempo di sviluppo di nuovi prodotti ("time to market"), . il "just in time" o la sincronizzazione dei processi produttivi, . i tempi di produzione e di risposta agli ordini ("lead time"), . i tempi di decisione o di coordinamento. Questa maggiore velocità di circolazione dei flussi sia di produzione che informativi permette una crescita più rapida della produttività e quindi l'aumento dei salari, dei redditi e della domanda e della stessa produzione delle imprese. Emblematico di questo modello di organizzazione è un'impresa come la Toyota, che lancia un modello ogni mese ed investe il 5% del fatturato in ricerca. Le politiche economiche di tipo "liberista" si esauriscono nel riproporre in ogni paese e situazione il binomio: . più concorrenza tra le imprese e . più flessibilità del mercato del lavoro. Nel modello dell'economia della conoscenza, gli obiettivi delle politiche economiche o i "driver" dello sviluppo sono invece una: . più veloce innovazione nelle produzioni e . maggiore integrazione delle competenze tra le imprese. I due approcci sono chiaramente diversi, anche se non sono necessariamente in contrasto. Infatti, da un lato la concorrenza è sola una delle possibili forme di integrazione tra le imprese e può essere inquadrata in un principio più ampio di relazioni di negoziazione tra soggetti che abbiano ruoli specifici e distinti, per evitare il rischio di concentrazioni e di conflitto di interessi. Dall'altro la flessibilità del lavoro certamente non risolve il problema più ampio dell'innovazione nelle produzioni. Mentre, l'approccio "neo-classico", che è alla base delle politiche liberiste, focalizza l'attenzione solo sulla riduzione dei costi di produzione e sulla competizione tra le imprese e tra le economie nazionali, le moderne teorie dell'innovazione sottolineano l'importanza degli effetti "complementarietà" (o sinergia) tra le imprese e la necessità di integrare le loro rispettive capacità produttive e tecnologiche. Le politiche di sviluppo devono quindi mirare alla riduzione dei "costi di transazione", che ostacolano lo scambio e la cooperazione tra imprese, e dei "costi di transizione", che ostacolano la riconversione dalle vecchie alle nuove tecnologie. In una moderna economia della conoscenza sono importanti sei fattori di competitività delle imprese, che schematicamente possono essere indicate come le "6 I": . investimenti, . integrazione locale e nazionale, . integrazione internazionale, . interazione, . intelligenze, . innovazione. Infatti, il rilancio dello sviluppo dopo decenni di debole crescita richiede maggiori investimenti non solo fissi, nelle imprese e nelle infrastrutture, ma anche in risorse immateriali, come la ricerca. Quindi, è necessario un allungamento della prospettiva temporale da parte sia delle istituzioni che delle stesse imprese e l'adozione di strategie di sviluppo a medio e lungo termine. Come, nei secoli passati si è investito in strade e grandi opere che rappresentano ancora oggi un patrimonio cruciale per le nostre città e per il paese, così nell'epoca della società della conoscenza non è possibile che gli investimenti in ricerca e sviluppo della conoscenza siano basati solo sul loro rendimento a breve e non vengano intesi come la precondizione per lo sviluppo di tecnologie applicative che si svilupperanno nell'arco di diversi decenni. In secondo luogo, lo sviluppo delle conoscenze richiede una forte integrazione o la creazione di reti di innovazione a scala locale e nazionale tra imprese e soggetti con competenze diverse e complementari. In terzo luogo, lo sviluppo nell'economia della conoscenza richiede la valorizzazione delle diversità, la specializzazione, l'accesso a tecnologie e mercati esteri. Pertanto, è cruciale l'apertura verso i mercati internazionali e la promozione dell'integrazione internazionale in ambito europeo. In quarto luogo, processi di apprendimento non avvengono solo a livello individuale ma richiedono una forte interazione tra soggetti diversi e hanno quindi una forte dimensione interattiva. Questo richiede strutture organizzative ed infrastrutture che creino un ambito di incontro facile e frequente tra i diversi soggetti coinvolti in processi di innovazione sempre più complessi e che richiedono l'integrazione tra tecnologie diverse e una maggiore collaborazione interdisciplinare. In quinto luogo, è necessario valorizzare le intelligenze o promuovere la creatività individuale. Il processo di innovazione dipende non solo dall'accessibilità a conoscenze complementari, ma anche dalle capacità di assorbimento individuali e queste dipendono dall'investimento nelle risorse umane, dalla valorizzazione delle conoscenze di base, dallo sviluppo dei sistemi di formazione e dagli investimenti in formazione continua, che assicurano una maggiore flessibilità e ricettività al nuovo. In particolare, la creatività dipende dalla capacità di connettere elementi esistenti in modi nuovi, di accettare stimoli esterni e da uno sforzo continuo di costruzione su questi stimoli per creare qualche cosa di nuovo. Questo richiede l'accettazione delle differenze e degli aspetti positivi dei contrasti, di tollerare l'incertezza ed il rischio di errori e fallimenti. Infine, le politiche di sviluppo devono promuovere l'innovazione,che non ha solo una dimensione tecnologica e non si risolve solo all'interno della singola impresa. L'innovazione dipende anche da fattori di tipo organizzativo ed istituzionale e ha un ruolo importante anche nel settore terziario e nella pubblica amministrazione. Inoltre, la figura dell'inventore singolo o le "startup" innovative non sono più importanti dell'innovazione incrementale nelle imprese esistenti e della loro diversificazione tramite la creazione di "spin-off" in settori di attività nuovi. 3. Dalle "riforme" liberiste ad una politica industriale moderna Il rapido diffondersi del paradigma "neo-liberista" tra gli economisti, nell'opinione pubblica e persino tra molti politici ed economisti nei partiti della Sinistra italiana è attribuibile alla presunzione che di fronte alla crisi del modello di tipo interventista e centralista tipico degli anni '60, l'unica alternativa sia quella rappresentata dall'adozione acritica ("stupid, it's the economy": diceva Clinton) del modello opposto basato sulla fiducia nell'efficienza automatica o quello analogo della mera "regolazione" dei mercati. Di fatto, anche il modello della "regolazione" da un lato si basa sugli stessi fondamenti microeconomici del modello neo-liberista e dall'altro è ambiguo ed ha portato ad un intreccio confuso e paradossale di neo-liberismo, di collusione tra controllati e controllori e di minuto dirigismo tecnocratico. L'inadeguatezza delle politiche liberiste e il fallimento delle politiche di mera "regolazione" perseguite negli ultimi anni è indicata dalla perdita di competitività del sistema industriale italiano e dal continuo aggravarsi della situazione dell'industria italiana e soprattutto delle grandi imprese in termini occupazionali e produttivi, accompagnati da processi diffusi di concentrazione finanziaria e da un aumento dei prezzi dei servizi pubblici che sono stati privatizzati, spesso con un peggioramento della qualità degli stessi per gli utenti.Infatti, è in corso un enorme trasferimento di ricchezza e di potere. Anche in Italia, come nelle grandi imprese americane, il problema della "corporate governance", non è tanto quello della difesa degli azionisti di minoranza dagli abusi di quelli di maggioranza, ma soprattutto quello dell'emergere di una "classe" di manager che approfittando del loro strapotere rispetto agli azionisti sfruttano una rendita di posizione e contando sulla compiacenza, o nella migliore delle ipotesi sulla disattenzione, dei politici e delle autorità pubbliche, stanno aumentando in modo smodato il loro patrimonio personale a scapito delle stesse imprese, fino a trasformarsi essi stessi in finanzieri e proprietari di imprese. Come indicato dal caso Fiat, in queste guerre di potere e finanziarie lo sviluppo e l'occupazione del Paese è davvero l'ultima delle preoccupazioni. Mancano invece progetti strategici di grande dimensione, che mirino a promuovere la presenza internazionale delle imprese italiane e a stimolare l'innovazione tecnologica. Le politiche di "regolazione" sono del tutto inadeguate ad affrontare questi problemi, mentre le privatizzazioni hanno spinto i grandi gruppi finanziari italiani a riconventire i loro investimenti dai settori industriali e dai mercati internazionali ai settori protetti dei servizi di pubblica utilità, caratterizzati da elevate rendite di posizione, come i settori dell'energia e dei servizi finanziari ed assicurativi.Il settore pubblico e le politiche nazionali hanno favorito i soliti 15-20 grandi gruppi e penalizzato le 200-500 medie imprese italiane e le centinaia di migliaia di piccole imprese. Si pensi ai grandi appalti, alle privatizzazioni, alla vendita delle autostrade, delle grandi e delle medie stazioni, degli aeroporti, alla svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Tutte queste operazioni hanno favorito i grandi gruppi, che operano a livello nazionale, ed invece escludono gli operatori minori delle PMI, che operano a livello regionale o locale, con buona pace delle proclamate intenzioni di valorizzare l'autonomia dei governi e delle economie regionali. Si sta quindi consentendo un processo sistematico di controllo dell'industria italiana da parte delle grandi banche (Capitalia, Unicredito, S.Paolo Imi, Banca Intesa, Mediobanca) e assicurazioni (SAI-Fondiaria, Generali) e in generale di operatori finanziari (gruppi Tronchetti, De Benedetti, Benetton, Gnutti, Fininvest, Romiti, Pesenti), determinando un incrocio pericoloso tra banca ed industria che penalizza una sana strategia industriale mirata allo sviluppo sui mercati internazionali e sull'innovazione.Le cosiddette "riforme" neo-liberiste, che in effetti rappresentano il ritorno ad un passato molto lontano e l'abolizione sistematica delle cosiddette "riforme di struttura" introdotte negli anni '60 e '70, non possono avere alcun effetto rilevante nel promuovere l'aumento dei tassi di crescita dell'economia. Manca infatti un'analisi approfondita che dimostri il collegamento tra le "riforme" neo-liberiste e i fattori che in una moderna economia della conoscenza determinano lo sviluppo nel medio termine. Anzi, l'annuncio insistente di queste "riforme", poi di fatto non realizzate, crea una situazione di incertezza nei cittadini e nei consumatori, che diminuisce la propensione al consumo, aumenta i conflitti sociali e quindi costringe le imprese e le istituzioni a rinviare i progetti di investimento e le innovazioni. Ad esempio è evidente che la "riforma" del mercato del lavoro e l'abolizione dell'art. 18 può avere l'effetto di diminuire il potere del sindacato, di ridurre i salari e di aumentare la competitività di costo delle imprese. D'altro lato, essa non ha alcun effetto né sulla creazione di imprese nuove, le quali sono il vero motore dell'occupazione, né sul successo delle imprese esistenti, che dipende invece essenzialmente dalla produttività e dall'innovazione e non dal costo del lavoro. Considerazioni analoghe possono essere fatte per altre "riforme" neo-liberiste come quelle sulla riduzione della tutela pensionistica, la privatizzazione della scuola, la privatizzazione della sanità, il controllo governativo sull'attività della magistratura, i condoni fiscali e l'agevolazione dei falsi in bilancio. Tutte queste misure creano una maggiore incertezza economica,stimolano conflitti, disarticolano la coesione sociale, portano ad una situazione di confusione normativa e quindi penalizzano gli investimenti e lo sviluppo. E' infatti chiaro che è molto più difficile investire nell'innovazione in una situazione di stagnazione congiunturale che in presenza di uno sviluppo sostenuto. Le "riforme" liberiste sono del tutto irrilevanti nell'affrontare i punti di debolezza relativa dell'Italia e dell'Europa, che come indicato dal modello delle "6 I", indicato precedentemente, sono dati da: . il debole investimento delle imprese in ricerca e sviluppo, . la necessità di una maggiore integrazione internazionale in termini di investimenti in altre aree mondiali, . il carattere tuttora settoriale dell'innovazione e la mancata integrazione di tipo intersettoriale e interdisciplinare, . la debolezza del ruolo svolto dalle università nel promuovere tali forme di integrazione e lo scarso orientamento all'innovazione industriale della ricerca universitaria, . gli scarsi investimenti nella formazione superiore e in quella continua, soprattutto in alcuni paesi come l'Italia, . la scarsa "mobilità del capitale" (certamente più importante della scarsa "flessibilità" del lavoro), connessa con il permanere di cartelli finanziari, basati su incroci azionari, e con lo strapotere sull'industria delle banche e dei grandi gruppi finanziari, che portano ad un sistema oligarchico e al conformismo, penalizzano la creatività, l'adozione di politiche di impresa coraggiose, l'imprenditorialità innovativa e quindi l'emergere di nuovi gruppi imprenditoriali provenienti dal mondo delle piccole e medie imprese Invece, le "riforme" neo-liberiste corrono il rischio di penalizzare i punti di forza del modello sociale e industriale europeo, che sono la forte coesione sociale e l'esistenza di forti reti tra le piccole e le medie e le grandi imprese nell'ambito di cluster locali e filiere settoriali.Solo recentemente è emersa una strategia europea di politica economica, alternativa a quella delle "riforme" neo-liberiste, e nel vertice di Lisbona gli Stati europei si sono impegnati a realizzare un profondo rinnovamento economico e sociale entro la fine del decennio e a definire un'agenda comune di rilancio dell'economia, che miri a creare più posti di lavoro, una maggiore coesione sociale ed un ambiente naturale sano e che ha nell'investimento nella conoscenza e nell'innovazione la priorità più significativa. 4. Le politiche del mercato del lavoro e il ruolo dei ceti intermedi innovativi Nel modello tradizionale ("fordista") di organizzazione dell'impresa le figure chiave sono quelle del manager e del lavoratore dipendente. Invece, nel modello della società della conoscenza, più importante del manager è il ruolo dell'imprenditore creativo e innovativo e alla figura del lavoratore dipendente, dedicato a funzioni di tipo meramente esecutivo, si contrappone quella del lavoratore qualificato e professionalizzato relativamente autonomo e indipendente. Nel modello tradizionale prevalgono i rapporti di autorità/controllo, mentre nell'economia della conoscenza è cruciale lo sviluppo dei rapporti di fiducia/collaborazione tra lavoratore e impresa.Il cosiddetto "lavoratore della conoscenza" rappresenta una figura intermedia tra il lavoratore manuale ed il manager, analoga a quella dei "quadri" nelle imprese industriali tradizionali. Il conflitto per il potere/autonomia e la divergenza degli interessi economici tra i lavoratori professionalizzati e i manager di livello elevato ("CEO") o l'imprenditore si sostituisce alla tradizionale lotta di classe tra il lavoratore e il proprietario azionista. Di fatto questo ultimo ormai svolge la funzione di semplice finanziatore esterno e si è trasformato nella figura del semplice risparmiatore, tutelato dalle norme di regolazione dei mercati finanziari e della regolarità delle informazioni societarie. Invece, la figura dei manager, che si trasformano in finanzieri, si è allontanata da quella dei lavoratori e dirigenti ed è diventata sostanzialmente analoga alla figura dell'imprenditore-proprietario. Il dibattito recente sulla "corporate governance" dovrebbe esteso dalla prospettiva tradizionale della regolazione dei rapporti tra azionisti di maggioranza e di minoranza ad una riflessione più ampia sia sugli strumenti di controllo dei poteri e delle remunerazioni del management, sia sul ruolo della concertazione tra lavoratori e manager nella determinazione delle strategie di sviluppo delle imprese, nell'ambito di un nuovo statuto delle società a scala europea. Il rapporto di lavoro non è un contratto di compravendita di servizi ma richiede piuttosto un investimento congiunto sia dei lavoratori nell'impresa, che dell'impresa nei lavoratori. In un mercato del lavoro moderno è cruciale da un punto di vista collettivo promuovere la libertà del lavoratore nello scegliere il lavoro che valorizzi le proprie competenze, anche in funzione di un percorso di carriera che assecondi le aspirazioni individuali. D'altro lato, per le singole imprese è fondamentale sviluppare le capacità di iniziativa,di agire in modo imprenditoriale, e le capacità di innovazione del singolo lavoratore. Il rapporto di lavoro diventa sempre più simile alla relazione formale di collaborazione tra due imprese, che si basa su un investimento congiunto, la fiducia reciproca, la stabilità nel tempo della relazione e richiede vincoli a possibili comportamenti opportunistici e all'eventualità di una risoluzione del contratto di collaborazione senza un giustificato motivo, sia dal lato della impresa che dello stesso lavoratore.Emergono nuovi problemi economici, nuove situazione di incertezza e conflitti sociali: . Si pone innanzitutto il problema di chi debba sostenere l'investimento in capitale umano che è diventato ancora più importante di quello in ricerca e sviluppo: il singolo e le rispettive famiglie, le imprese che di fatto ne traggono beneficio o lo stato e la comunità che vedono nel capitale umano un fattore cruciale di crescita collettiva. . L'esigenza sia delle imprese che degli stessi lavoratori di investire di più nella formazione professionale dei lavoratori contrasta sia con la pretesa delle imprese di poter licenziare senza giusta causa i lavoratori che anche con la crescente mobilità del lavoratore per dimissioni volontarie. Infatti, la mobilità o le dimissioni volontarie del lavoratore rappresentano un rischio per l'impresa e ne disincentivano l'investimento nella formazione. D'altro lato, la mobilità o la possibilità di licenziamento rappresenta un rischio per il lavoratore e questo fa si che il lavoratore non sia interessato ad una formazione professionale di tipo troppo specialistico che lo renderebbe sempre più legato ad una impresa e settore specifico e che ne aumenterebbe il rischio in caso di licenziamento. . Sono sempre più forti i flussi dal lavoro dipendente al lavoro autonomo e viceversa. In una società della conoscenza la distinzione tra queste due figure non è più cruciale, dato che anche il lavoratore "dipendente" è sempre più libero di valutare le offerte di lavoro sulla base delle opportunità che gli assicurano il proprio sviluppo professionale e ha un rapporto di mera collaborazione e quindi di parziale autonomia rispetto alle singole imprese. Il lavoratore è più fedele alla propria comunità professionale che alle singole imprese in cui lavora in un dato periodo. . La formazione professionale del lavoratore durante l'arco della vita lavorativa non è tanto il risultato di una attività di studio individuale, ma si basa su processi di apprendimento interattivo, nei quali sono cruciali le relazioni a rete tra le imprese e la partecipazione ad una comunità professionale, all'interno della quale circolano informazioni e esperienze. . E' necessario rafforzare la formazione tecnologica di base dei giovani e di assicurare la continuità del loro percorso formativo soprattutto nei primi anni di lavoro, . L'espulsione anticipata da parte delle imprese dei lavoratori adulti, pur in periodo in cui l'età media è aumentata, è tra le cause principali della crescita dell'onere pensionistico, ma a sua volta è connessa con l'incapacità da parte delle imprese di investire in modo sistematico nella formazione continua dei lavoratori, in modo da assicurare la loro riconversione e "impiegabilità".Anche da un punto di vista strettamente politico emergono problemi nuovi e motivi di tensione. Il successo elettorale dipende dalla capacità dei politici e dei partiti di interpretare i problemi e i bisogni dei nuovi ceti intermedi, distinti da un lato dal mondo numericamente sempre meno importante del lavoro dipendente di tipo esecutivo e dall'altro dall'elite o l'oligarchia del ceto ristretto degli imprenditori, capitalisti e manager, che anche se poco numerosi controllano una parte rilevante del reddito e della ricchezza del paese e influiscono in modo determinate sui "mass media" e l'opinione pubblica.Questi nuovi ceti intermedi sono il risultato della diffusione della "economia della conoscenza", nella quale il fattore competitivo fondamentale sono le competenze, le conoscenze o il "capitale umano", molto più che i "capitali fissi" o "finanziari" o il costo del lavoro. Essi sono composti sia da lavoratori dipendenti che da lavoratori autonomi o lavoratori parasubordinati. Quello che li caratterizza non è la forma del contratto di lavoro, ma il fatto che: . hanno un livello di istruzione medio o superiore, . svolgono lavori in cui è necessaria una buona professionalità e un continuo aggiornamento, . hanno responsabilità di tipo organizzativo, . si pongono il problema di contribuire in modo anche personale e originale al successo della propria organizzazione e impresa, . credono nel proprio lavoro e lavorano più ore di quanto previsto dai contratti, . hanno come risorse o "proprietà" un capitale di professionalità e di reputazione e quindi difendono con orgoglio la loro funzione o il loro "posto di lavoro", così come gli imprenditori la loro impresa e i capitalisti il loro capitale finanziario. La sensazione di malessere di questi ceti intermedi (recentemente definiti come "ceti medi riflessivi" nella terminologia politica) non è determinata solo e tanto da fattori di tipo politico (essere contro le politiche del Governo) e morale (essere a favore del rispetto delle regole e della magistratura) se non nelle componenti più radicali, ma soprattutto da fattori di tipo economico e sociale. Diversi e complessi sono quindi i fattori e gli effetti di questo disagio. Mentre il cosiddetto "centro politico" è composto da segmenti di elettorato di dimensione limitata, fortemente radicati in una cultura politica di tipo "moderato", i nuovi "ceti sociali intermedi"rappresentano ormai la fascia maggioritaria della forza lavoro e sono caratterizzati da una forte mobilità elettorale, come è dimostrato dalla loro capacità di guardare in modo critico le posizioni dei diversi partiti e di valutare la coerenza di queste ultime con gli interessi economici e il sistema di valori che caratterizzano questo nuovo ceto sociale. In particolare il disagio di questi ceti intermedi è dovuto al fatto che essi sono i più penalizzati dal rallentamento dello sviluppo economico. Essi sono penalizzati doppiamente, da un lato perché i loro stipendi sono quelli che potrebbero aumentare maggiormente nel caso di ripresa delle imprese e invece subiscono una continua erosione in una situazione di stagnazione e inflazione. Dall'altro, caratteristica essenziale dei ceti intermedi è quella di credere nel loro lavoro e la mancanza di una prospettiva di sviluppo rappresenta di fatto un ostacolo allo sviluppo della loro professionalità, e il rallentamento della crescita e della innovazione impedisce di avere una gratificazione nel lavoro. 5. Il modello della "governance" e quelli dello "stato" e del "mercato" Mentre sempre più diffuso è in Italia il paradigma del neo-liberismo ed il dibattito di politica economica si è concentrato sul modello della "regolazione" dei mercati, in Europa è sviluppato un dibattito tra gli studiosi dei processi di decisioni pubbliche sul modello intermedio definito come "governance" (che in italiano può essere tradotto come il modello della "concertazione", della negoziazione o come il modello del "neo-corporativismo"), contrapposto metodologicamente ai modelli del "government" (Stato o "dirigismo") e del "mercato" ("free-market" o "liberismo"). Le relazioni tra questi tre modelli possono essere illustrate ove il modello della "governance" può essere a sua volta distinto in un caso più verticale ("topdown"): la "concertazione"; ed in un caso più orizzontale ("bottomup"): la "cooperazione". In particolare, in questa figura i quattro modelli di analisi e decisione politica sono classificati secondo due diverse dimensioni: "gerarchia - autonomia" e "isolamento - integrazione", ove la prima dimensione misura il potere delle autorità centrali e la seconda dimensione misura la condivisione di valori comuni, il senso di appartenenza e il livello di interdipendenza economica esplicita. Le frecce indicano, da un lato, uno spostamento da un approccio di tipo gerarchico ad uno "dal basso" che valorizza la libertà individuale e, dall'altro, un'evoluzione dall'innovazione a scala individuale ad un processo sistemico di innovazione, basato su una maggiore integrazione tra attori diversi e tra loro complementari. Infatti, i processi di innovazione sembrano indicare sia la necessità di aumentare l'autonomia delle diverse imprese e attori, che la necessità di una maggiore integrazione di queste ultime, data la crescente interdipendenza e complessità dei processi di innovazione. Il modello del "government" si fonda sulla preoccupazione tipica dell'azione politica tradizionale di definire e adottare regole, che impediscano o costringano una determinata azione o classi di zioni. Esso implica un ruolo di tipo negativo delle autorità pubbliche, mentre l'approccio della "governance" mira ad un ruolo pro-attivo dello Stato, che cerca di raggiungere dei risultati tramite determinate azioni. Il modello del "government" si basa su ordini o regolamenti. La forma precisa di tali ordini (leggi, decreti, regolamenti ministeriali, comandi di tipo informale, ecc.) è meno importante del tipo di relazione che essi comportano. Essi sono emanati dallo Stato utilizzando la risorsa della "sovranità" e presuppongono un rapporto di autorità. Tali regole devono essere sostenute dal controllo del rispetto e dall'esistenza e capacità di imporre sanzioni legali o di altro tipo.D'altro lato, la "governance" deve essere vista come modello opposto a quello del "government". Essa descrive un modello più complesso di formulazione ed attuazione delle politiche, basato sulla negoziazione o la concertazione tra i diversi attori ("stakeholders") o sulla collaborazione tra il settore pubblico e privato. L'evoluzione recente delle tecnologie e il processo di crescente integrazione internazionale delle economie nazionali sembrano sottolineare l'utilità del modello della "governance" multi-livello. Questo modello è connesso strettamente con il concetto di rete/network/cluster ed è più appropriato dei due modelli tradizionali rispetto alle caratteristiche di una moderna economia della conoscenza e dell'apprendimento. In particolare, l'ampio spettro delle diverse tecniche utilizzabili dal leader di una rete e che favoriscono una risposta di tipo sistemico piuttosto che imporre l'obbedienza, può essere riassunto con il concetto di "guidare" o orientare o facilitare. Peraltro, si può osservare che a differenza dell'approccio di mercato, in talune circostanze la "governance" può assegnare un ruolo importante all'iniziativa pubblica, soprattutto nel caso indicato come "concertazione" . Il modello della "governance" risponde alle caratteristiche delle società contemporanee, che rendono alquanto difficili i modelli tradizionali di decisione delle politiche pubbliche e i paesi europei mostrano una convergenza significativa verso il modello della "governance", caratterizzato da forme di azione che non coincidono più con il quadro legalistico tradizionale di analisi e decisione delle politiche, che è definito dal modello del "government" ("Stato" o modello dirigista). Di fatto, il modello della "governance" rappresenta il risultato dell'adattamento ad un contesto in cambiamento, piuttosto che un cambiamento deliberato di strategia. Esso è quindi inserito nelle dinamiche strutturali in corso, in gran parte comuni a tutti i paesi europei. Infatti, la "governance" è strettamente collegata al processo di internazionalizzazione, dato che quest'ultimo tende a minare la chiusura e le gerarchie e porta ad un'erosione delle capacità di regolazione normativa da parte dello Stato. In particolare, l'internazionalizzazione è legata alla "governance", dato che assicura la libertà di uscita dell'innovatore e di quei membri delle organizzazioni gerarchiche che non sono soddisfatte del loro ruolo subalterno. Inoltre, la "governance" è collegata con l'innovazione dato che quest'ultima erode i confini disciplinari e le gerarchie interne. Ad esempio il processo di "distruzione creatrice" dell'imprenditore Schumpeteriano determina chiaramente dei conflitti e non rispetta le gerarchie consolidate. Peraltro, se il modello dirigista del "government" non è adeguato alle politiche moderne dell'innovazione, è chiaro che anche l'approccio di tipo liberista, basato sulla mera regolazione dei prezzi, è inadeguato per affrontare il tema della innovazione. La velocità dei flussi informativi e dei processi decisionali è strettamente connessa con la stabilità delle forme organizzative, piuttosto che con la "flessibilità" del lavoro. Ad esempio essa dipende dall'esistenza di un sistema istituzionale ben sviluppato ("capitale sociale") e da strutture ed infrastrutture che facilitino le relazioni e riducano i costi di transazione. Chiaramente queste strutture non possono che essere il risultato di un'azione collettiva. Infatti, i processi di innovazione sono strettamente connessi con la crescente divisione del lavoro, specializzazione ed integrazione di fasi produttive e competenze lavorative. Ma questa crescente divisione del lavoro richiede un quadro che permetta di connettere tra loro i contributi di imprese e attori diversi.Mentre la conoscenza esplicita o codificata può essere scambiata sui mercati delle tecnologie, la conoscenza tacita ha un carattere asimmetrico e non è commerciabile, ma richiede meccanismi di allocazione diversi dal mercato. Solo specifiche organizzazioni e istituzioni e non i mercati tradizionali sono in grado di assicurare l'accesso alle informazioni e quelle connessioni che permettono lo scambio o l'interazione stretta di conoscenze e competenze e i trasferimenti tecnologici, come ad esempio: le reti/network di imprese o le forme di cooperazione pubblico-privata o le reti di conoscenza tra le istituzioni di ricerca e formazione superiore. I canali di comunicazione, le normative, gi standard tecnici, i protocolli, le associazioni tra i partecipanti di un network, le reti, i network ed i cluster locali e settoriali sono di fatto "istituzioni" o "organizzazioni che apprendono" ("learning organizations") e sono strumenti non di mercato tramite i quali le imprese mirano a ridurre i costi di transazione e possono coordinare le loro attività con altre imprese e istituzioni e generare nuova conoscenza. Le istituzioni rafforzano l'identità e la fiducia reciproca, che permettono di limitare gli svantaggi della circolazione asimmetrica delle informazioni, riducono l'incertezza e il rischio connesso con l'imprevedibilità dei risultati dell'innovazione, aumentano gli incentivi ad investire nel medio e lungo termine. La conoscenza non può essere considerata come un fattore produttivo, simile al capitale o al lavoro. Il cosiddetto "capitale intellettuale" difficilmente può essere venduto sui mercati. La conoscenza non è uno stock, ma piuttosto un processo di natura interattiva nel quale sono coinvolti attori molteplici. D'altro lato le reti o i network devono essere essi stessi considerati come una forma di capitale, che richiede risorse e investimenti collettivi per il suo sviluppo e mantenimento e senza i quali tale "capitale sociale" sarebbe soggetto ad un progressivo decadimento. In un'economia della conoscenza, secondo l'approccio delle reti, la politica industriale deve mirare a promuovere la varietà e la diversità e secondo un approccio evolutivo il decisore politico non deve mirare ad ottimizzare una funzione obiettivo, ma a promuovere la creatività, l'adattamento agli stimoli del mercato e la valorizzazione delle nuove opportunità tecnologiche, tramite la creazione di un sistema di innovazione composto da un insieme di istituzioni in relazione tra loro e aperto verso l'esterno. In conclusione, più che rincorrere il pensiero "neo-liberale" nell'adottare schemi molto classici (concorrenza e flessibilità) sembra utile e anche più interessante sviluppare l'approccio "keynesiano" e "strategico" che fu alla base delle "riforme di struttura" nella società "fordista" degli anni '60, '70 e '80 (ad esempio: Saraceno, La Malfa, Giolitti, Delors, Ciampi) ed adottare paradigmi nuovi come quello delle reti e dei sistemi complessi e adattativi, che si focalizzano sui concetti di innovazione e integrazione e sono appropriati per comprendere e guidare il cambiamento rapido e pervasivo nelle strutture economiche verso un'economia basata sulla conoscenza e l'apprendimento.
- Prev by Date: summit per la governance tecnologica
- Next by Date: acqua in caraffa i filtri non la rendono potabile
- Previous by thread: summit per la governance tecnologica
- Next by thread: acqua in caraffa i filtri non la rendono potabile
- Indice: