uranio e turismo



dal corriere.it
domenica 23 novembre 2003

Migliaia di tonnellate di sostanze atomiche da smaltire e un rapporto di
odio-amore: vantaggi economici e rischi per la salute. Ma è anche un'
attrazione

Sellafield, il paese che vive di uranio. E di turisti

SELLAFIELD - Il villaggio nucleare con 70 tonnellate di plutonio da smaltire
(ma nessuno sa come e quando), con 3.336 tonnellate di uranio da riciclare e
con quasi ottantamila metri cubi di altri «rifiuti» da fissione cementati e
blindati in botti e container è in una bellissima parte di Inghilterra. La
superbomba, la «bomba delle bombe» (dove mai lo si ritrova un arsenale del
genere?) sta nella Cumbria a Nord, una sessantina di miglia dal confine con
la Scozia, vicino al Vallo di Adriano, sulla costa che guarda Belfast e l'
Irlanda. E' la regione dei laghi, delle colline, dei corsi d'acqua piccoli
ma abbondanti e del salmone che purtroppo le ultime indagini di Greenpeace
commissionate all'università di Southampton dicono presentare tracce di
radioattività.
Nessun allarme, sebbene il ministero dell'Ambiente si stia attivando per
capire che cosa è accaduto e che cosa occorre fare, niente di che
preoccuparsi sia chiaro - sarebbe necessario mangiare in un colpo solo un
quintale di pesce per raggiungere i livelli di tecnezio99 (isotopo
radioattivo) che segnano la soglia di attenzione in un individuo - ma tanto
basta per riaccendere i fari sul «quartiere» di sua Maestà (fu Elisabetta a
inaugurarlo) dove si trattano e si immagazzinano uranio e plutonio, dove ha
preso corpo all'indomani della Seconda guerra mondiale il sogno britannico
dell'alternativa al carbone e all'idrocarburo.
Durante il conflitto, a Sellafield, si fabbricava esplosivo (tnt). Poi si
pensò più in grande. Per un po' rimase un laboratorio militare, per
diventare infine nel 1956 la «prima stazione di produzione della energia
nucleare per fini commerciali». La prima al mondo. Un anno dopo ci fu un
grave incidente.
Sellafield nel tempo si è ingrandito, ingigantito, nonostante le proteste
degli ambientalisti e nonostante le autorità di Irlanda e Scozia e persino
di Norvegia si siano più volte rivolte a Londra per chiederne lo
smantellamento. Vi lavorano 12 mila operai, colletti bianchi, ingegneri,
fisici. Chiudere è impossibile, a meno di pensare a una riconversione, al
momento altrettanto impossibile.
Buona parte della gente di Cumbria ha un rapporto di amore e di odio con il
suo villaggio nucleare, la sua cittadella del nucleare che si allarga
venendo da est, da Newcastle, davanti alla coste su prati verdissimi. Amore
perché porta impiego sicuro. Odio perché sollecita mille preoccupazioni
sulla sicurezza, sulla salute, sulla contaminazione della flora e della
fauna.
Sellafield, per la sua storia, per quello che si produce qui dentro e per
come lo si produce, per quello che nasconde e per quello che conserva a
cielo aperto è diventato persino una attrazione turistica.
Segnalato sulle pubblicazioni ai curiosi e agli ospiti che possono essere
accolti in un «centro visitatori» e trattati con tutti i riguardi. Arrivano
turisti, tanti giapponesi. Oggi ci sono scolaresche e un bel gruppo di
poliziotti portati per un corso di aggiornamento.
L'idea di non blindare il villaggio, di aprirlo alla comunità, l'idea di
mettere dentro a un edificio a forma di grande palla da golf il «visitor
center» è costata nove milioni di sterline (per la costruzione) e costa
quattro milioni ogni anno (per la manutenzione ordinaria, per il personale).
Però ha una sua validità e originalità.
Le informazioni, più che a una propagandistica esaltazione delle ragioni del
nucleare che magari ci si potrebbe pure aspettare, ti offrono invece un
quadro abbastanza realistico e per nulla irresponsabile di questo settore
dell'industria energetica che in Gran Bretagna copre quasi un terzo del
fabbisogno, il 27 per cento.
Si tenta con la politica del sorriso, con la politica delle attenzioni
riservate ai movimenti ecologisti, con la politica della piena occupazione
nella regione di far digerire il rospo. Ma che rospo. Perché a Sellafield
non c'è un impianto, un solo impianto. A Sellafield, oltre ai reattori, ci
sono sette produzioni o attività che trasformano quest'area in una
superbomba. E pur con tutta la buona volontà, pur con tutte le garanzie di
sicurezza, pur con il garbo di chi tenta di conciliare sviluppo industriale
ed equilibrio dell'ecosistema, pur con il monitoraggio quotidiano delle
coste, dei torrenti, dei prati, pur con tutto questo il villaggio nucleare
della Cumbria è qualcosa che ti lascia sempre un dubbio pesante dentro. Era
davvero questa la via giusta che andava presa per rispondere ai bisogni di
energia, ai bisogni in crescita delle famiglie, delle imprese, della
società? A Sellafield ti spiegano che, ragionando secondo schemi economici,
la scelta nucleare è vantaggiosa: un chilo di uranio viene comperato a 25
dollari e produce tanta energia pari a quella che si ricava da 15 mila
barili di petrolio, che in media costerebbero 300 mila dollari. Ma si
possono dimenticare o tacere le ricadute ambientali? Il vero problema,
nonostante la tecnologia sia in grado di creare nucleare più sicuro, è che
riciclare, stoccare, blindare, conservare, spostare i residui di tale
produzione è e resta un'attività ai massimi livelli di rischio e di danno
potenziale. Non è un caso che lo stesso governo britannico si stia chiedendo
come affrontare e risolvere la questione delle 70 tonnellate di plutonio,
delle 3 mila tonnellate di uranio e degli 80 mila metri cubi di «rifiuti»
accumulati a Sellafield.
Sono stati spesi 4 mila miliardi in dieci anni dalla British Nuclear Fuel ,
la società a maggioranza pubblica, fondata nel 1971, che gestisce il
business del settore (200 milioni di sterline di profitti) per ripulire la
zona e per abbassare i picchi di radioattività nell'aria e nell'acqua
raggiunti negli anni Settanta.
Tali picchi erano stati causati dalle emissioni rilasciate da scorie
impacchettate e gettate nel Mare d'Irlanda fra il '50 e il '60 (Londra ha
sempre smentito, finché nel 1997 ha ammesso il misfatto e giurato di non
provarci mai più) e da scorie accumulate a terra. Nel 1983 alla popolazione
fu vietato di frequentare alcune spiagge. Oggi sotto questo profilo la
situazione è decisamente diversa ed è migliorata. Lo riconoscono anche i
verdi e gli antinuclearisti. La radioattività è stata abbattuta. Ma la
domanda di fondo (che cosa fare di quelle enormi quantità di «rifiuti» che
sono lì e che per giunta aumentano) continua a non ricevere risposta. Il
governo la cerca, la sollecita: ma niente. La gestione del nucleare sarà
pure più sicura nella fase di produzione, ma non è sicura la gestione del
dopo, la gestione e la raccolta di ciò che il nucleare lascia in eredità.
Come si possono eliminare le scorie assicurando alla popolazione della zona
la certezza della salute? Un conto è l'impegno per la tutela dei dodicimila
lavoratori, per i controlli costanti e rigorosi nelle zone attorno al
villaggio, per la valutazione quotidiana del cosiddetto «impatto
ambientale». E un conto è affermare con certezza che non vi sono e non vi
saranno mai pericoli.
Nessuno osa arrivare a tanto. Semplicemente perché anche per le autorità
inglesi raccogliere le scorie e tenerle è pur sempre una attività ad alto
rischio.
A Sellafield, oltre ai reattori, sono in funzione sette impianti: due di
riciclaggio e di rilavorazione del plutonio e dell'uranio, due di produzione
del Mox, mixed oxide , una sorta di combustibile nucleare (esportato in
Giappone e in Europa, principalmente in Svizzera e Germania), uno di
vetrificazione, ossia di trasformazione delle scorie liquide in vetro. I
rifiuti radioattivi sono stati classificati in tre categorie: basso livello
di radioattività, per esempio i vestiti e le tute degli operai e dei tecnici
o gli oggetti che vengono a contatto con materiale «vietato» (sono portati a
Drigg, sei chilometri a Sud e qui piazzati dentro container); medio livello
di radioattività, ciò che è irradiato nel reattore (è cementificato e chiuso
in bidoni di acciaio, restano sempre a Sellafield); alto livello di
radioattività, le scorie liquide (con procedimento di avanguardia sono fatte
evaporare e immobilizzate attraverso la vetrificazione, tenute in
raffreddamento per 50 anni, infine sotterrate, comunque non si muovono da
Sellafield).
Il villaggio è in pratica una superbomba. Forse la più potente che esiste al
mondo. Il primo guaio è che cresce e crescerà ancora. Il secondo guaio è che
nessuno, a partire dal governo inglese, sa proprio come prevedere,
coordinare e gestire il futuro.
C'è chi parla di possibile chiusura (nel 2010) di una parte degli impianti
di Sellafield, quella dove si riciclano uranio e plutonio. Ma si torna
sempre al punto di partenza: quale sarà la fine delle 70 tonnellate di
plutonio, delle 3.336 tonnellate di uranio e degli 80 mila metri cubi di
scorie che sono qui raccolti? Al «visitor center» un questionario chiede ai
sudditi di sua Maestà quale sviluppo immaginano dell'industria energetica.
Nove su dieci escludono il nucleare.

Fabio Cavalera