economisti : nostalgia dell'inflazione



il manifesto - 31 Maggio


Nostalgia dell'inflazione
Gli economisti hanno la memoria corta. Ma quando due Banche centrali sono
pronte a fabbricare inflazione e la paura della deflazione corre più veloce
di quella della Sars, è il momento di rinfrescare le idee, di riavvicinare
la teoria economica al buon senso. Dopo che per anni il «pensiero» insegnato
nelle università e tradotto dalle Banche ha visto nella diminuzione dei
prezzi la panacea di ogni male
ANNAMARIA SIMONAZZI
FERNANDO VIANELLO
Chiusa la parentesi bellica, la paura che la malattia dei prezzi che
affligge il Giappone (la «nipponite», com'è stata chiamata) possa contagiare
gli Stati uniti e l'Europa è riemersa con prepotenza. A mostrare segni di
inquietudine non è più soltanto la Federal Reserve, ma anche la Banca
Centrale Europea. La prima cerca da tempo di rassicurare l'opinione pubblica
(con il rischio di allarmarla, rivelando le proprie preoccupazioni) sulla
panoplia di strumenti, ortodossi e meno ortodossi, di cui dispone per
prevenire la deflazione. La seconda ha recentemente ridefinito l'obiettivo
della stabilità dei prezzi in maniera tale da rendere chiaro che intende
impedire non solo che il tasso di inflazione salga al di sopra del 2 per
cento, ma anche che esso scenda significativamente al di sotto di tale
soglia. Che due banche centrali si tengano pronte, se necessario, a
fabbricare inflazione è un fatto straordinario. Ma che dire di una banca
centrale, quella giapponese, che cerca d'impedire, senza riuscirci, la
diminuzione dei prezzi? Se tuttavia nella caduta dei prezzi si ravvisa un
male da evitare, e non un bene da promuovere, a dubitare di se stessi
dovrebbero essere non solo i banchieri centrali, ma anche gli economisti. E
particolarmente quelli impegnati nelle università. Poiché ciò che essi
insegnano ai loro studenti è che la diminuzione dei salari monetari e dei
prezzi è sempre in grado di garantire la piena occupazione. Gli argomenti
usati sono di solito due. Il primo, oggi molto in auge, è basato
sull'«effetto Pigou», o «effetto dei saldi reali». Il settore privato vanta
dei crediti nei confronti del governo (incorporati in titoli di stato) e
della banca centrale (incorporati per lo più in banconote), il cui valore è
espresso in termini nominali. Al diminuire del livello generale dei prezzi,
il valore reale di tali crediti aumenta. Divenute più ricche, e avendo
perciò meno motivi per accumulare nuova ricchezza attraverso il risparmio,
le famiglie aumentano i propri consumi. Dall'«effetto Pigou» sono invece
esclusi i crediti che alcuni membri del settore privato vantano nei
confronti di altri membri dello stesso settore. In questo caso il beneficio
che la deflazione apporta ai creditori è controbilanciato, si ritiene, dal
danno che essa infligge ai debitori.

Il secondo argomento si basa su quello che viene chiamato «effetto Keynes»
(ma che con Keynes ha, come vedremo, ben poco a che fare): la riduzione dei
prezzi, aumentando il valore reale della quantità di moneta in circolazione,
dà luogo, non diversamente da un aumento di quest'ultima quantità, a una
diminuzione dei tassi di interesse, che a sua volta esercita un'influenza
positiva sugli investimenti (e sui consumi, nella misura in cui sono
anch'essi finanziati tramite l'indebitamento).

A proposito dell'«effetto Pigou» si deve, prima di tutto, osservare che la
tendenza della teoria economica contemporanea a trattare i comportamenti del
settore privato come se fossero imputabili a un soggetto unico (l'«agente
rappresentativo») nasconde la profonda diversità che esiste fra i
comportamenti e il ruolo economico dei debitori e quelli dei creditori.
Secondo una felice formulazione di J. Tobin, se qualcuno si indebita ha di
solito una buona ragione per farlo. La buona ragione è ovviamente
rappresentata da un'elevata propensione alla spesa -più elevata di quella di
chi preferisce dare a prestito il proprio denaro piuttosto che spenderlo. A
indebitarsi è chi desidera consumare più di quanto guadagni e chi intende
rischiare il denaro altrui (oltre che, eventualmente, il proprio) nelle
iniziative imprenditoriali.

I debiti e gli interessi sono pagati dai consumatori con i redditi monetari
degli anni successivi. E se i prezzi dei prodotti, e dunque i redditi
monetari di chi partecipa alla produzione, diminuiscono nel tempo, il
servizio del debito assorbirà una parte crescente degli introiti dei
consumatori. A ciò va aggiunto che i consumatori non possiedono solo
banconote e titoli di stato, il cui valore nominale rimane invariato, ma
anche case e azioni, i cui prezzi, in condizioni di deflazione, tenderanno
anch'essi a diminuire (quelli delle case di solito con un certo ritardo). Ed
è ben noto che i prezzi delle case e delle azioni sono soggetti a
diminuzioni assai più rapide e pronunciate di quelle dei prezzi dei
prodotti. Così la deflazione, se da una parte arricchisce i possessori di
banconote e titoli di stato, dall'altra impoverisce i possessori di case e
di azioni. A un «effetto ricchezza» positivo (l'«effetto Pigou») fa così
riscontro un più potente «effetto ricchezza» negativo: vedendosi impoveriti,
i possessori di case e azioni riducono i consumi. Poiché, inoltre, case e
azioni rappresentano spesso la garanzia sulla cui base viene concesso il
credito al consumo, la caduta dei loro prezzi determina la contrazione di
tale forma di credito.

Le imprese, dal canto loro, pagano i debiti e gli interessi con i proventi
della vendita delle merci che esse producono. E se i prezzi delle merci
diminuiscono nel tempo, il servizio del debito assorbirà una parte crescente
della produzione. Impoverendo le imprese, la deflazione colpisce il motore
stesso dell'economia di mercato - i soggetti dalle cui decisioni dipende in
larga misura il livello dell'attività produttiva e dell'occupazione. E ci è
di scarso conforto il pensiero che la ricchezza reale sottratta alle imprese
venga trasferita ai loro creditori. Per i quali si aggrava, d'altronde, il
rischio che le imprese non siano in grado di far fronte ai propri impegni.

Tale rischio assume un ruolo del tutto particolare quando le imprese sono
indebitate con le banche, e non direttamente con i privati. Le difficoltà in
cui le imprese si dibattono allarmeranno, infatti, le banche, le quali
cercheranno di ridurre la parte del loro patrimonio formata da debiti delle
imprese e, per la parte restante, tenderanno a prediligere impieghi il più
possibile liquidi e privi di rischi. E se la banca centrale espanderà la
base monetaria nel tentativo di rilanciare l'economia, assisteremo al
paradosso di un credit crunch che ha luogo proprio quando le banche nuotano
nella liquidità.

Per quanto riguarda l'«effetto Keynes», va osservato che l'esborso monetario
richiesto dall'investimento precede di molto gli introiti monetari che da
esso ci si attendono. Ne segue che l'aspettativa di prezzi calanti deprime i
saggi di rendimento attesi (l'«efficienza marginale del capitale»). Alcuni
progetti di investimento verranno abbandonati, altri verranno rinviati per
trarre vantaggio dalla diminuzione dei prezzi dei beni capitali (a un
analogo rinvio potrà essere soggetto l'acquisto di alcuni beni di consumo).
La conclusione cui Keynes perviene è che l'effetto negativo della caduta dei
prezzi sulle aspettative si unisce a quello sull'onere reale dei debiti
nell'esercitare un'influenza depressiva sulla domanda aggregata che come
minimo compensa, e probabilmente sopravanza, l'influenza espansiva della
diminuzione dei tassi di interesse. Nei termini dei moderni libri di testo,
la posizione di Keynes può essere descritta mediante una «curva della
domanda aggregata» (rispetto al livello dei prezzi) verticale, se non
addirittura inclinata positivamente. Altro che «effetto Keynes»!

Chi crede (diversamente da Keynes) nell'«effetto Keynes», ma è altresì
consapevole dei guasti provocati dalla deflazione ha cercato di riconciliare
la teoria con la realtà rispolverando il vetusto concetto di «trappola della
liquidità», ossia facendo riferimento all'esistenza di un limite minimo
(identificato ormai, sulla base dell'esperienza giapponese, con lo zero) al
di sotto del quale il tasso di interesse nominale non può essere spinto né
dalla caduta dei prezzi, né dalla politica monetaria. Benché i guasti della
deflazione non richiedano affatto, per manifestarsi, che si verifichi la
«trappola della liquidità» (né Keynes li metteva in alcun modo in relazione
con essa), l'argomento ha il merito di richiamare l'attenzione su un
problema reale: l'inefficacia della politica monetaria nel far ripartire gli
investimenti. Inefficacia che ha però la sua radice ultima nella circostanza
che la politica monetaria, come sapevano gli economisti del passato, svolge
un ruolo puramente permissivo: essa consente di investire a chi ha motivi
per farlo, ma non obbliga nessuno a investire se i motivi per farlo
difettano perché la domanda è depressa e i prezzi cadono. Sicché la politica
monetaria resterebbe inefficace anche se i tassi di interesse potessero
diminuire (e le banche non fossero restie a espandere il credito). Ma se è
così, qualche sollievo può venire solo da una politica fiscale espansiva -
benché una simile politica sia comunemente descritta come buona solo a
creare inflazione (in un'economia che s'immagina perennemente incollata al
reddito potenziale), e si cantino piuttosto le lodi delle politiche
restrittive, che non deprimerebbero la domanda aggregata, ma ne
modificherebbero soltanto la composizione (a favore, in particolare, degli
investimenti).

Resta da accennare a un'altra via attraverso la quale si dice che la caduta
dei prezzi potrebbe esercitare un'influenza positiva sulla domanda aggregata
e sul livello dell'attività produttiva: l'accresciuta competitività dei
prodotti nazionali sia sul mercato interno che sui mercati esteri. La
difficoltà pratica di cavalcare il deprezzamento del cambio reale come
strumento di sostegno della domanda nazionale a scapito dei concorrenti è,
tuttavia, resa evidente dal disperato tentativo del Giappone di opporsi
all'apprezzamento nominale dello yen nei confronti del dollaro. Ed appare
concreto, più in generale, il rischio che una simile linea di condotta
finisca per esportare la deflazione da un paese all'altro e per provocare
una catena di svalutazioni competitive.

Se la diminuzione dei prezzi è fonte di nefaste conseguenze, che vengono
sempre più largamente riconosciute, e turbano in misura crescente i sonni
dei banchieri centrali, com'è che la teoria economica la descrive invece
come la panacea di ogni male? Come si è arrivati a una divaricazione così
forte fra teoria economica e il buon senso? In un editoriale sui rischi
della deflazione, l'Economist si giustifica per aver a suo tempo appoggiato
con forza l'obiettivo di un tasso di inflazione compreso fra lo zero e il 2
per cento, con l'argomento che «la cosa aveva un senso a quei tempi, quando
la priorità era ridurre le aspettative inflazionistiche e la deflazione era
confinata a polverosi libri di testo». Polverosi libri di testo, ecco il
punto. Com'è breve la memoria degli economisti! Quel che tutti sapevano
benissimo negli anni '20 e '30, quando i prezzi cadevano, e di molto, è
stato rapidamente dimenticato non appena i prezzi hanno smesso di cadere.
(Parliamo naturalmente del livello dei prezzi osservabile nei paesi
centrali; perché nei paesi periferici, esportatori di prodotti primari, i
prezzi non hanno mai smesso di cadere rovinosamente ogni volta che nei paesi
centrali venivano adottate politiche monetarie restrittive.)

Ma si dimentica, nella storia dell'economia politica come nella vita, quel
che si ha motivo di dimenticare. Alla base della strana dimenticanza di cui
ci occupiamo vi è una linea di pensiero che, bollando la teoria keynesiana
come «teoria della depressione», ne ha circoscritto la rilevanza a un caso
particolare: il «caso keynesiano», appunto. Al di fuori del quale ritiene
restino validi, sia pure su basi in parte nuove, i principi della teoria
economica pre-keynesiana.