[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
venture capital poca voglia di rischio
- Subject: venture capital poca voglia di rischio
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 3 Jun 2003 06:50:57 +0200
dal sole24ore Sabato 31 Maggio 2003 Venture capitalist, poca voglia di rischio MILANO - Il business di far nascere i business è un mestiere faticoso. «Fino a due anni fa - racconta Elserino Piol, il più famoso dei (pochi) venture capitalist italiani - sulla mia scrivania piovevano fra le 40 e le 50 proposte al giorno». Ai tempi gloriosi dell'Internetmania, quando i capelli grigi erano off limits e orde di giovani transfughi dalle università e dalle banche rincorrevano sogni di ricchezza istantanea, colui che dispensava capitali di ventura da investire in nuove iniziative era più corteggiato di un produttore di Hollywood. «Oggi - aggiunge Piol - siamo tutti lì ad aspettare che il mercato si risollevi e che ripartano i collocamenti in Borsa. Di proposte, ne arrivano ormai solo una o due al mese. Ma tanto è inutile: per ora di investimenti non ne facciamo». Il business di far nascere i business è un mestiere faticoso anche perché tutti i venture capitalist nati in Europa fra il '99 e il 2000 sono stati spazzati via dalla storia: in particolare, quelli che hanno investito solo sulla ricchezza istantanea di Internet, hanno perso tutto. Magari non uno come Piol, che ha allevato per tempo Tiscali e l'ha accompagnata al fatuo tripudio di Borsa, vendendo (sempre per tempo) parte delle azioni in portafoglio. Non la Kleiner Perkins di Palo Alto, la prima società americana di venture capital che, con un fondo inaugurato nel "lontano" 1996, è riuscita a portare a casa un rendimento medio annuo del 287 per cento. Ma tutti quelli che sono arrivati troppo tardi ci hanno rimesso le penne. Distanza Usa-Ue. Eppure, il mestiere di far nascere i business è a dir poco indispensabile. L'Economia della Conoscenza - idee e innovazioni come moltiplicatori di ricchezza - ha bisogno di capitali di rischio per nascere e prosperare. E, nonostante il momento sia difficile su entrambe le sponde dell'Atlantico, la distanza che separa gli Stati Uniti dall'Europa, solo in parte colmata negli ultimi anni, rimane consistente. Nel 2000 - l'anno boom di questo settore - i fondi americani di venture capital avevano raccolto 106,7 miliardi di dollari e quelli europei 48. Ma questo è ancora un dato che non dice la verità. In Europa, a fare la parte del leone è il private equity (un altro termine inglese che include i finanziamenti ad aziende già esistenti e in utile, e i finanziamenti per comprare intere società): nell'anno d'oro 2000 i fondi raccolti dal venture capital sono stati solo il 25% di quei 48 miliardi. Nel 2002, secondo le stime preliminari dell'Evca, l'European Venture Capital Association (che annuncerà i dati definitivi la settimana prossima, dal 4 al 6, durante un congresso a Vienna), nell'ultimo trimestre i fondi investiti nelle startup sono stati solo il 5% del totale. Peraltro, nel 2002 l'attività si è ulteriormente contratta rispetto al già difficile 2001: 19,4 miliardi di fondi raccolti (contro i 38,2 dell'anno precedente). In compenso, gli investimenti sono formalmente aumentati da 24,3 a 27,2 miliardi, ma solo grazie al buon andamento del private equity: i finanziamenti alle nuove iniziative imprenditoriali sono ammontati a soli 2,6 miliardi. A dire il, con la crisi in corso, i fondi americani hanno interrotto gli investimenti ancora più drasticamente, ma restano con la bellezza di 85 miliardi di dollari in tasca, ancora da spendere. Il che non è un grande problema per i venture capitalist, visto che su quella montagna di denaro si prendono comunque una commissione fra il 2 e il 2,5% all'anno (e solo una minoranza ha onestamente restituito parte dei fondi agli investitori). Ma resta il fatto che, se un americano e un europeo hanno una buona idea per far nascere una società high-tech, il primo avrà molte più opportunità del secondo. La mano pubblica. «L'Europa è storicamente indietro - commenta Anna Gervasoni, direttore generale dell'Aifi, l'associazione italiana del venture capital e private equity - anche se la crisi in corso ha colpito più gli Stati Uniti di noi. Di sicuro però occorre trovare nuovi modelli e nuove soluzioni per recuperare questo svantaggio. Non possiamo abdicare». Il modello europeo, questo appare già chiaro, passa dalla mano pubblica. L'Unione europea, che ha stanziato 15 miliardi di euro in cinque anni per la ricerca di base, sta studiando come convogliare sempre maggiori risorse verso il venture capital: un buon segnale arriva dal piano Investing in research, presentato tre settimane fa dal commissario Philippe Busquin, che prevede di aumentare gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo tecnologico dall'1,9 al 3% del Pil europeo, entro il 2010. Intanto, solo l'anno scorso la Banca Europea degli Investimenti ha riversato 1,7 miliardi nel venture capital. «La Sicilia - prosegue Gervasoni - sta per lanciare un fondo per le startup e noi gli stiamo dando una mano. Al ministero dell'Economia abbiamo fatto delle proposte, ma per ora senza ottenere risposte. In Italia, le più attive restano le Regioni: peccato che siano 20 e tutte con idee e prospettive diverse». «L'innovazione ha bisogno del venture capital - ribatte Piol - ma non vorrei che la burocrazia finisse per ostacolare entrambi». Tre fattori di crescita. A detta di Piol, per la vera ripresa c'è bisogno di tre cose: che nuove imprese high-tech di successo diano l'esempio; che fondi pensioni e altri investitori istituzionali aprano il portafoglio agli investimenti "a rischio"; che i Paesi europei rivedano la normativa fallimentare adottando un approccio meno rigido, come quello previsto dal Chapter 11 americano. Ma questo non vuol dire che anche i venture capitalist non debbano ritoccare qualcosa. Negli ultimi anni «abbiamo finanziato aziende che operano nel mercato di massa - ha ammesso Jean-Bernard Schmidt, prossimo presidente dell'Evca, in un'intervista a Business Week - e questo col venture capital non c'entra nulla. Adesso stiamo tornando al terreno che ci appartiene: finanziare la nascita di aziende tecnologiche e biotecnologiche». Intanto però, ora che l'atmosfera è cambiata, i capelli grigi sono tornati di moda: i pochi progetti che vengono finanziati - ammettono gli addetti ai lavori - sono quelli proposti da manager con una solida esperienza alle spalle. I capitali di rischio hanno voglia di correre qualche rischio in meno. Se la Borsa langue. La ripresa però non è agganciata solo ai successi della ricerca scientifica o al flusso delle idee, per le quali l'Europa non è poi messa così male. «Il momento è difficile - commenta Christopher Spray di Atlas Venture, a Londra - ma tanto il numero di imprenditori che la qualità dell'innovazione non sono mai stati così elevati». La ripresa dipende dell'intonazione dei mercati finanziari, tutt'oggi depressa dopo l'ubriacatura di fine Novecento. Quando s'imbarcano in un'impresa, i capitalisti di ventura vogliono disporre anche di una porta per uscirne (e al tempo stesso guadagnarci). Ma se le Borse languono, i collocamenti azionari sono praticamente inesistenti. L'anno scorso, i venture capitalist del Vecchio Continente hanno disinvestito fondi per 8,1 miliardi di euro: in gran parte tramite svalutazioni di portafoglio (e quindi in perdita), per un terzo con vendite (quando è andata bene in pareggio) e solo per l'1,1% attraverso i collocamenti in Borsa. E quando si riprenderà, questo mercato? «È la fatidica domanda da un milione di dollari - risponde Piol - Io direi nel 2005. Ma conosco qualcuno più ottimista e qualcun altro molto più pessimista di me». Se un venture capitalist conoscesse l'esatta risposta, potrebbe scoprire che questo è il momento giusto per investire. Del resto, il business di far nascere i business richiede nervi saldi e soprattutto una perfetta scelta di tempo. Ecco perché è un mestiere potenzialmente d'oro e - anche quando la scrivania non è più inondata di proposte d'affari - così faticoso. MARCO MAGRINI
- Prev by Date: il fallimento di banca mondiale e fmi
- Next by Date: rifiuti: il 75% va ancora in discarica
- Previous by thread: il fallimento di banca mondiale e fmi
- Next by thread: rifiuti: il 75% va ancora in discarica
- Indice: