venture capital poca voglia di rischio



dal sole24ore Sabato 31 Maggio 2003

Venture capitalist, poca voglia di rischio

  MILANO - Il business di far nascere i business è un mestiere faticoso.
«Fino a due anni fa - racconta Elserino Piol, il più famoso dei (pochi)
venture capitalist italiani - sulla mia scrivania piovevano fra le 40 e le
50 proposte al giorno». Ai tempi gloriosi dell'Internetmania, quando i
capelli grigi erano off limits e orde di giovani transfughi dalle università
e dalle banche rincorrevano sogni di ricchezza istantanea, colui che
dispensava capitali di ventura da investire in nuove iniziative era più
corteggiato di un produttore di Hollywood. «Oggi - aggiunge Piol - siamo
tutti lì ad aspettare che il mercato si risollevi e che ripartano i
collocamenti in Borsa. Di proposte, ne arrivano ormai solo una o due al
mese. Ma tanto è inutile: per ora di investimenti non ne facciamo». Il
business di far nascere i business è un mestiere faticoso anche perché tutti
i venture capitalist nati in Europa fra il '99 e il 2000 sono stati spazzati
via dalla storia: in particolare, quelli che hanno investito solo sulla
ricchezza istantanea di Internet, hanno perso tutto. Magari non uno come
Piol, che ha allevato per tempo Tiscali e l'ha accompagnata al fatuo
tripudio di Borsa, vendendo (sempre per tempo) parte delle azioni in
portafoglio. Non la Kleiner Perkins di Palo Alto, la prima società americana
di venture capital che, con un fondo inaugurato nel "lontano" 1996, è
riuscita a portare a casa un rendimento medio annuo del 287 per cento. Ma
tutti quelli che sono arrivati troppo tardi ci hanno rimesso le penne.
Distanza Usa-Ue. Eppure, il mestiere di far nascere i business è a dir poco
indispensabile. L'Economia della Conoscenza - idee e innovazioni come
moltiplicatori di ricchezza - ha bisogno di capitali di rischio per nascere
e prosperare. E, nonostante il momento sia difficile su entrambe le sponde
dell'Atlantico, la distanza che separa gli Stati Uniti dall'Europa, solo in
parte colmata negli ultimi anni, rimane consistente. Nel 2000 - l'anno boom
di questo settore - i fondi americani di venture capital avevano raccolto
106,7 miliardi di dollari e quelli europei 48. Ma questo è ancora un dato
che non dice la verità. In Europa, a fare la parte del leone è il private
equity (un altro termine inglese che include i finanziamenti ad aziende già
esistenti e in utile, e i finanziamenti per comprare intere società):
nell'anno d'oro 2000 i fondi raccolti dal venture capital sono stati solo il
25% di quei 48 miliardi. Nel 2002, secondo le stime preliminari dell'Evca,
l'European Venture Capital Association (che annuncerà i dati definitivi la
settimana prossima, dal 4 al 6, durante un congresso a Vienna), nell'ultimo
trimestre i fondi investiti nelle startup sono stati solo il 5% del totale.
Peraltro, nel 2002 l'attività si è ulteriormente contratta rispetto al già
difficile 2001: 19,4 miliardi di fondi raccolti (contro i 38,2 dell'anno
precedente). In compenso, gli investimenti sono formalmente aumentati da
24,3 a 27,2 miliardi, ma solo grazie al buon andamento del private equity: i
finanziamenti alle nuove iniziative imprenditoriali sono ammontati a soli
2,6 miliardi. A dire il, con la crisi in corso, i fondi americani hanno
interrotto gli investimenti ancora più drasticamente, ma restano con la
bellezza di 85 miliardi di dollari in tasca, ancora da spendere. Il che non
è un grande problema per i venture capitalist, visto che su quella montagna
di denaro si prendono comunque una commissione fra il 2 e il 2,5% all'anno
(e solo una minoranza ha onestamente restituito parte dei fondi agli
investitori). Ma resta il fatto che, se un americano e un europeo hanno una
buona idea per far nascere una società high-tech, il primo avrà molte più
opportunità del secondo. La mano pubblica. «L'Europa è storicamente
indietro - commenta Anna Gervasoni, direttore generale dell'Aifi,
l'associazione italiana del venture capital e private equity - anche se la
crisi in corso ha colpito più gli Stati Uniti di noi. Di sicuro però occorre
trovare nuovi modelli e nuove soluzioni per recuperare questo svantaggio.
Non possiamo abdicare». Il modello europeo, questo appare già chiaro, passa
dalla mano pubblica. L'Unione europea, che ha stanziato 15 miliardi di euro
in cinque anni per la ricerca di base, sta studiando come convogliare sempre
maggiori risorse verso il venture capital: un buon segnale arriva dal piano
Investing in research, presentato tre settimane fa dal commissario Philippe
Busquin, che prevede di aumentare gli investimenti nella ricerca e nello
sviluppo tecnologico dall'1,9 al 3% del Pil europeo, entro il 2010. Intanto,
solo l'anno scorso la Banca Europea degli Investimenti ha riversato 1,7
miliardi nel venture capital. «La Sicilia - prosegue Gervasoni - sta per
lanciare un fondo per le startup e noi gli stiamo dando una mano. Al
ministero dell'Economia abbiamo fatto delle proposte, ma per ora senza
ottenere risposte. In Italia, le più attive restano le Regioni: peccato che
siano 20 e tutte con idee e prospettive diverse». «L'innovazione ha bisogno
del venture capital - ribatte Piol - ma non vorrei che la burocrazia finisse
per ostacolare entrambi». Tre fattori di crescita. A detta di Piol, per la
vera ripresa c'è bisogno di tre cose: che nuove imprese high-tech di
successo diano l'esempio; che fondi pensioni e altri investitori
istituzionali aprano il portafoglio agli investimenti "a rischio"; che i
Paesi europei rivedano la normativa fallimentare adottando un approccio meno
rigido, come quello previsto dal Chapter 11 americano. Ma questo non vuol
dire che anche i venture capitalist non debbano ritoccare qualcosa. Negli
ultimi anni «abbiamo finanziato aziende che operano nel mercato di massa -
ha ammesso Jean-Bernard Schmidt, prossimo presidente dell'Evca, in
un'intervista a Business Week - e questo col venture capital non c'entra
nulla. Adesso stiamo tornando al terreno che ci appartiene: finanziare la
nascita di aziende tecnologiche e biotecnologiche». Intanto però, ora che
l'atmosfera è cambiata, i capelli grigi sono tornati di moda: i pochi
progetti che vengono finanziati - ammettono gli addetti ai lavori - sono
quelli proposti da manager con una solida esperienza alle spalle. I capitali
di rischio hanno voglia di correre qualche rischio in meno. Se la Borsa
langue. La ripresa però non è agganciata solo ai successi della ricerca
scientifica o al flusso delle idee, per le quali l'Europa non è poi messa
così male. «Il momento è difficile - commenta Christopher Spray di Atlas
Venture, a Londra - ma tanto il numero di imprenditori che la qualità
dell'innovazione non sono mai stati così elevati». La ripresa dipende
dell'intonazione dei mercati finanziari, tutt'oggi depressa dopo
l'ubriacatura di fine Novecento. Quando s'imbarcano in un'impresa, i
capitalisti di ventura vogliono disporre anche di una porta per uscirne (e
al tempo stesso guadagnarci). Ma se le Borse languono, i collocamenti
azionari sono praticamente inesistenti. L'anno scorso, i venture capitalist
del Vecchio Continente hanno disinvestito fondi per 8,1 miliardi di euro: in
gran parte tramite svalutazioni di portafoglio (e quindi in perdita), per un
terzo con vendite (quando è andata bene in pareggio) e solo per l'1,1%
attraverso i collocamenti in Borsa. E quando si riprenderà, questo mercato?
«È la fatidica domanda da un milione di dollari - risponde Piol - Io direi
nel 2005. Ma conosco qualcuno più ottimista e qualcun altro molto più
pessimista di me». Se un venture capitalist conoscesse l'esatta risposta,
potrebbe scoprire che questo è il momento giusto per investire. Del resto,
il business di far nascere i business richiede nervi saldi e soprattutto una
perfetta scelta di tempo. Ecco perché è un mestiere potenzialmente d'oro e -
anche quando la scrivania non è più inondata di proposte d'affari - così
faticoso.

MARCO MAGRINI