venezuela democrazia e petrolio



il manifesto - 19 Aprile 2003

Bolivar, democrazia e petrolio
A un anno di distanza dall'effimero golpe che lo depose e dopo il lungo
sciopero organizzato a Washington, l'indio Hugo Chavez è ancora presidente
del Venezuela. Per risollevare il paese punta sulla «democrazia
partecipativa»: il referendum voluto dalle destre, tra un anno, decreterà
l'esito della sua scommessa
LUCIANA CASTELLINA
Caracas, solo un anno fa: la Federcamera (locale confindustria), la
dirigenza della più grande impresa del paese, la petrolifera Pdvsa - 80%
delle entrate in divisa e metà del bilancio statale - il sindacato dei
petrolieri (o, meglio, la burocrazia dell'organizzazione strettamente
integrata al consiglio d'amministrazione della azienda pubblica, centinaia
di migliaia di dollari di stipendio a testa per uno strabocchevole numero di
quadri), una parte delle Forze Armate e l'alta gerarchia ecclesiastica si
erano finalmente liberati dal «selvaggio» indio - il presidente Hugo Chavez
Frias. Le sue colpe? Aver bloccato i piani di privatizzazione del petrolio
inserendo il divieto di vendita addirittura nella Costituzione, licenziato
il Consiglio d'amministrazione della Pdvsa ( i cui costi di gestione
assorbivano quasi il 70% del fatturato), varato 48 leggi popolari, fra cui
quella che espropriava in favore dei contadini la terra dei latifondisti
assenteisti (una legge non dissimile da quella varata in Italia nel '48). La
sinistra di tutto il mondo (quella - poca - che si accorge di quel che
succede fuori del bacino atlantico) pianse, e annoverò il caso fra le
infinite e fatali disgrazie dell'America Latina. La destra gioì, Fondo
Monetario, governi e il ministro degli esteri di Spagna a nome dell'Unione
europea salutarono l'uscita di scena dello scomodo ex colonnello che si era
insediato nel palazzo di Villa Flores, congratulandosi per «la restaurazione
degli elementi essenziali della democrazia in Venezuela», come ebbe a
dichiarare il portavoce della Casa Bianca. E invece, poche ore dopo, Chavez
era di nuovo in sella, riportato al suo posto dallo stesso popolo che per
due volte consecutive lo aveva democraticamente eletto alla presidenza,
infuriato per il golpe e sufficientemente forte e convincente per indurre
l'altra parte dell'esercito a difendere la legittimità democratica.

E' naturale che a un anno di distanza da quei giorni drammatici ma anche
singolari - mai era accaduto che manifestazioni di strada fossero costrette
a riaffermare un esito delle urna, riuscendo a sconfiggere un colpo di stato
già internazionalmente riconosciuto - la Repubblica bolivariana di Venezuela
celebrasse con fierezza l'anniversario, invitando a condividere il proprio
orgoglio una variegata schiera di esponenti della sinistra mondiale: dal
direttore di Le Monde Diplomatique al vicepresidente di Cuba Ricardo Lague,
passando per tutte le icone delle rivoluzioni vincenti, sconfitte,
resuscitate in forme elettorali (è il caso del Salvador, per esempio), più
un buon numero di accademici legati al Forum di Porto Alegre. Che ha del
resto rappresentato il modello per questo «Incontro mondiale di solidarietà
con la rivoluzione bolivariana», tantissimi seminari cui hanno partecipato
15.000 ragazzi, quelli che hanno potuto registrarsi perché altrettanti, non
previsti, sono rimasti fuori dalle molte e enormi aule che pure non hanno
potuto contenerli tutti. Fra loro moltissimi latino americani e,
naturalmente, tutte le possibili variopinte minoranze del mondo che ogni
rivoluzione attrae come il miele le mosche.11 A, 12 A, 13 A: in questa forma
abbreviata i tre giorni vengono ricordati dai vincitori (che però, sebbene
al potere e sempre attaccati come dittatori, non hanno tutt'ora nemmeno un
quotidiano e una Tv, se non il canale istituzionale) e dagli sconfitti (che
sono invece una potenza mediatica, al punto da aver tenuto i venezuelani al
buio più totale su quanto stava accadendo durante il golpe se non per
annunciare che il presidente Chavez aveva dato le dimissioni e non era
affatto vero) .

Aprile 2002

I «bolivariani» li chiamano anche in un altro modo: l'11 aprile, il «giorno
della tragedia» (nel corso delle due manifestazioni contrapposte che si
svolsero in un clima tesissimo furono sparati colpi d'arma da fuoco di
provenienza oscura che lasciarono sul terreno 18 morti e un centinaio di
feriti); il 12, il «giorno della vergogna» (quando Chavez fu sequestrato e
imprigionato e la giunta golpista assunse il potere, sciogliendo il
parlamento); il 13, «il giorno della dignità», quando il popolo, anziché
rassegnarsi e impaurirsi, scese in piazza, cinse d'assedio il palazzo di
Miraflores, mise pacificamente in fuga «gli squallidi» e liberò il suo
presidente. Insomma: un voto da democrazia parlamentare più una rivoluzione.

Pochi, in occidente, ricordano come realmente si svolse la vicenda. La
raccontano le immagini di uno straordinario film - che abbiamo visto a
Caracas assieme a migliaia dei protagonisti - girato da due registi
irlandesi che sono riusciti a documentare passo per passo i tumultuosi e
rapidissimi accadimenti. I volti dell'una e dell'altra parte parlano da soli
e testimoniano - come negli affreschi di Diego Rivera - di uno scontro di
classe durissimo e assieme elementare: da una parte l'oligarchia avvinghiata
ai suoi storici privilegi, dall'altra un proletariato che con Chavez aveva
strappato il diritto a vedere finalmente distribuita la rendita che viene
dalla grande ricchezza del paese, il petrolio.

L'asprezza del confronto, l'assenza di mediazioni, sono state come è noto
aspramente rimproverati a Chavez dall'ala moderata di una stessa parte della
sinistra. Ma c'è da chiedersi se in un paese socialmente così radicalizzato,
senza interlocutori credibili (i vecchi partiti sono stati travolti negli
anni `90 e non esistono ormai che sulla carta, il sindacato ufficiale è
integrato e corrotto, al loro posto solo delle televisioni, unici soggetti
politici che a modo loro fanno il bello e il cattivo tempo), e per di più
con sul collo il fiato pesante degli Stati uniti che già descrivono il
Venezuela come un altro stato canaglia, perché - sostengono - Caracas
sarebbe santuario per i guerriglieri delle Farc (e a questo fine organizzano
con la connivenza del governo di Bogotà continue provocazioni alla frontiera
con una Columbia ormai totalmente militarizzata). Tenuto conto di tutto ciò
c'è da chiedersi davvero se un'altra strada sarebbe stata percorribile.
Tanto più che non si può certo rimproverare a Chavez di non rispettare il
pluralismo: nessuno è in galera, nemmeno i golpisti e la libertà di stampa è
iper-rispettata, al punto che per mesi la destra e lo pseudo sindacato hanno
paralizzato l'economia del paese con un «paro» totale, portandolo sull'orlo
della catastrofe. Finché Chavez ha perso la pazienza - ma chi non l'avrebbe
persa? - e ha arrestato i leader di quella che è stata definita sedizione e
attentato alla sicurezza dello stato, lasciando comunque che i tre
principali responsabili si rifugiassero all'estero. Difficile, francamente,
interpretare la vicenda come repressione antisindacale, come pure ha fatto
la Cisl internazionale. Che continua a non «vedere» il nuovo sindacato
ricostruito dalla base.

Dal barrio al potere

Da dove viene questo indio simpatico e popolarissimo, già diventato un idolo
dell'America latina ribelle? Viene dalla estrema periferia del Venezuela, lo
stato di Barina, figlio di maestri elementari indi, diventato militare come
molti della sua classe, complottatore nel 1992 assieme a un'ala
dell'esercito che si era levata contro lo sfacelo cui la vecchia classe
dirigente corrotta aveva portato il paese, ma che aveva dato lui stesso
l'alt al colpo di stato progettato quando l'allora presidente Carlos Andrei
Perez dette ordine di bombardare la città e Chavez si rese conto che
insistere avrebbe portato a un bagno di sangue. E per questo fu arrestato e
incarcerato per due anni.

La sua radicalizzazione era avvenuta sul campo, ma a ripercorrere nei
dettagli la sua storia si vede la traccia di casuali incontri politici: con
il vecchio Pc di Douglas Bravo, che aveva insistito su una lotta armata
ormai immaginaria e totalmente anacronistica e che però qualcosa aveva
insegnato al fratello maggiore di Hugo, studente all'Università di Merida.
Nel governo, essenzialmente giovane e nuovo, si ritrovano anche personaggi
di storie di sinistra assai diverse fra loro, da quella intellettuale e
moderata da cui proviene il vicepresidente Rangel a quella di «Patria por
todos», erede, sia pure indiretto, di un vecchissimo gruppo maoista, per un
decennio attivo alla base nelle campagne, poi determinante, all'inizio degli
anni `90, nella prima vera rivolta popolare contro le politiche del Fondo
monetario, e persino fra i vincitori - con il partito «Causa R» - di una
campagna elettorale municipale. E poi, naturalmente, c'è il legame con
Fidel, ancor più che politico (perché del regime castrista non c'è quasi
nulla in Venezuela) affettivo, filiale (uno dei primi provvedimenti dei
golpisti fu interrompere la fornitura di petrolio che Chavez assicurava a
Cuba).

Quando deve definire il suo pensiero Chavez cita con rispetto il marxismo,
ma non se ne sente un affiliato. Lui è bolivariano e, aggiunge
«robinsoniano», per dire che come Crusoe «o si inventa o si muore». Il suo
sogno è di far «uscire il generale dal labirinto» dice parafrasando il
titolo del libro di Garzia Marquez, di cui riprende anche l'estrema pietà
per quell'eroe dal grande pensiero strategico che per primò liberò gli
schiavi, morto, isolato e tradito, a soli 47 anni. «Ma Bolivar era solo,
oggi - aggiunge - con il suo progetto c'è il popolo».

La storia di Hugo Chavez l'ha ricostruita un giornalista del britannico
Guardian, Richard Gott. «Nel `96 ero capitato per caso in Venezuela -
racconta - inviato dal giornale per intervistare l'ex miss Universo che si
era candidata alle presidenziali e con molte speranze di successo nel vuoto
politico lasciato dal declino dei vecchi partiti, il Copei ( Dc) e Action
Democratica (socialdemocratica). Ma mentre mi recavo dalla miss il taxista,
saputo dello scopo della mia visita, mi disse che perdevo il mio tempo, che
avrei invece dovuto vedere chi sarebbe stato assai presto il nuovo
presidente del Venezuela. E mi dirottò verso un barrio proletario di Caracas
dove trovai l'ex tenente colonnello liberato dalla prigione e ormai leader
politico di un movimento di base in rapida crescita. Due anni dopo, nel `98,
la previsione del taxista si era realizzata». L'appassionante vicenda Gott
l'ha raccontata in un libro pubblicato dalla New Left Revew e sarebbe bello
se il volume fosse tradotto in Italia.

Ma la vicenda di Hugo Chavez, questa radicalità maturata a contatto con la
realtà della periferia del paese, fuori dai circoli cittadini, e che però
subisce anche le influenze di dispersi gruppetti di comunisti di varia fede,
spesso solo casualmente incontrati, è anche quella di altri nuovi leader
latino americani. Presenta qualche analogia, per esempio, con quella, pur
diversissima, del più acclamato ospite delle celebrazioni: Evo Morales,
indio cocaleros, che ha cominciato a organizzare i coltivatori della coca
(che non è cocaina, avverte, ma di per sé un normale prodotto alimentare)
dell'altipiano boliviano, fin quando il movimento non è diventato amplissimo
e scopre che se non si ha un partito si finisce sempre per esser sconfitti.
La storia del Mas - movimento autonomo socialista - costruito in modo da
evitare tutti i difetti degli odiati partiti tradizionali, anche qui è
esemplare l'incontro con qualche comunista che si reinvera nel fuoco di una
lotta sociale di massa - un'esperienza all'opposto di una costruzione da
politologi. Morales alle ultime elezioni ha quasi battuto il candidato della
destra e tutti lo indicano come il prossimo presidente della Bolivia.
Comunque il Mas è già oggi la prima forza politica parlamentare. La parola
d'ordine, per lui come per Chavez, è «democrazia partecipativa», e cioè, in
grande sintesi, non più lotte armate (sebbene l'esperienza di Cuba resti per
tutti sacra), ma nemmeno appiattimento sulla democrazia parlamentare,
protagonismo delle masse.

Un anno dopo

La tensione dei mesi scorsi è oggi in Venezuela meno forte. La destra appare
stordita e divisa. E ambo le parti - riunite attorno a un tavolo negoziale
dai mediatori inviati dall'Organizzazione degli stati americani (sotto cui,
all'ultima riunione, è per ogni buon conto scoppiata una bomba) - sono nella
sostanza arrivati a un accordo: il referendum che può revocare il presidente
si terrà, ma non, come voleva la destra, immediatamente, bensì alla scadenza
prevista dalla Costituzione. Il 19 agosto, a metà mandato, si potranno
iniziare a raccogliere le firme necessarie e perciò, fra procedure varie, si
arriverà almeno all'inizio del 2004. E comunque il governo ha già detto: se
si deve revocare, allora vanno sottoposte a referendum anche tutte le altre
cariche dello stato. Più si prolunga il tempo che Chavez ha a disposizione
per riparare alla crisi tremenda provocata dal paro (milioni di dollari
perduti ), più speranze di successo ci sono per i bolivaristi.

Ma, ovviamente, non dipende solo dalla capacità di Hugo Chavez Frias e dei
suoi compagni. La guerra in Iraq in America Latina, è vissuta assai più
drammaticamente che in Europa, nonostante la lontananza geografica. L'esito
della vicenda dipende anche da una sinistra europea per ora lontanissima e
distratta. Qui c'è chi risponde al ricatto pesante con prudenza da alcuni
giudicata eccessiva, come il Brasile, chi invece - ed è il caso del
Venezuela - con spavalderia.