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il fine giustifica i pozzi
- Subject: il fine giustifica i pozzi
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 15 Mar 2003 06:35:59 +0100
il manifesto - 07 Marzo 2003 Guerra, il fine giustifica i pozzi Il petrolio non è l'obiettivo del conflitto, è lo strumento. E la deriva bellica insegue tre elementi: costituire un protettorato che controlli le rotte del greggio più ancora dei giacimenti (agli Usa manca dai tempi dello scià), frantumare l'autonomia politica e energetica dell'Europa, rafforzare Israele e la sua egemonia militare SERGIO FINARDI Un dato che è abbondantemente circolato nelle analisi, nazionali ed internazionali di questi mesi, ovvero l'Iraq come secondo detentore mondiale di riserve petrolifere dopo l'Arabia Saudita, è contestabile. Il dato è preso dalle statistiche fornite nel 2001/2002 dall'agenzia statunitense per l'energia (Eia), ma la realtà è che - pur essendo le riserve irachene molto importanti sia nel contesto mondiale che regionale - il secondo posto nelle riserve mondiali appartiene al Canada, che nello stesso 2002 ne ha accertate per ben 180 miliardi di barili collocate principalmente nella provincia dell'Alberta (Alberta Energy & Untilities Board, stima ufficiale accolta nel World Report di Oil & Gas Journal, 23 dicembre 2002). L'Iraq è a quota 112,5 miliardi, l'Arabia Saudita a 259,3 miliardi. Inoltre, il potenziale delle riserve energetiche di Asia Centrale e Transcaucaso è stimato dalle più autorevoli fonti (riprese da chi scrive in due articoli del 27 aprile e 3 maggio 2000 sul manifesto) tra gli 85 e i 195 miliardi di barili. Il Canada è a un passo dal mercato statunitense, le riserve dell'Alberta enormi e calcolate inoltre solo sulle possibilità estrattive della tecnologia presentemente disponibile. Se nel 2001 le riserve accertate mondiali erano pari a 1.028 miliardi di barili, le riserve accertate odierne sono salite a 1.213 miliardi di barili (e tale ultima stima assume che le riserve provate dell'Asia centrale siano solo tra i 18 e i 19 miliardi di barili). La percentuale di riserve accertate dei paesi dell'Opec sul totale mondiale passa così da 79,4 a 67,5, calando di più di dieci punti percentuali. Quanto alla cosiddetta «fine» dell'era del petrolio, con riserve supposte in via di esaurimento in due o tre decenni e capacità produttive declinanti, mi limiterò a ricordare qui che - sulla base dei consumi medi degli ultimi anni, con le riserve attuali e con l'attuale tecnologia - si possono sostenere consumi al minimo per altri 60/80 anni (U.S. Geological Survey), ampiamente in grado di assorbire potenziali crescenti consumi per almeno altri 40/50 anni. E' inoltre ridicolo pensare che l'attuale orizzonte tecnologico rimanga inalterato per tre o quattro decenni. Nel 1965, si poteva sfruttare un giacimento marino solo sino a 100 metri di profondità, mentre oggi si arriva facilmente a più di 1.000 metri. In realtà, l'allarmismo sulla disponibilità di petrolio - maestri alcuni centri di ricerca statunitensi vicini all'establishment - tende a guadagnare il supporto delle popolazioni ad alto consumo per qualsiasi avventura che abbia come obiettivo apparente il controllo delle riserve (il "nostro" futuro energetico in pericolo!). Strano che non si comprenda a sinistra che ci si sta facendo inconsapevoli veicoli di questa tattica quando si pensa di "svelare" che è il controllo delle riserve irachene il "vero" obiettivo della volontà di guerra attuale («lo dicono anche loro a pagina...»). Vi sarebbe molto da dire su cosa significano in termini reali i dati sulle riserve di petrolio, che hanno un senso solo se messi in relazione a variabili di mercato e di sviluppo economico complesse. E vi sarebbe molto da dire anche sul fondamentale, quanto generalmente trascurato, ruolo che nella bilancia energetica mondiale svolgono il carbone (circa il 60% dell'elettricità statunitense viene da questa fonte e la Cina ne è grande produttore e consumatore) e il gas naturale, nella cui classifica mondiale giganteggiano Russia, Iran, Qatar e Asia Centrale. Non si capisce perchè le avventure belliche dovrebbero mirare solo al petrolio e trascurare il controllo delle altre fonti energetiche. Per comprendere il disporsi degli interessi di paesi e compagnie nell'arco geo-energetico, molto più utile sarebbe focalizzare l'attenzione non sulle riserve ma sulle capacità produttive e di raffinazione; sulle rotte e sui costi di trasporto (da 1 a 3 dollari al barile); sulla relazione tra costi di estrazione e prospettive di sviluppo; sull'incessante ridisegno della mappa dei poteri energetici. Si prenda, ad esempio, la cosiddetta crucialità energetica della produzione Opec (di cui il Medio-Oriente è solo una parte). Pur essendo alta, essa copre oggi solo il 37,3 % del consumo globale (dato di fine 2002). Gli Stati Uniti, nel 2002, hanno importato petrolio ad una media mensile di 11,3 milioni di barili al giorno e, di questi, 6,4 milioni venivano da produttori non-Opec. Dalla regione del Golfo (Kuwait e Arabia Saudita) hanno importato solo 1,75 milioni di barili al giorno, pari al 15,5% del loro fabbisogno. Aggiungendo pure il petrolio iracheno (che giunge attraverso vie traverse) e degli emirati, non si arriva al 17/18%. Nel consumo statunitense, tre soli paesi dell'area americana messi insieme contano per quasi il triplo delle forniture mediorientali: Canada (1,9 milioni di barili al giorno), Messico (1,5) e Venezuela (1,5). Si dà inoltre per scontato, sbagliando di grosso, che il controllo di, o l'influenza su, paesi con ingenti riserve si possa tradurre in semi-automatiche acquisizioni di concessioni e subitanei sfruttamenti e facili trasporti ai mercati. Vi è concordanza da parte dei maggiori analisti che gli investimenti necessari per rimettere in sesto il settore estrattivo iracheno e per arrivare a sfruttare anche solo molto parzialmente il potenziale produttivo aggiuntivo di una parte delle riserve (in particolare quelle delle aree occidentali) potrebbero raggiungere svariate decine di miliardi di dollari. L'operazione prenderebbe non meno di un decennio anche se la guerra non provocasse incendi di pozzi (circa 500 si trovano vicino a Kirkuk, a non più di 400 chilometri a nord di Baghdad) e distruzione di infrastrutture (terminali marini come Mina al-Bakr, gas e oleodotti lungo i corsi di Eufrate e Tigri). Nemmeno in un Iraq sotto protettorato statunitense le cose sarebbero così facili come si immagina certa stampa. Inoltre, è assai improbabile che i conquistatori non debbano scendere a patti con il coacervo di gruppi di interessi nazionali ed internazionali (ivi compresi quelli dell'opposizioone in esilio) che sono presenti nel settore energetico iracheno e con le consolidate tradizioni nazionaliste di tutto il quadro di alto livello, e di alta competenza tecnica, del settore petrolifero iracheno. Nell'eventuale dopo-Saddam, la torta energetica irachena dovrebbe comunque essere spartita tra parecchi soggetti e le compagnie petrolifere statunitensi e britanniche non avrebbero in mano l'asso pigliatutto. Nè è trascurabile il fatto che la caduta eventuale del regime può benissimo non coincidere con la fine del conflitto, il che sparerebbe i prezzi petroliferi a livelli di 40/50 dollari al barile per un periodo considerevole. Tale prezzo è sostenibile dall'economia mondiale solo per qualche settimana, con un consistente costo di fallimenti e perdite in molti settori economici e con un incertissimo ritorno a livelli più controllabili. Tale ritorno sarebbe poi affidato soltanto ad una prolungata superproduzione saudita e iraniana, il che farebbe aumentare a dismisura il potere di contrattazione politica di questi due paesi per un periodo non brevissimo (nell'attuale situazione delle capacità produttive aggiuntive solo questi due paesi sarebbero infatti in grado di calmierare a breve il prezzo del greggio). C'è, inoltre, da aggiungere che Russia, India e Giappone non stanno certo oggi a guardare dalla finestra gli Stati uniti impossessarsi fisicamente del controllo di un'area che è per loro strategica, vuoi per ragioni di rifornimenti essenziali, vuoi perchè incastonata nella loro area di influenza terrestre o marittima. Un loro eventuale più o meno dissimulato appoggio all'avventura bellica è oggetto di intensa trattativa e le fette di torta energetica potrebbero dover essere ulteriormente suddivise. Credo che il problema di comprendere l'attuale deriva bellicista degli establishment statunitense e britannico sia non tanto «più complesso» (più o meno tutti ritengono che non sia solo questione di petrolio), ma sostanzialmente diverso. Tre elementi - tutti concorrenti e non separabili - dovrebbero essere guardati più accuratamente. Il primo è il nodo irrisolto del gioco mediorientale statunitense: non l'Iraq, ma l'Iran. Gli Stati uniti hanno perso nel 1978 - con l'uscita di scena dello scià - una pedina fondamentale nella politica di contenimento sovietico/russo nell'area e nella gestione della cerniera che immette l'area asiatico-centrale al controllo dell'Oceano Indiano, punto di passaggio strategico delle grandi rotte energetiche e commerciali da e per l'area asiatico-orientale. L'occupazione dell'Iraq sposterebbe il controllo più a sud, ma farebbe da sostituto funzionale all'Iran dello scià. In tal senso, l'operazione bellica userebbe la carta del petrolio non già come fine, ma come mezzo da offrire in condivisione in un eventuale protettorato statunitense. Il secondo elemento è il rinnovo, in altri scenari, dell'operazione anti-europea Yugoslavia/Balcani, ove si sono mischiati - ancora via Gran Bretagna - l'obiettivo della frantumazione dell'autonomia politica dei paesi europei e l'interruzione dei progetti di autonomia energetica dell'Europa continentale via il corridoio Balcani-Mar Nero-Caucaso-Asia Centrale. Il terzo elemento, infine, è il rafforzamento della posizione israeliana nel contesto mediorientale: è almeno da quindici anni che gli uomini oggi cardine dell'Amministrazione statunitense e legati a doppio filo con la lobby pro-Sharon (i cosiddetti «neo-conservatori») stanno cercando un ridisegno dell'area medio-orientale che imponga la liquidazione della questione palestinese e renda stabilmente egemone la posizione militare di Tel Aviv, che già oggi può contare sull'unica reale capacità nucleare bellica presente nell'area mediorientale, senza contare i suoi altri programmi illegali relativi alla potenziale costruzione di armi chimiche e biologiche (si veda il dettaglio ne il manifesto dell'1 febbraio 2003). Un quarto elemento dovrebbe essere preso in considerazione se non fosse troppo difficile da provare «scientificamente»: ovvero che la spocchiosa e insopportabile autoglorificazione della attuale dirigenza statunitense, il totale e vergognoso silenzio (quando non esplicito appoggio) di buona parte dei Democratici e dei sindacati, infine un apparato mediatico che è ormai ridotto alla pura propaganda di guerra, possa avere davvero indotto gli «strateghi» a un calcolo disastrosamente sbagliato, da cui ora non possono uscire se non con una guerra foriera di caos. L'asservimento dei media accieca anche il potere e a tal proposito è bene riportare (Alexander Cockburn, The Nation, 3 marzo) che lo studente Ibrahim al-Marashi (i cui scritti e alcuni vecchi numeri della Jane's Intelligence Review sono stati, come è noto, la vera e inconsapevole fonte del ridicolo «dossier» dei servizi segreti di Blair/Powell sull'Iraq) proviene da una famiglia sciita di Baltimora; non è mai stato in Iraq; ha preso la documentazione da carte messegli a disposizioone da un esiliato iracheno del 1991, Kanan Makkiya, ben noto al Dipartimento di Stato statunitense; ha pubblicato i suoi scritti sul numero dello scorso settembre della Middle East Review of International Affairs, rivista del Gloria Center di Herzliya, Israele, il cui direttore, Barry Rubin, è stato ricercatore all'Institute for Near East Policy di Washington che è un'emanazione dell'Aipac, la più potente e reazionaria lobby israeliana statunitense, e che vede tra i suoi mentori i falchi più noti dell'Amministrazione Bush.
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