il fine giustifica i pozzi



     
il manifesto - 07 Marzo 2003 
 
Guerra, il fine giustifica i pozzi 
Il petrolio non è l'obiettivo del conflitto, è lo strumento. E la deriva
bellica insegue tre elementi: costituire un protettorato che controlli le
rotte del greggio più ancora dei giacimenti (agli Usa manca dai tempi dello
scià), frantumare l'autonomia politica e energetica dell'Europa, rafforzare
Israele e la sua egemonia militare
SERGIO FINARDI
Un dato che è abbondantemente circolato nelle analisi, nazionali ed
internazionali di questi mesi, ovvero l'Iraq come secondo detentore
mondiale di riserve petrolifere dopo l'Arabia Saudita, è contestabile. Il
dato è preso dalle statistiche fornite nel 2001/2002 dall'agenzia
statunitense per l'energia (Eia), ma la realtà è che - pur essendo le
riserve irachene molto importanti sia nel contesto mondiale che regionale -
il secondo posto nelle riserve mondiali appartiene al Canada, che nello
stesso 2002 ne ha accertate per ben 180 miliardi di barili collocate
principalmente nella provincia dell'Alberta (Alberta Energy & Untilities
Board, stima ufficiale accolta nel World Report di Oil & Gas Journal, 23
dicembre 2002). L'Iraq è a quota 112,5 miliardi, l'Arabia Saudita a 259,3
miliardi. Inoltre, il potenziale delle riserve energetiche di Asia Centrale
e Transcaucaso è stimato dalle più autorevoli fonti (riprese da chi scrive
in due articoli del 27 aprile e 3 maggio 2000 sul manifesto) tra gli 85 e i
195 miliardi di barili. Il Canada è a un passo dal mercato statunitense, le
riserve dell'Alberta enormi e calcolate inoltre solo sulle possibilità
estrattive della tecnologia presentemente disponibile. Se nel 2001 le
riserve accertate mondiali erano pari a 1.028 miliardi di barili, le
riserve accertate odierne sono salite a 1.213 miliardi di barili (e tale
ultima stima assume che le riserve provate dell'Asia centrale siano solo
tra i 18 e i 19 miliardi di barili). La percentuale di riserve accertate
dei paesi dell'Opec sul totale mondiale passa così da 79,4 a 67,5, calando
di più di dieci punti percentuali. Quanto alla cosiddetta «fine» dell'era
del petrolio, con riserve supposte in via di esaurimento in due o tre
decenni e capacità produttive declinanti, mi limiterò a ricordare qui che -
sulla base dei consumi medi degli ultimi anni, con le riserve attuali e con
l'attuale tecnologia - si possono sostenere consumi al minimo per altri
60/80 anni (U.S. Geological Survey), ampiamente in grado di assorbire
potenziali crescenti consumi per almeno altri 40/50 anni. E' inoltre
ridicolo pensare che l'attuale orizzonte tecnologico rimanga inalterato per
tre o quattro decenni. Nel 1965, si poteva sfruttare un giacimento marino
solo sino a 100 metri di profondità, mentre oggi si arriva facilmente a più
di 1.000 metri.

In realtà, l'allarmismo sulla disponibilità di petrolio - maestri alcuni
centri di ricerca statunitensi vicini all'establishment - tende a
guadagnare il supporto delle popolazioni ad alto consumo per qualsiasi
avventura che abbia come obiettivo apparente il controllo delle riserve (il
"nostro" futuro energetico in pericolo!). Strano che non si comprenda a
sinistra che ci si sta facendo inconsapevoli veicoli di questa tattica
quando si pensa di "svelare" che è il controllo delle riserve irachene il
"vero" obiettivo della volontà di guerra attuale («lo dicono anche loro a
pagina...»).

Vi sarebbe molto da dire su cosa significano in termini reali i dati sulle
riserve di petrolio, che hanno un senso solo se messi in relazione a
variabili di mercato e di sviluppo economico complesse. E vi sarebbe molto
da dire anche sul fondamentale, quanto generalmente trascurato, ruolo che
nella bilancia energetica mondiale svolgono il carbone (circa il 60%
dell'elettricità statunitense viene da questa fonte e la Cina ne è grande
produttore e consumatore) e il gas naturale, nella cui classifica mondiale
giganteggiano Russia, Iran, Qatar e Asia Centrale. Non si capisce perchè le
avventure belliche dovrebbero mirare solo al petrolio e trascurare il
controllo delle altre fonti energetiche.

Per comprendere il disporsi degli interessi di paesi e compagnie nell'arco
geo-energetico, molto più utile sarebbe focalizzare l'attenzione non sulle
riserve ma sulle capacità produttive e di raffinazione; sulle rotte e sui
costi di trasporto (da 1 a 3 dollari al barile); sulla relazione tra costi
di estrazione e prospettive di sviluppo; sull'incessante ridisegno della
mappa dei poteri energetici. Si prenda, ad esempio, la cosiddetta
crucialità energetica della produzione Opec (di cui il Medio-Oriente è solo
una parte). Pur essendo alta, essa copre oggi solo il 37,3 % del consumo
globale (dato di fine 2002). Gli Stati Uniti, nel 2002, hanno importato
petrolio ad una media mensile di 11,3 milioni di barili al giorno e, di
questi, 6,4 milioni venivano da produttori non-Opec. Dalla regione del
Golfo (Kuwait e Arabia Saudita) hanno importato solo 1,75 milioni di barili
al giorno, pari al 15,5% del loro fabbisogno. Aggiungendo pure il petrolio
iracheno (che giunge attraverso vie traverse) e degli emirati, non si
arriva al 17/18%. Nel consumo statunitense, tre soli paesi dell'area
americana messi insieme contano per quasi il triplo delle forniture
mediorientali: Canada (1,9 milioni di barili al giorno), Messico (1,5) e
Venezuela (1,5). Si dà inoltre per scontato, sbagliando di grosso, che il
controllo di, o l'influenza su, paesi con ingenti riserve si possa tradurre
in semi-automatiche acquisizioni di concessioni e subitanei sfruttamenti e
facili trasporti ai mercati.

Vi è concordanza da parte dei maggiori analisti che gli investimenti
necessari per rimettere in sesto il settore estrattivo iracheno e per
arrivare a sfruttare anche solo molto parzialmente il potenziale produttivo
aggiuntivo di una parte delle riserve (in particolare quelle delle aree
occidentali) potrebbero raggiungere svariate decine di miliardi di dollari.
L'operazione prenderebbe non meno di un decennio anche se la guerra non
provocasse incendi di pozzi (circa 500 si trovano vicino a Kirkuk, a non
più di 400 chilometri a nord di Baghdad) e distruzione di infrastrutture
(terminali marini come Mina al-Bakr, gas e oleodotti lungo i corsi di
Eufrate e Tigri). Nemmeno in un Iraq sotto protettorato statunitense le
cose sarebbero così facili come si immagina certa stampa. Inoltre, è assai
improbabile che i conquistatori non debbano scendere a patti con il
coacervo di gruppi di interessi nazionali ed internazionali (ivi compresi
quelli dell'opposizioone in esilio) che sono presenti nel settore
energetico iracheno e con le consolidate tradizioni nazionaliste di tutto
il quadro di alto livello, e di alta competenza tecnica, del settore
petrolifero iracheno. Nell'eventuale dopo-Saddam, la torta energetica
irachena dovrebbe comunque essere spartita tra parecchi soggetti e le
compagnie petrolifere statunitensi e britanniche non avrebbero in mano
l'asso pigliatutto. Nè è trascurabile il fatto che la caduta eventuale del
regime può benissimo non coincidere con la fine del conflitto, il che
sparerebbe i prezzi petroliferi a livelli di 40/50 dollari al barile per un
periodo considerevole. Tale prezzo è sostenibile dall'economia mondiale
solo per qualche settimana, con un consistente costo di fallimenti e
perdite in molti settori economici e con un incertissimo ritorno a livelli
più controllabili. Tale ritorno sarebbe poi affidato soltanto ad una
prolungata superproduzione saudita e iraniana, il che farebbe aumentare a
dismisura il potere di contrattazione politica di questi due paesi per un
periodo non brevissimo (nell'attuale situazione delle capacità produttive
aggiuntive solo questi due paesi sarebbero infatti in grado di calmierare a
breve il prezzo del greggio).

C'è, inoltre, da aggiungere che Russia, India e Giappone non stanno certo
oggi a guardare dalla finestra gli Stati uniti impossessarsi fisicamente
del controllo di un'area che è per loro strategica, vuoi per ragioni di
rifornimenti essenziali, vuoi perchè incastonata nella loro area di
influenza terrestre o marittima. Un loro eventuale più o meno dissimulato
appoggio all'avventura bellica è oggetto di intensa trattativa e le fette
di torta energetica potrebbero dover essere ulteriormente suddivise.

Credo che il problema di comprendere l'attuale deriva bellicista degli
establishment statunitense e britannico sia non tanto «più complesso» (più
o meno tutti ritengono che non sia solo questione di petrolio), ma
sostanzialmente diverso. Tre elementi - tutti concorrenti e non separabili
- dovrebbero essere guardati più accuratamente. Il primo è il nodo
irrisolto del gioco mediorientale statunitense: non l'Iraq, ma l'Iran. Gli
Stati uniti hanno perso nel 1978 - con l'uscita di scena dello scià - una
pedina fondamentale nella politica di contenimento sovietico/russo
nell'area e nella gestione della cerniera che immette l'area
asiatico-centrale al controllo dell'Oceano Indiano, punto di passaggio
strategico delle grandi rotte energetiche e commerciali da e per l'area
asiatico-orientale. L'occupazione dell'Iraq sposterebbe il controllo più a
sud, ma farebbe da sostituto funzionale all'Iran dello scià. In tal senso,
l'operazione bellica userebbe la carta del petrolio non già come fine, ma
come mezzo da offrire in condivisione in un eventuale protettorato
statunitense.

Il secondo elemento è il rinnovo, in altri scenari, dell'operazione
anti-europea Yugoslavia/Balcani, ove si sono mischiati - ancora via Gran
Bretagna - l'obiettivo della frantumazione dell'autonomia politica dei
paesi europei e l'interruzione dei progetti di autonomia energetica
dell'Europa continentale via il corridoio Balcani-Mar Nero-Caucaso-Asia
Centrale. Il terzo elemento, infine, è il rafforzamento della posizione
israeliana nel contesto mediorientale: è almeno da quindici anni che gli
uomini oggi cardine dell'Amministrazione statunitense e legati a doppio
filo con la lobby pro-Sharon (i cosiddetti «neo-conservatori») stanno
cercando un ridisegno dell'area medio-orientale che imponga la liquidazione
della questione palestinese e renda stabilmente egemone la posizione
militare di Tel Aviv, che già oggi può contare sull'unica reale capacità
nucleare bellica presente nell'area mediorientale, senza contare i suoi
altri programmi illegali relativi alla potenziale costruzione di armi
chimiche e biologiche (si veda il dettaglio ne il manifesto dell'1 febbraio
2003).

Un quarto elemento dovrebbe essere preso in considerazione se non fosse
troppo difficile da provare «scientificamente»: ovvero che la spocchiosa e
insopportabile autoglorificazione della attuale dirigenza statunitense, il
totale e vergognoso silenzio (quando non esplicito appoggio) di buona parte
dei Democratici e dei sindacati, infine un apparato mediatico che è ormai
ridotto alla pura propaganda di guerra, possa avere davvero indotto gli
«strateghi» a un calcolo disastrosamente sbagliato, da cui ora non possono
uscire se non con una guerra foriera di caos.

L'asservimento dei media accieca anche il potere e a tal proposito è bene
riportare (Alexander Cockburn, The Nation, 3 marzo) che lo studente Ibrahim
al-Marashi (i cui scritti e alcuni vecchi numeri della Jane's Intelligence
Review sono stati, come è noto, la vera e inconsapevole fonte del ridicolo
«dossier» dei servizi segreti di Blair/Powell sull'Iraq) proviene da una
famiglia sciita di Baltimora; non è mai stato in Iraq; ha preso la
documentazione da carte messegli a disposizioone da un esiliato iracheno
del 1991, Kanan Makkiya, ben noto al Dipartimento di Stato statunitense; ha
pubblicato i suoi scritti sul numero dello scorso settembre della Middle
East Review of International Affairs, rivista del Gloria Center di
Herzliya, Israele, il cui direttore, Barry Rubin, è stato ricercatore
all'Institute for Near East Policy di Washington che è un'emanazione
dell'Aipac, la più potente e reazionaria lobby israeliana statunitense, e
che vede tra i suoi mentori i falchi più noti dell'Amministrazione Bush.