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la guerra e' un pessimo affare
- Subject: la guerra e' un pessimo affare
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 13 Feb 2003 06:44:39 +0100
il manifesto - 31 Gennaio 2003 La guerra è un pessimo affare I trent'anni di azioni belliche annunciate da Bush sono una diseconomia, uno spreco di risorse a vantaggio di lobbies in crisi, la resistenza degli stati-nazione alla globalizzazione SERGIO CUSANI Sul proscenio, il mondo impaurito dalle minacce di attacchi proditori da parte dei diversi nemici ampiamente evocati, annunciati, propagandati, è pronto ad attaccare, a scendere in guerra preventiva per difendersi dal terrorismo internazionale inafferrabile e pervasivo, e dall'attacco batteriologico e chimico con mezzi tanto rudimentali quanto efficaci, anche mediaticamente. E per paura incomincia preventivamente a spendere cifre enormi: massiccia mobilitazione di uomini e mezzi, esercitazioni militari, acquisto di ingenti quantitativi di armi e servizi connessi senza preoccuparsi dei costi sociali della paura. Altre immense risorse è disponibile, sempre per paura, a dissipare nei prossimi decenni; il solo scudo stellare sottrarrà enormi risorse alla prossima generazione. Ma dietro le quinte la storia è un'altra. Dietro il proscenio dello sbandieramento minaccioso, ossessivo e giornaliero delle armi che alimenta ansie e paure, è già iniziata la vera guerra duratura che oppone un modello desueto di fare economia a un altro che tende a soppiantarlo in ogni angolo del pianeta: il passaggio dall'economia dello stato nazione all'economia globalizzata. La distanza tra questi modelli è simile a quella che c'è stata tra l'economia del baratto e quella monetaria, tra l'economia schiavistica e quella capitalistica. Questa concreta e realissima duratura guerra è in atto nel mondo intero e avrà esiti sconvolgenti per l'intera economia mondiale. Il governo Bush ha deciso di proporre al Congresso lo stanziamento di 675 miliardi di dollari di sgravi fiscali in dieci anni ai detentori di redditi alti, abbattendo le tasse sui dividendi azionari, e di sostegno alle imprese. Questa detassazione a favore dei ceti più abbienti e il sostegno alle imprese accelereranno la finanziarizzazione del sistema, favoriranno i prodotti americani, ridurranno ai minimi termini lo sviluppo delle infrastrutture e il welfare, mentre si allargherà il divario tra ricchi e poveri, ai quali verranno elargite solo e sempre briciole: poveri che non contano, non pesano, non hanno lobby, e che disertano il voto. Allo stesso tempo si riducono a un guscio vuoto i nuovi organismi di controllo della trasparenza del mercato varati, dopo i grandi scandali - dalla Enron alla Worldcom - che hanno sconvolto l'opinione pubblica americana e mondiale, con il malcelato obiettivo di tranquillizzare il risparmio soltanto su di un piano meramente comunicazionale, come correttamente rilevato dal Prof. Ugo Mattei a proposito dell'importante quanto inoperante Public Company Accounting Oversight Board. I venti di guerra esorcizzano la paura e sotterrano gli scandali. In più, la svalutazione del dollaro in atto, pilotata dalla Federal Reserve, è una misura di guerra commerciale che favorisce l'esportazione di prodotti americani, armi comprese, ma che ha l'obiettivo strategico di scardinare le principali monete ed economie potenzialmente competitive, in particolare l'Euro e l'Unione Europea. Questa miscela di misure, detassazione più svalutazione del dollaro, come del resto le risposte che va preparando l'Europa e non solo, è il prodotto della sopravvissuta logica dei blocchi contrapposti per piegare a proprio favore i rapporti di forza geoeconomici nel mondo. E laddove le guerre commerciali non risultassero sufficienti per piegare i più recalcitranti, perplessi o preoccupati anche per il crescente deficit dei conti pubblici Usa, c'è sempre lo spettro della guerra delle armi contro i tanti nemici alle porte. Questa orrifica messinscena che tiene incessantemente il mondo con il fiato sospeso nell'attesa dell'evento apocalittico, produce grandi e redditizi affari solo per quell'economia ormai priva di ragioni e parametri sociali. Insomma, incessante spauracchio di guerra armata all'orizzonte, intanto vera guerra commerciale a tutto campo. Questa è l'opzione dell'Amministrazione Bush per mettersi anche al riparo dai nemici interni, dalle masse dewelfarizzate e dall'opinione pubblica, che ne chiederebbero la testa senza possibilità di sconti per le difficoltà dell'economia pure a seguito dei grandi scandali di cui sono attori protagonisti e che hanno gettato letteralmente in miseria milioni di risparmiatori. Ma finché i nemici della guerra saranno armati solo di sacrosante ragioni morali e di ipotesi operative ancora deboli, il crepitìo delle armi continuerà. Soltanto quando i nemici della guerra riusciranno a mostrare le superiori ragioni economiche della pace e proporranno comportamenti conseguenti, allora si potrà pensare che le armi possano tacere. D'altronde, buffo cinismo, alla fin fine il business della guerra può con indifferenza fare a meno dell'effettivo scatenarsi dell'evento bellico; che potrebbe anche accadere se la macchina in armi, lanciata, continuasse per inerzia la sua folle corsa. Ma non è qui il suo business. Anzi, l'accadimento bellico crea enormi problemi: diffonde immagini terribili, suscita forti emozioni popolari difficilmente gestibili e pericolose sul piano del consenso politico. In più non divide ma compatta il movimento globale per la pace. Inoltre le altre grandi lobby delle transazioni finanziarie, dell'interscambio globale delle merci, insomma del business quotidiano - lobby cui non difettano strumenti e capacità di pressione - soffrono del fibrillante clima di guerra e della tensione continua: frena la propensione al consumo, si riducono gli investimenti, aumentano i costi delle coperture assicurative, si limitano o si chiudono le frontiere, si genera diseconomia. Il commercio internazionale (circa 6.000 miliardi di dollari all'anno) ha subìto un calo significativo in termini sia di quantità che di valore (dati Wto). Sono crollati di oltre il 50% gli investimenti tra paesi, da 1300 miliardi di dollari a poco più di 620 (dati Unctad/Onu). Sui mercati finanziari integrati e globali, l'emissione netta di titoli a reddito fisso è crollata del 40% (dati Banca dei Regolamenti Internazionali). Situazione difficilmente sostenibile a tempo indeterminato, soprattutto se la guerra divenisse effettiva. In definitiva, il mercato della paura non ha bisogno che qualcuno realmente muoia per colpa dei nemici. Che ci sia o no la guerra e, in ogni caso, non penso proprio ad una guerra estesa, all'incendio della prateria, quanto piuttosto ad azioni e provocazioni militari cinicamente circoscritte. Ma non è questo il punto. Il punto essenziale è che tutti abbiano paura di irragionevoli nemici. Evocare il pericolo del nemico e agitare di conseguenza le armi di attacco per la difesa preventiva, costituisce preventivamente già un bottino di guerra, senza colpo ferire. Il mercato della paura alimenta un mercato che senza nemici, paura, guerra, non avrebbe diritto né ragione d'esistenza nel mercato. L'economia della guerra oggi, diversamente da altri periodi storici, non si identifica con l'economia in generale. È solo un settore dell'economia che mantiene la sua forza non in virtù della capacità di creare redditi e consumi diffusi, ma unicamente per gli storici rapporti privilegiati di pochi grandi gruppi industriali con sistemi bancari elefantiaci e iniqui, e poteri politici totalmente invischiati. Un intreccio che rappresenta la causa più genuina della crisi internazionale, e su cui lo stato nazione, nei due secoli precedenti, ha costruito le sue fortune, oggi irreversibilmente incise dai processi di globalizzazione. Gli interessi della guerra sono contrari all'economia della globalizzazione: ogni volta che l'Amministrazione Bush ha urlato il peana di guerra, le borse e i mercati hanno sofferto. È di tutta evidenza che le guerre dell'ultimo quindicennio hanno distrutto più mercati di quanti ne abbiano costruiti. L'economia della guerra non è più un'economia, ma una diseconomia, che si accompagna ad una riduzione di spazi di democrazia e di welfare. La pace non è più soltanto un imperativo morale ma è diventata un'esigenza economica anche perché le ragioni della guerra non riguardano l'economia in generale, ma quella parte che senza la paura della guerra potrebbe continuare a vivere solo con trucchi di bilancio, con truffe alle masse dei piccoli azionisti, con sovvenzionamenti statali privi di ragione, con improbabili ingegnerie finanziarie garantite dalla protezione del potere politico cointeressato. Diseconomie che ci sono in Usa, come in Germania, in Italia, in Giappone e in altri paesi. Ogni stato ha il suo Bush e le sue Enron. Il grande business del futuro é la creazione di un mercato davvero globale in cui più grande impresa economica consista nel curare profittevolmente le terribili ferite inferte finora al pianeta terra e ai suoi abitanti.
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