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le due italie
- Subject: le due italie
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 15 Jan 2003 12:14:02 +0100
da caffeuropa 11 - 1 - 2003 Le due Italie Franco Tatò Quella che segue è la prefazione a www.scheletri-telecom.it (idealibri) di Umberto Sulpasso A un certo punto della sua vita, un Professore di economia, dopo aver studiato e insegnato negli Stati Uniti, scopre un insano desiderio di fare qualcosa nel suo paese di origine, sicuro che l'Italia, dopo la caduta del muro di Berlino, non possa oltre sottrarsi al proprio destino di economia di mercato. Desidera anzi dimostrare che, con un po' di spirito imprenditoriale, qualche buona idea, alcuni collaboratori ben disposti, per volontà o necessità, a correre dei rischi, si possa dare vita ad una specie di start up, una piccola impresa editoriale avanzata. Convince di questo anche alcuni amici sprovveduti, impiega capitali suoi e degli amici nell'iniziativa, fidandosi del contratto concluso con una azienda di Stato, Saritel, non per elezione, ma per necessità: l'azienda monopolista dei telefoni e di linee telefoniche ha bisogno del Professore. Alla fine dell'avventura, il Professore ha sentito il bisogno di raccontare la storia e non ha trovato altra forma che quella di un romanzo giallo da ridere. Da ridere per non piangere, perché le conclusioni che si possono trarre da questa metafora delle due Italie sono sconsolanti. Le due Italie sono la vera divisione del paese, più forte della divisione tra nord e sud, tra ricchi e poveri: da una parte l'Italia che accetta o deve accettare il rischio d'impresa, che mette in gioco le sue risorse o il suo posto di lavoro, dall'altro l'Italia del posto sicuro, dell'impiego statale, delle garanzie totali anche nell'industria privata, del privilegio, dell'inefficienza e dell'arroganza. Basta guardarsi attorno, queste due Italie ci sono. Da un lato vediamo le piccole imprese, l'artigianato, il piccolo commercio, la ristorazione, le attività di assistenza e consulenza, quelle legate al turismo, le professioni libere e così via. In questo universo assistiamo a cambiamenti rapidi e continui, alla creatività che diventa anche arte di arrangiarsi nell'assenza quasi totale di garanzie, con una presenza sindacale debolissima. Siamo di fronte a un'economia a base familiare o individuale, un mondo nel quale non si conoscono orari di lavoro, si fanno poche ferie, si imparano continuamente cose nuove. Certo non siamo in USA, anche perché la seconda Italia incombe, e perché tutto sommato in Italia è difficile prendersi sul serio. Nella situazione un po' idealizzata di questa favola criminale, si gode anche di molta libertà individuale e ci si diverte molto, almeno quando si dimentica che tutto può finire il giorno dopo e che di soldi ce n'è pochi. D'altra parte c'è un'Italia diversa, quella dell'impiego fisso fino alla pensione, l'Italia delle raccomandazioni, delle diecimila domande per tre posti di bidello. Questa mentalità del posto sicuro, della nicchia, del rifugio che una volta raggiunto ci permette di tirare un sospiro di sollievo: ce l'abbiamo fatta, ora sono gli altri che hanno bisogno di me. Per questa forma particolare di cultura dell'alienazione, il lavoro non rappresenta un modo di realizzarsi, un modo di essere, ma uno scotto da pagare alla società. L'organizzazione dell'esistenza è centrata sul tempo libero, non sul fare, ma sul vivere, qualche volta solo sul respirare. Il prevalere di questa cultura della garanzia sociale sulla cultura del servizio pubblico, che pure per qualche tempo c'è stata, ha costituito uno degli sviluppi più dannosi e, a lungo termine, più pericolosi per il futuro del nostro paese. Quando il posto di lavoro non è semplicemente la possibilità di guadagnarsi da vivere unita a quella di essere utili alla comunità, oppure uno stadio nello sviluppo delle proprie capacità professionali e pertanto qualcosa per sua natura provvisorio, ma diventa assicurazione per la vita indipendentemente dal proprio rendimento, tutti i criteri di valutazione sono stravolti. La assunzione di un impiegato non è più un contratto regolato dalle leggi dell'economia, ma un favore, una concessione, qualcosa di cui si deve essere grati e riconoscenti. Nel nostro paese era abbastanza grave che questa mentalità si fosse diffusa negli impieghi statali, con le conseguenze che tutti noi quotidianamente sperimentiamo, ma ancora più grave è stata l'estensione di garanzie analoghe a quelle dell'impiego statale alla grande industria. In teoria dovrebbero valere gli stessi criteri per tutti gli impieghi, ma la piccola industria può ancora fallire, mentre la media e la grande vengono sovvenzionate o statalizzate in caso di difficoltà accollando alla collettività il costo del rimedio alle conseguenze dell'inettitudine o dell'irresponsabilità. Si dice rimedio, ma non si ha in genere nessuna intenzione di rimediare, solo di proseguire cambiando poco o nulla. Il sistema, pur con disfunzioni e scompensi, richiedendo ai cittadini grandi doti di sopportazione, pur con l'attenuante che un numero rilevante di essi è protagonista in proprio di cose analoghe, resta in qualche modo in piedi. A livello internazionale non compete, approfitta delle opportunità quando si presentano. Per quanto tempo? Dipende dagli obiettivi che ci proponiamo. Se il nostro obiettivo è quello di diventare il primo dei paesi del terzo mondo si può andare avanti ancora per molto tempo. L'Italia è un paese ricco, soprattutto una ricchezza ereditata, ma comunque ricco, è un privilegio dei ricchi è quello di scegliere tra vivere con gli interessi del capitale o mangiarselo. Noi per ora, come dimostra il nostro sistema pensionistico e il rifiuto di milioni di lavoratori in marcia ad ogni modifica, abbiamo scelto di mangiarcelo e lasciare che i nostri figli si arrangino. Sarà l'ora triste che il nostro paese sta attraversando, ma questi sono i pensieri che mi venivano in mente mentre leggevo questa descrizione in chiave umoristica, quindi disperata, di uno scontro fra pubblico e privato, tra piccolo e grande, nell'Italia di oggi. Non ci traggano in inganno le stravaganze del Professore, non si tratta di un caso isolato, si tratta di un virus molto diffuso e al quale non è stato trovato ancora rimedio. Forse uno c'è: l'emigrazione.
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