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la spesa per interessi vera zavorra per l'italia
- Subject: la spesa per interessi vera zavorra per l'italia
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 13 Jan 2003 06:45:48 +0100
dal corriere.it 11 - 1 - 2003 Sabato 11 Gennaio 2003 L’INTERVENTO / Secondo l’ex ministro del Tesoro Visco, il governo è costretto a drenare il 3% del Pil in più rispetto ai Paesi concorrenti «La spesa per interessi, vera zavorra dell’Italia» di VINCENZO VISCO* Si discute da qualche tempo sui problemi dell’economia italiana e sulle sue prospettive. Alcuni sottolineano le difficoltà (congiunturali) derivanti dalla crisi internazionale, e la persistenza di rigidità nei mercati, altri parlano esplicitamente di un rischio di «declino». In verità, prescindendo dai problemi comuni all’Italia e ad altri Paesi europei (congiuntura e rigidità) la tesi del «declino» è sostanzialmente condivisibile. Tuttavia va chiarito che le cause del processo e il suo inizio risalgono a oltre 20 anni fa, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. E’ in quel periodo infatti che, dopo il secondo shock petrolifero, l’Italia diversamente dagli altri Paesi non riesce né a riequilibrare i conti pubblici, né ad indurre comportamenti non inflazionistici negli operatori economici. Nel decennio 1974-1984 l’inflazione media italiana risulta infatti del 15,8%; al tempo stesso per gran parte degli anni ’70 e ’80 mentre la spesa pubblica cresceva (di oltre 6 punti), si continuava a mantenere la pressione fiscale a un livello inferiore di 10 punti alla media europea. In tale contesto i conti della finanza pubblica venivano fatti tornare ex post grazie all’inflazione che svalutava il debito pubblico e i risparmi privati (imposta inflazionistica), ponendo al tempo stesso le premesse per progressive svalutazioni del cambio. Si trattava ovviamente di un modello demenziale, ma politicamente attraente dal momento che evitava scelte esplicite e dolorose. Questo approccio, a suo modo coerente, entra in crisi con l’adesione dell’Italia allo Sme (Sistema monetario europeo, ndr) e con la fine dell’obbligo della Banca Centrale di finanziare il disavanzo pubblico: i tassi di interesse reali diventano improvvisamente positivi dopo molti anni, e in assenza di ogni correzione dal lato delle entrate e delle spese comincia l’inesorabile crescita del debito pubblico italiano a causa della persistenza di forti disavanzi primari e di elevati tassi di interesse reali e nominali. Nel 1980, infatti il rapporto tra debito e Pil (Prodotto interno lordo) era ancora pari al 57,7%, nel 1987 era già salito al 91%, fino a raggiungere il 108% nel 1992 e il 124% nel 1994. Il rischio di un collasso finanziario si materializzò sia nel 1992 e successivamente nei primi mesi del 1995 e fu evitato grazie a drastici interventi di emergenza ancora vivi nella memoria degli italiani. Il periodo 1996-2001 ha segnato il ritorno alla normalità finanziaria dopo oltre 20 anni di disordine e irresponsabilità. È evidente che nella situazione descritta nessun Paese può essere gestito adeguatamente: esso può vedere il suo reddito crescere, ma non può programmare il suo futuro. Ed è nel decennio degli anni ’80 che si pongono le premesse per la crisi attuale delle grandi imprese, per l’uscita dell’Italia da settori produttivi decisivi, per il deterioramento di importanti apparati pubblici (istruzione, università, burocrazia), per i mancati investimenti infrastrutturali, ecc. Nel decennio successivo si è salvato il salvabile (anche brillantemente), tuttavia l’eredità del passato continua a pesare sul presente e peserà ancora per non pochi anni a venire. Infatti l’Italia è oggi un Paese con uno stock di debito almeno doppio rispetto a quello degli altri Paesi europei; il che significa che, pur avendo dimezzato, negli anni ’90, la spesa per interessi (dal 13% del Pil del 1993 al 6,3% del 2001), questa rimane tuttavia ancora doppia rispetto a quella cui devono far fronte gli altri Paesi, il che significa altresì che il bilancio pubblico è costretto a drenare ogni anno dall’economia italiana circa 3 punti di Pil (35 miliardi di euro, 70.000 miliardi di vecchie lire) in più rispetto ai Paesi concorrenti. Le difficoltà attuali e i rischi futuri per il Paese derivano da qui, e la mancata consapevolezza, anzi la negazione di questo problema da parte di ampi strati dell’opinione pubblica, e purtroppo della maggioranza politica attuale, non possono che accentuarli. Ma c’è di più: l’equilibrio raggiunto dalla finanza pubblica italiana è basato su una pressione fiscale pari (checché se ne dica) a quella media europea, e su una spesa primaria (per beni e servizi) inferiore di tre punti alla media europea: i tre punti di differenza servono a finanziare l’eccesso di spesa per interessi. Quindi se non è vero che i cittadini italiani sono ipertassati rispetto agli standards europei, è assolutamente vero che i servizi che essi ricevono sono inferiori al valore delle imposte pagate, cosa che rende molto difficile il rapporto con l’opinione pubblica. Stando così le cose dovrebbe essere evidente che, mentre va evitata una crescita delle imposte per ragioni di competitività, non vi sono neppure spazi credibili per riduzione della spesa pubblica tali da consentire sostanziali riduzioni delle imposte, aumenti delle spese in conto capitale, aumenti delle pensioni minime, ecc. Le attuali difficoltà di bilancio (malamente camuffate da interventi di natura finanziaria) derivano proprio dall’aver trascurato, ignorato ed esorcizzato questi elementari dati di fatto: la rigidità del bilancio pubblico italiano è infatti tale che basta un attimo di disattenzione per provocare guai molto seri che non possono, ahimè, essere evitati dalla «immaginazione al potere». Ciò non significa che non vi siano prospettive per l’Italia, al contrario. Ma al di là delle possibilità che possono derivare dalla ripresa di una crescita duratura in Europa, esse vanno ricercate con grande consapevolezza e selettività delle scelte sapendo che il sentiero è stretto e che occorre investire sul futuro con discernimento capovolgendo la nostra tendenza storica ad ipotecarlo. Purtroppo l’approccio attuale, che riproduce in sostanza il modello fallimentare degli anni ’80, sembra andare nella direzione opposta. * ex ministro del Tesoro
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