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tremonti docet
- Subject: tremonti docet
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 29 Dec 2002 09:09:23 +0100
il manifesto - 27 Dicembre 2002 L'eminenza grigia del Cavaliere Per tracciare il profilo intellettuale di Giulio Tremonti bisogna risalire a Jean-Bapiste Colbert, il maître-à-penser della politica economica del Re Sole. Ma oggi la posta in palio è rendere operativa una politica economica basata su una strategia neocorporativa nelle relazioni tra capitale e lavoro, che deleghi ai privati la «cura dei bisognosi» e ribalti definitavamente i rapporti di forza nella società in favore dell'economia di mercato LUIGI CAVALLARO Colbert, chi era costui? La domanda, che fino a poco tempo fa si sarebbe potuta udire solo in qualche aula universitaria, circola da alcune settimane sulle testate giornalistiche del Belpaese, complici una densissima intervista che il ministro Tremonti, vero maître à penser del governo in carica, ha rilasciato a La Stampa e una lunga apparizione dello stesso Tremonti sul palcoscenico della neonata trasmissione televisiva Excalibur, ormai lanciatissima verso il ruolo di principale dispensatore del pensiero di una destra in cui l'integralismo cattolico, gli umori primitivi dei leghisti e un'ipotesi di modernizzazione dirigista e corporativa si stanno finalmente componendo - ad onta delle frizioni superficiali su cui insistono i queruli rappresentanti di un Ulivo ormai esangue - in un corposo progetto di «rivoluzione passiva». Ministro di Sua Maestà Luigi XIV, il «Re Sole», Jean Baptiste Colbert (1619-1683) fu il protagonista assoluto di una stagione prettamente mercantilista, durante la quale la politica economica francese si connotò per un selettivo protezionismo doganale, forti incentivi alla modernizzazione della struttura produttiva, intervento pubblico diretto nell'attività industriale mediante le cosiddette «manifatture reali» e, al contempo, misure di liberalizzazione dell'iniziativa economica privata, allora impastoiata nei vincoli di ascendenza medievale delle corporazioni. Da allora sinonimo di dirigismo economico, il «colbertismo» (anzi, il «neo-colbertismo») è stato ripetutamente evocato da Tremonti nelle interviste citate come emblema di una nuova stagione della politica del centro-destra. «La nostra può anche essere la direzione di un nuovo New Deal», ha detto Tremonti. Rispetto alla prospettiva di «usare lo Stato», la destra, infatti, «non sta ferma», né in Italia, né in Europa, né negli Stati uniti. Anzi, quanti pensano «che la destra rifiuti lo Stato, non hanno capito né la destra, né lo Stato». Tremonti conia uno slogan: «Il mercato dove è possibile, lo Stato dove è necessario» e giunge ad affermare, con una sicumera che avremmo voluto sentire ben prima e da ben altre parti, che sulla cultura delle privatizzazioni «è arrivato il momento di fare un bilancio storico». Detto chiaramente: «non è una bestemmia l'ipotesi che lo Stato entri in una società», foss'anche la Fiat. E nemmeno è una bestemmia che a livello statuale, anzi a livello di Unione europea, ci si proponga di correggere le asimmetrie negli scambi commerciali: «Se in Oriente producono a costo 10 una valvola che a noi costa 100, non c'è competizione possibile, non c'è riduzione d'imposta che tenga. Occorre intervenire. Un tempo si sarebbe reagito con l'imposizione di dazi. Ora si tratta di imporre condizioni di reciprocità», perché «i paesi che fabbricano prodotti ma non impongono ai produttori i doveri sociali stanno spiazzando l'Europa». Se è vero che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia si presentano sempre due volte (la prima volta come tragedia e la seconda come farsa), vien fatto di pensare che il governo Berlusconi si prepari ad una svolta di politica economica analoga a quella compiuta da Mussolini a partire dalla seconda metà degli anni Venti. Adesso come allora, l'Italia si trova nel bel mezzo di una deflazione mondiale, in quel tempo indotta dalla follia del «ritorno all'oro» e dalle politiche monetarie restrittive che essa aveva provocato, ai nostri giorni frutto, da un lato, della programmatica incapacità degli Stati Uniti di governare il loro mercato finanziario e patrimoniale, dall'altro del modo scellerato con cui abbiamo costruito l'Unione europea, affidando ad una Banca centrale indipendente il compito di perseguire la stabilità monetaria a costo di milioni di disoccupati. Adesso come allora, siamo costretti lungo la china del rientro dal debito pubblico, a quel tempo effetto delle spese di guerra, oggi frutto perverso dell'intreccio fra il «keynesismo delinquenziale» dei fantastici anni Ottanta e il coevo e insensato «divorzio» tra governo e istituto d'emissione. E adesso come allora, la difficile congiuntura internazionale viene a cadere in un momento di forti tensioni interne, che in quei tragici giorni riflettevano il malcontento popolare per le promesse tradite nell'immediato dopoguerra, oggi sono effetto, per un verso, della preoccupazione del «ceto medio riflessivo» circa il modo in cui la coalizione al governo sta gestendo i molteplici conflitti d'interessi che riguardano il presidente del consiglio e la sua cerchia di familiares, e per l'altro di una crisi economica che ha mandato in frantumi gli idola ai quali abbiamo sacrificato la nostra intelligenza collettiva - parlo di un decennio di acritica esaltazione del mercato, che ha distrutto ogni capacità progettuale dei pubblici poteri e fatto precipitare il nostro paese agli ultimi posti per capacità di competere nei settori dell'high tech, in nome di un dissennato elogio del made in Italy, tanto ignorante dei presupposti storici del «miracolo economico» quanto arrogante nella somministrazione delle ricette di policy. Allora Mussolini e i suoi giocarono il tutto per tutto e trassero esplicitamente la carta nazionalista, l'unica che in quel momento poteva consentire al duce di continuare ad occupare il centro dello schieramento governativo, mantenendosi equidistante sia dall'ala radicale che da quella moderata. Sul piano della politica economica, ciò si tradusse nell'ingabbiamento della dinamica salariale entro le rigide pastoie della contrattazione collettiva obbligatoria (la politica dei bassi salari fu una costante del regime) e nel riordino delle istituzioni di previdenza ed assistenza sociale allora esistenti, nel convincimento che solo una politica sociale attenta a compensare sul piano dei servizi ciò che veniva tolto sul piano delle libertà potesse conseguire l'obiettivo brutalmente enunciato da Mussolini in una privata riunione di gerarchi: «cloroformizzare le opposizioni e anche il popolo italiano». Fu così che la spesa sociale crebbe, tra il 1926 ed il 1942, di dieci volte in termini percentuali sul Pil, mentre contemporaneamente, allo scopo di sgravare la finanza pubblica dall'onere di una spesa che - invece di decrescere, come prescritto dai dettami ortodossi - cresceva a più non posso, si escogitava la trovata della moltiplicazione degli enti pubblici economici, che, mediante la collocazione presso il pubblico di obbligazioni garantite dallo Stato, raccoglievano il risparmio privato allo scopo di renderlo disponibile per la politica di modernizzazione della struttura produttiva intrapresa dal regime. Scorrendo in quest'ottica uno per uno i provvedimenti economici ispirati da Tremonti, si ha forte la sensazione di un dejà vu, a cominciare dalle sue due più contestate creature, la «Patrimonio s.p.a.» e la «Infrastrutture s.p.a.», che - più che preludere ad una svendita di massa del patrimonio pubblico - ricordano (lo ha rilevato Marcello de Cecco) l'Icipu e il Crediop, ossia due delle invenzioni partorite negli anni Venti dalla fantasia «creativa» di Alberto Beneduce allo scopo di raccordare direttamente risparmio privato e investimenti industriali. Nello stesso senso si muovono il «Patto per l'Italia», in cui nemmeno si fa mistero di aver scambiato la moderazione salariale e l'abrogazione (per carità, in via sperimentale) dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori con un workfare in cui grande peso avranno gli «enti bilaterali» che gestiranno i programmi di riorientamento formativo, e soprattutto l'annunciato decollo dei fondi pensione, grazie ai quali ingenti capitali potrebbero rendersi disponibili per l'investimento in opere pubbliche, magari tramite l'acquisto di obbligazioni garantite dal «patrimonio culturale» (sul cui gradimento al pubblico non dovrebbe essere difficile scommettere, visto che l'orso seguita a ballare in Borsa). E sempre nella stessa direzione si collocano l'aumento delle pensioni minime e la diminuzione delle imposte sui redditi più bassi (quest'ultima espressamente definita da Tremonti come «la contropartita della riforma del mercato del lavoro»), veri e propri atti dovuti ad un elettorato che - come ha documentato l'Itanes in una ricerca apparsa l'anno scorso - risulta composto, per la sua larga maggioranza, di donne anziane (casalinghe, pensionate e cattoliche praticanti), cui si aggiungono disoccupati, pensionati e operai dei ceti più bassi. Il quadro, insomma, sembra abbastanza coerente, tanto più che, conscio dei vincoli europei, il ministro Tremonti sembra aver costituito una vera e propria lobby (di cui, secondo indiscrezioni giornalistiche, farebbero parte il ministro francese Francis Mer, l'inglese Gordon Brown e il tedesco Eichel) per ammorbidire l'abbraccio soffocante del Patto di stabilità. La loro azione concertata ha già portato, in occasione del vertice di Siviglia del giugno scorso, a sopprimere nel documento finale ogni riferimento al 2004 come termine ultimo per il processo di risanamento delle finanze statali. Il ministero di via XX settembre, d'altronde, rappresenta in questo momento uno dei centri più attivi di elaborazione politica e culturale: sebbene i maligni lo dipingano come territorio di scorrerie di pusher, esso ospita conferenze di illustri economisti di fama internazionale, attribuisce incarichi di responsabilità ad «eterodossi» come Siniscalco e Barca e sta collaborando ad un progetto internazionale, il «Plan B», il cui completamento dovrebbe far passare il New Deal tremontiano alla fase operativa. E a chi gli rimprovera scarsa considerazione per i conti pubblici, Tremonti replica: «La filosofia politica delle nostre due prime finanziarie è quella della protezione sociale, indispensabile in una fase che, dopo l'11 settembre, era evidentemente una fase di progressive criticità»; quanti insistono sui conti, «sulla trimestrale di cassa», parlano il linguaggio di chi «non ha proprio idea di quello che sta succedendo in Europa, dove la posizione italiana è e sarà rispettata», e non hanno capito che il funzionamento degli «stabilizzatori automatici» si misura fuori dalla congiuntura, che il «buco» nelle entrate è fittizio se c'è uno «scarto tra crescita potenziale e crescita reale» e, di conseguenza, «non deve essere coperto con manovre correttive». Keynes non avrebbe potuto dire di meglio. Sarebbe erroneo liquidare il tutto come una riproposizione fuori tempo massimo dello statalismo fascista. Come ha spiegato Gianfranco Fini all'assemblea annuale della Compagnia delle opere, «non si deve delegare tutto né allo Stato né al mercato: la strategia giusta è quella neocorporativa, l'unica strategia che riconosce il protagonismo degli individui e dei corpi intermedi». In tal modo, il «neocorporativismo colbertiano» si candida a dirigere la trasformazione della società europea, resa necessaria dalla rivoluzione tecnologica e organizzativa indotta dalle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, verso un assetto in cui i «corpi intermedi» della Chiesa e delle micro-comunità territoriali, unici antidoti contro lo sradicamento culturale provocato dal mercato capitalistico, riaccoglieranno i «naufraghi dello sviluppo» entro un tessuto di valori condivisi: non a caso, di fronte alla domanda se fosse meglio welfare society o welfare state, Fini ha risposto che «welfare community coglie meglio la complessità», a conferma di quanto pesi il «comunitarismo» (col suo indefettibile corollario di intolleranze religiose e/o razziali) nel sistema valoriale della destra. È indubbio che un programma del genere, prendendo corpo insieme alla spinta alla semplificazione dei meccanismi istituzionali in senso presidenzialista e plebiscitario, mira essenzialmente alla spoliticizzazione della società, per la quale - oggi come ottant'anni fa - le (limitate) concessioni di politica sociale varrebbero come «compensazione» per la rinuncia ad una partecipazione attiva alla formazione degli indirizzi di politica economica e lato sensu culturale: la destra è destra ed è illusorio sperare che possa usare il welfare come strumento di compimento della cittadinanza, invece che come alternativa ad essa. Ma, a mio avviso, vale la pena di accettare la sfida che ci viene portata con codesto progetto di «rivoluzione passiva»: Tremonti ha mille volte ragione quando afferma che, se si aprirà la discussione su nuove forme di democrazia economica (quali la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese e, più in generale, il concorso dei cittadini alle scelte concernenti cosa, come e per chi produrre), «è da questa parte che accadrà». Tradotto: oggi come negli anni Trenta, non c'è possibilità di democrazia economica se prima non si rovesciano le priorità, se la politica si fa dettare il suo programma dall'economia, se si persiste nella follia di disconoscere le possibilità di un ruolo economico autonomo dello Stato (se nazionale o europeo, è un altro discorso). Dunque, viva Tremonti-Colbert? No di certo. Ma nonostante l'oscena messe di condoni, il merito di aver gridato che «il re è nudo» glielo possiamo riconoscere, specie in confronto a chi, dalla nostra parte, si reca in pellegrinaggio alla City e grida allo «scandalo» dei conti pubblici in rosso, o si attarda francescanamente a predicare le virtù dell'esodo.
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