intervento pubblico in economia



     
    
 
il manifesto - 10 Dicembre 2002 
 
PENSIERO CRITICO
Una scommessa al lavoro
Oltre il capitale.
L'intervento pubblico in economia è una realtà irreversibile nonostante i
neoliberisti affermino il contrario. Infatti, senza i finanziamenti statali
il capitalismo non durerebbe ventiquattrore. E' questa la prima di una
lunga serie di «provocazioni» che il filosofo István Mészáros propone in
questa intervista dedicata al suo volume «Beyond Capital»
MARCOS NOBRE
Pubblichiamo stralci di una lunghissima intervista allo studioso di origine
ungherese István Mészáros pubblicata sulla rivista brasiliana «Folha de São
Paulo» e firmata da Marcos Nobre, docente all'Universidad Estadual de
Campinas. István Mészáros ha avuto la sua formazione intellettuale negli
anni Sessanta e Settanta nella cosiddetta «Scuola di Budapest» che si
costituì attorno al filosofo marxista Gyorgy Lukacs. Lasciata l'Ungheria,
Mészáros ha continuato la sua «ricognizione» del capitalismo e della teoria
marxiana. Suoi sono alcuni libri sul concetto di alienazione in Marx, sulla
concezione dello stato in Hegel, fino al monumentale «Beyond Capital»,
pubblicato dalla Monthly Review Press, nel quale Mészáros rintraccia nelle
analisi marxiane del capitalismo lo strumento più affilato per criticare la
cosiddetta globalizzazione economica. Il volume ha dato vita a una lunga e
vivace discussione nella sinistra inglese, statunitense e latinoamericana,
ma in Italia non ha ancora trovato un editore. 

Nel suo libro «Beyond Capital» è della massima importanza la distinzione
fra «capitale» e «capitalismo». Mentre per lei il capitale è «un sistema di
controllo del metabolismo sociale», il capitalismo è una forma specifica di
estrazione del plusvalore e del lavoro in eccedenza. In questo senso il
capitale può sopravvivere al capitalismo, come lei indica per esempio nella
sua analisi dell'Unione Sovietica: un sistema che impiegava mezzi politici
per estrarre lavoro in eccedenza. Nella sua costruzione teorica, di
conseguenza, il capitale sembra sia anteriore al capitalismo di migliaia
d'anni. Questo non conduce a un'estensione del concetto di capitale che
rischia la destoricizzazione, facendone quasi un sinonimo del dominio
organizzato in generale?

La produzione e l'impiego del lavoro in eccedenza è un requisito
fondamentale di tutti i processi storici praticabili, inclusa una futura
società socialista. La «sola» questione è: a chi è assegnato il controllo
della produzione e dell'impiego. È quel che appare così disperatamente e
irrimediabilmente distorto in qualunque forma concepibile di dominio del
capitale, sia nella conversione in plusvalore del lavoro in eccedenza sotto
il capitalismo, sia nella sua estrazione forzata con mezzi politici in un
sistema di tipo sovietico. La distorsione è infatti che sotto il capitale
un corpo separato controlla l'estrazione e l'impiego del lavoro in
eccedenza, in luogo di quello che Marx chiamava «i produttori liberamente
associati».

Quanto alla destoricizzazione, non c'è questo pericolo nel mio approccio.
Al contrario, ho sempre sottolineato che la fase storica del capitalismo è
limitata agli ultimi tre o quattro secoli, o al massimo da tre a cinque
secoli. Quello che chiamerei certamente destoricizzazione è parlare di
«capitalismo del mondo antico», come fanno Max Weber e altri.[...] Quel che
infine è decisivo è l'emergere e il dominio crescente del capitale
industriale.

In effetti il capitale risale a migliaia d'anni nel corso della storia. Ma
solo nelle forme più primitive, nelle varietà embrionali di capitale
monetario e mercantile. Quando sottolineo questa connessione, lo faccio
appunto al fine di mettere in rilievo la dimensione storica. Riguardo al
passato: il capitale industriale non salta sulla scena storica già pronto e
armato come Atena dalla testa di Zeus; in direzione del futuro: insisto
sulla nostra inevitabile scommessa storica nel far fronte alle immense
difficoltà inerenti al compito di sradicare il capitale quale forma
ereditata di controllo del metabolismo sociale. Il capitale non può essere
rovesciato/abolito, come spesso si è immaginato, né si potrebbero abolire
lo stato o il lavoro in quanto tali. Solo il capitalismo può essere
rovesciato/abolito; e solo in termini strettamente temporanei. Giacché
l'ordine postcapitalista rimane esposto al pericolo della restaurazione se
fin da principio non si intraprende la necessaria opera di sradicamento, in
tutte le dimensioni della produzione e della riproduzione. L'implosione
delle società postcapitaliste ci dà in proposito un doloroso avvertimento.

Per sradicare il capitale (e non solo il capitalismo) è indispensabile per
lei l'abolizione della sua divisione sociale del lavoro. È noto che lei
rifiuta ogni tentativo di ritornare a un'organizzazione sociale
precapitalistica, ogni utopia romantica di «stato di natura» o «condizione
originaria». D'altra parte lei rifiuta la posizione di chi sostiene che
l'ipercomplessità della società presente rappresenterebbe un ostacolo
oggettivo al fine che lei persegue nella sua opera teorica e pratica. In
questo senso, quale ruolo lei attribuisce alla scienza e alla tecnologia
nel sistema di comando del capitale? La sua posizione relativamente
all'abolizione della divisione sociale gerarchica del lavoro richiede una
scienza e una tecnologia qualitativamente differenti da quelle nostre al
presente?

Lei ha perfettamente ragione: lo sradicamento del capitale non è pensabile
se non si supera l'attuale divisione sociale gerarchica del lavoro. È di
nuovo evidente che non si può semplicemente abolirla - neppure con misure
politiche adottate con la maggiore sincerità - fino a quando non si trovano
alternative valide alle pratiche ereditate di metabolismo, reificate nelle
ben note forme di dominio e subordinazione. Però questo fatto può essere
utilizzato sia come una grande scommessa per un cambiamento radicale
globale e perseguito con ostinazione, sia come una comoda scusa per
perpetuare le gerarchie ereditate, da parte di quanti nella pretesa
«insormontabile complessità» cercano una giustificazione aprioristica per
mantenere la loro posizione privilegiata nella società.

La complessità non cade dal cielo. Ha bisogno di essere prodotta e
mantenuta, e può essere notevolmente alterata. Gran parte della cosiddetta
complessità nel sistema capitalistico (la mancanza di trasparenza nei
rapporti di produzione e distribuzione) è dovuta all'esigenza di nascondere
- non solo ai capitalisti concorrenti ma, cosa assai più importante,
all'antagonista sociale: il lavoro - quanto non avrebbe alcun bisogno di
essere nascosto in un ordine riproduttivo organizzato razionalmente. Un
processo lavorativo organizzato in modo che le sue funzioni di controllo
non abbiano bisogno di essere trasferite a un corpo separato e, ancora
peggio, nascosto in funzione antagonistica agli stessi produttori, è
intrinsecamente meno complesso della sua insormontabile alternativa
capitalistica. Nascondersi dietro il concetto di una complessità
«socialmente neutra» in nome della «nostra scienza e tecnologia» è un'ovvia
evasione. [...]

Secondo la sua analisi, il capitalismo nella forma presente è «capitalismo
di stato», cioè una forma di capitalismo che cerca di mettere insieme
l'estrazione politica e quella economica del lavoro in eccedenza. Lei
sostiene che una simile «soluzione» è insostenibile nei tempi lunghi, e
guarda a una crisi assai più seria di quella del capitalismo - la crisi
strutturale del capitale stesso. In questo senso lei sostiene che abbiamo
ora raggiunto propriamente i limiti del capitale e della sua forma di
dominio. Che cosa le fa pensare che il capitale - e il capitalismo - non
troveranno ancora una via d'uscita a queste contraddizioni? Che cosa
risponde all'obiezione che affermare questo può suonare come le migliaia di
dichiarazioni sulla morte imminente del capitale negli ultimi
centocinquant'anni?

Il massimo coinvolgimento dello stato nel funzionamento del processo di
riproduzione è oggi del tutto innegabile, nonostante ogni fantasia
neoliberale. Di fatto il sistema del capitale non potrebbe sopravvivere una
settimana, e forse neppure un giorno, se lo stato realmente si astenesse
dal provvedere non solo le necessarie garanzie politiche e militari ma
anche i fondi economici richiesti che raggiungono oggi dimensioni
astronomiche. Pensi solo alle misure adottate dal governo Usa dopo l'11
settembre 2001, dal business del trasporto aereo e delle assicurazioni alle
gigantesche spese e azioni militari. L'appetito per simili iniezioni sta
diventando sempre maggiore, ma non possono fornire una soluzione durevole.
Infatti neppure il più potente degli stati può esser sempre in possesso di
una borsa senza fondo né dell'assoluta supremazia politica e militare che
sarebbe richiesta.

L'inizio della crisi strutturale del sistema del capitale - ben diversa
dalle ben note crisi congiunturali periodiche del capitalismo - si può far
risalire approssimativamente alla fine degli anni `60, o all'inizio dei
`70. Chi vi sia interessato può trovare un'analisi dettagliata delle
questioni di fondo nel capitolo 18 del mio libro Beyond Capital. Ora mi
limito a sottolineare che le alternative proposte - come, per esempio,
l'ipotesi dell'«onda lunga» - giocano (o piuttosto spostano i pali) perfino
con i loro parametri cronologici. Né dobbiamo dimenticare che simili
ipotesi, costruite su vaghe analogie col passato mentre pretendono di
interpretare il malcontento per la «radicalmente nuova globalizzazione»,
non sono in grado di conferire alcun contenuto al pio desiderio del «lungo
ciclo positivo ascendente» in opposizione all'attuale «lungo ciclo
discendente».

Senza dubbio una crisi strutturale può protrarsi per un periodo storico
penosamente lungo. Ma non per sempre. Ciò non significa che la fine del
capitale (e non semplicemente del capitalismo) sia a portata di mano per la
presente generazione o per la prossima. Della morte del capitale lasciamo
parlare quelli che credono nelle stregonerie. Per noi il necessario
sradicamento del capitale nel corso della trasformazione storica non ha
senso senza il suo equivalente positivo di fondare le basi di un sistema
praticabile. L'umanità non può vivere in un vuoto. Solo in un senso la
morte del capitale si presenta come una precisa possibilità - ben lontana
dall'esser positiva. È relativa all'estrema distruttività del capitale nel
presente stadio di sviluppo storico, tale da trascinare potenzialmente
anche l'umanità nella tomba che sta attivamente scavando non solo sul piano
ecologico ma anche in termini economici e militari. [...]

Lei afferma che il soggetto storico della trasformazione rivoluzionaria che
abolirà il capitale è ancora la classe lavoratrice. Che cosa risponderebbe
a chi ritiene che il capitale e il capitalismo sono talmente cambiati che
la posizione strutturale della classe lavoratrice nel processo produttivo
non corrisponde più a quella già attribuita da Marx al proletariato?

I cambiamenti che implicavano la scomparsa della classe lavoratrice anche
nei paesi capitalisticamente più avanzati sono stati enfatizzati in modo
avventato (e tendenzioso), a cominciare da Max Scheler e da Mannheim, via
via fino agli attuali campioni del «capitalismo popolare». Il processo
storico di proletarizzazione, che ha tratto nella sua orbita anche alcuni
strati sociali relativamente benestanti (come molti gruppi di «colletti
bianchi») è continuato inesorabile per il ventesimo secolo e non dà segno
d'esser concluso. Se riferiti poi alla stragrande maggioranza degli esseri
umani, che vivono nella più estrema deprivazione e da meno di un dollaro al
giorno ricavano a stento una miserabile esistenza per sé e per la famiglia,
i concetti di moda quali «la mobilità sociale verso l'alto» e
«l'imborghesimento» (predicato un tempo come modello di sviluppo
universale) confinano con l'oscenità. Nessuno ha bisogno di esserne
persuaso in Brasile; per non parlare dell'India, della maggior parte del
Sud-est asiatico e dell'Africa. Del resto, la gravissima condizione della
classe lavoratrice argentina, in un paese ritenuto il più sviluppato, il
modello rifulgente da imitare in tutta l'America latina, di recente ha
offerto un drammatico richiamo alla fragilità estrema e all'insostenibilità
delle soluzioni spesso annunciate con zelo agli antagonismi della nostra
società.

In ogni caso, è in questione non il relativo miglioramento del livello di
vita della classe lavoratrice, che varia a seconda delle più o meno
favorevoli circostanze storico-congiunturali, ma la praticabilità di un
modo di controllo alternativo del metabolismo sociale in sé. A questo
proposito non può esservi altra forza che il lavoro - cioè, non questo o
quel particolare gruppo sociologico di lavoratori ma la sua totalità, quale
antagonista strutturale del capitale - capace di fondare un'alternativa
egemonica al modo di controllo del metabolismo sociale da parte del
capitale. Non c'è compromesso storicamente conosciuto da parte di alcune
correnti del movimento dei lavoratori (per esempio, la socialdemocrazia
occidentale) che possa alterare questo fattore determinante. Perciò
dobbiamo focalizzare l'attenzione sulla crisi strutturale del sistema del
capitale di per sé. [...]

Ritiene che il concetto di «imperialismo» come è stato formulato da Lenin
descriva ancora correttamente la nostra situazione attuale?

La teoria dell'imperialismo di Lenin era la più adeguata per il suo tempo
ma non può interpretare alcuni aspetti importanti dell'imperialismo e del
monopolismo di oggi. [...] Quella fase si è conclusa subito dopo la fine
della seconda guerra mondiale. Oggi siamo soggetti a una forma di
imperialismo ben centrata nel territorio degli Stati Uniti, l'imperialismo
egemonico globale con gli Stati Uniti quale forza schiacciante. Per di più
non stabile, né in grado di risolvere gli antagonismi del sistema del
capitale più delle forme precedenti. Ma per un insieme di ragioni
costituisce una minaccia molto più grave per la sopravvivenza stessa
dell'umanità.