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intervento pubblico in economia
- Subject: intervento pubblico in economia
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 17 Dec 2002 07:48:14 +0100
il manifesto - 10 Dicembre 2002 PENSIERO CRITICO Una scommessa al lavoro Oltre il capitale. L'intervento pubblico in economia è una realtà irreversibile nonostante i neoliberisti affermino il contrario. Infatti, senza i finanziamenti statali il capitalismo non durerebbe ventiquattrore. E' questa la prima di una lunga serie di «provocazioni» che il filosofo István Mészáros propone in questa intervista dedicata al suo volume «Beyond Capital» MARCOS NOBRE Pubblichiamo stralci di una lunghissima intervista allo studioso di origine ungherese István Mészáros pubblicata sulla rivista brasiliana «Folha de São Paulo» e firmata da Marcos Nobre, docente all'Universidad Estadual de Campinas. István Mészáros ha avuto la sua formazione intellettuale negli anni Sessanta e Settanta nella cosiddetta «Scuola di Budapest» che si costituì attorno al filosofo marxista Gyorgy Lukacs. Lasciata l'Ungheria, Mészáros ha continuato la sua «ricognizione» del capitalismo e della teoria marxiana. Suoi sono alcuni libri sul concetto di alienazione in Marx, sulla concezione dello stato in Hegel, fino al monumentale «Beyond Capital», pubblicato dalla Monthly Review Press, nel quale Mészáros rintraccia nelle analisi marxiane del capitalismo lo strumento più affilato per criticare la cosiddetta globalizzazione economica. Il volume ha dato vita a una lunga e vivace discussione nella sinistra inglese, statunitense e latinoamericana, ma in Italia non ha ancora trovato un editore. Nel suo libro «Beyond Capital» è della massima importanza la distinzione fra «capitale» e «capitalismo». Mentre per lei il capitale è «un sistema di controllo del metabolismo sociale», il capitalismo è una forma specifica di estrazione del plusvalore e del lavoro in eccedenza. In questo senso il capitale può sopravvivere al capitalismo, come lei indica per esempio nella sua analisi dell'Unione Sovietica: un sistema che impiegava mezzi politici per estrarre lavoro in eccedenza. Nella sua costruzione teorica, di conseguenza, il capitale sembra sia anteriore al capitalismo di migliaia d'anni. Questo non conduce a un'estensione del concetto di capitale che rischia la destoricizzazione, facendone quasi un sinonimo del dominio organizzato in generale? La produzione e l'impiego del lavoro in eccedenza è un requisito fondamentale di tutti i processi storici praticabili, inclusa una futura società socialista. La «sola» questione è: a chi è assegnato il controllo della produzione e dell'impiego. È quel che appare così disperatamente e irrimediabilmente distorto in qualunque forma concepibile di dominio del capitale, sia nella conversione in plusvalore del lavoro in eccedenza sotto il capitalismo, sia nella sua estrazione forzata con mezzi politici in un sistema di tipo sovietico. La distorsione è infatti che sotto il capitale un corpo separato controlla l'estrazione e l'impiego del lavoro in eccedenza, in luogo di quello che Marx chiamava «i produttori liberamente associati». Quanto alla destoricizzazione, non c'è questo pericolo nel mio approccio. Al contrario, ho sempre sottolineato che la fase storica del capitalismo è limitata agli ultimi tre o quattro secoli, o al massimo da tre a cinque secoli. Quello che chiamerei certamente destoricizzazione è parlare di «capitalismo del mondo antico», come fanno Max Weber e altri.[...] Quel che infine è decisivo è l'emergere e il dominio crescente del capitale industriale. In effetti il capitale risale a migliaia d'anni nel corso della storia. Ma solo nelle forme più primitive, nelle varietà embrionali di capitale monetario e mercantile. Quando sottolineo questa connessione, lo faccio appunto al fine di mettere in rilievo la dimensione storica. Riguardo al passato: il capitale industriale non salta sulla scena storica già pronto e armato come Atena dalla testa di Zeus; in direzione del futuro: insisto sulla nostra inevitabile scommessa storica nel far fronte alle immense difficoltà inerenti al compito di sradicare il capitale quale forma ereditata di controllo del metabolismo sociale. Il capitale non può essere rovesciato/abolito, come spesso si è immaginato, né si potrebbero abolire lo stato o il lavoro in quanto tali. Solo il capitalismo può essere rovesciato/abolito; e solo in termini strettamente temporanei. Giacché l'ordine postcapitalista rimane esposto al pericolo della restaurazione se fin da principio non si intraprende la necessaria opera di sradicamento, in tutte le dimensioni della produzione e della riproduzione. L'implosione delle società postcapitaliste ci dà in proposito un doloroso avvertimento. Per sradicare il capitale (e non solo il capitalismo) è indispensabile per lei l'abolizione della sua divisione sociale del lavoro. È noto che lei rifiuta ogni tentativo di ritornare a un'organizzazione sociale precapitalistica, ogni utopia romantica di «stato di natura» o «condizione originaria». D'altra parte lei rifiuta la posizione di chi sostiene che l'ipercomplessità della società presente rappresenterebbe un ostacolo oggettivo al fine che lei persegue nella sua opera teorica e pratica. In questo senso, quale ruolo lei attribuisce alla scienza e alla tecnologia nel sistema di comando del capitale? La sua posizione relativamente all'abolizione della divisione sociale gerarchica del lavoro richiede una scienza e una tecnologia qualitativamente differenti da quelle nostre al presente? Lei ha perfettamente ragione: lo sradicamento del capitale non è pensabile se non si supera l'attuale divisione sociale gerarchica del lavoro. È di nuovo evidente che non si può semplicemente abolirla - neppure con misure politiche adottate con la maggiore sincerità - fino a quando non si trovano alternative valide alle pratiche ereditate di metabolismo, reificate nelle ben note forme di dominio e subordinazione. Però questo fatto può essere utilizzato sia come una grande scommessa per un cambiamento radicale globale e perseguito con ostinazione, sia come una comoda scusa per perpetuare le gerarchie ereditate, da parte di quanti nella pretesa «insormontabile complessità» cercano una giustificazione aprioristica per mantenere la loro posizione privilegiata nella società. La complessità non cade dal cielo. Ha bisogno di essere prodotta e mantenuta, e può essere notevolmente alterata. Gran parte della cosiddetta complessità nel sistema capitalistico (la mancanza di trasparenza nei rapporti di produzione e distribuzione) è dovuta all'esigenza di nascondere - non solo ai capitalisti concorrenti ma, cosa assai più importante, all'antagonista sociale: il lavoro - quanto non avrebbe alcun bisogno di essere nascosto in un ordine riproduttivo organizzato razionalmente. Un processo lavorativo organizzato in modo che le sue funzioni di controllo non abbiano bisogno di essere trasferite a un corpo separato e, ancora peggio, nascosto in funzione antagonistica agli stessi produttori, è intrinsecamente meno complesso della sua insormontabile alternativa capitalistica. Nascondersi dietro il concetto di una complessità «socialmente neutra» in nome della «nostra scienza e tecnologia» è un'ovvia evasione. [...] Secondo la sua analisi, il capitalismo nella forma presente è «capitalismo di stato», cioè una forma di capitalismo che cerca di mettere insieme l'estrazione politica e quella economica del lavoro in eccedenza. Lei sostiene che una simile «soluzione» è insostenibile nei tempi lunghi, e guarda a una crisi assai più seria di quella del capitalismo - la crisi strutturale del capitale stesso. In questo senso lei sostiene che abbiamo ora raggiunto propriamente i limiti del capitale e della sua forma di dominio. Che cosa le fa pensare che il capitale - e il capitalismo - non troveranno ancora una via d'uscita a queste contraddizioni? Che cosa risponde all'obiezione che affermare questo può suonare come le migliaia di dichiarazioni sulla morte imminente del capitale negli ultimi centocinquant'anni? Il massimo coinvolgimento dello stato nel funzionamento del processo di riproduzione è oggi del tutto innegabile, nonostante ogni fantasia neoliberale. Di fatto il sistema del capitale non potrebbe sopravvivere una settimana, e forse neppure un giorno, se lo stato realmente si astenesse dal provvedere non solo le necessarie garanzie politiche e militari ma anche i fondi economici richiesti che raggiungono oggi dimensioni astronomiche. Pensi solo alle misure adottate dal governo Usa dopo l'11 settembre 2001, dal business del trasporto aereo e delle assicurazioni alle gigantesche spese e azioni militari. L'appetito per simili iniezioni sta diventando sempre maggiore, ma non possono fornire una soluzione durevole. Infatti neppure il più potente degli stati può esser sempre in possesso di una borsa senza fondo né dell'assoluta supremazia politica e militare che sarebbe richiesta. L'inizio della crisi strutturale del sistema del capitale - ben diversa dalle ben note crisi congiunturali periodiche del capitalismo - si può far risalire approssimativamente alla fine degli anni `60, o all'inizio dei `70. Chi vi sia interessato può trovare un'analisi dettagliata delle questioni di fondo nel capitolo 18 del mio libro Beyond Capital. Ora mi limito a sottolineare che le alternative proposte - come, per esempio, l'ipotesi dell'«onda lunga» - giocano (o piuttosto spostano i pali) perfino con i loro parametri cronologici. Né dobbiamo dimenticare che simili ipotesi, costruite su vaghe analogie col passato mentre pretendono di interpretare il malcontento per la «radicalmente nuova globalizzazione», non sono in grado di conferire alcun contenuto al pio desiderio del «lungo ciclo positivo ascendente» in opposizione all'attuale «lungo ciclo discendente». Senza dubbio una crisi strutturale può protrarsi per un periodo storico penosamente lungo. Ma non per sempre. Ciò non significa che la fine del capitale (e non semplicemente del capitalismo) sia a portata di mano per la presente generazione o per la prossima. Della morte del capitale lasciamo parlare quelli che credono nelle stregonerie. Per noi il necessario sradicamento del capitale nel corso della trasformazione storica non ha senso senza il suo equivalente positivo di fondare le basi di un sistema praticabile. L'umanità non può vivere in un vuoto. Solo in un senso la morte del capitale si presenta come una precisa possibilità - ben lontana dall'esser positiva. È relativa all'estrema distruttività del capitale nel presente stadio di sviluppo storico, tale da trascinare potenzialmente anche l'umanità nella tomba che sta attivamente scavando non solo sul piano ecologico ma anche in termini economici e militari. [...] Lei afferma che il soggetto storico della trasformazione rivoluzionaria che abolirà il capitale è ancora la classe lavoratrice. Che cosa risponderebbe a chi ritiene che il capitale e il capitalismo sono talmente cambiati che la posizione strutturale della classe lavoratrice nel processo produttivo non corrisponde più a quella già attribuita da Marx al proletariato? I cambiamenti che implicavano la scomparsa della classe lavoratrice anche nei paesi capitalisticamente più avanzati sono stati enfatizzati in modo avventato (e tendenzioso), a cominciare da Max Scheler e da Mannheim, via via fino agli attuali campioni del «capitalismo popolare». Il processo storico di proletarizzazione, che ha tratto nella sua orbita anche alcuni strati sociali relativamente benestanti (come molti gruppi di «colletti bianchi») è continuato inesorabile per il ventesimo secolo e non dà segno d'esser concluso. Se riferiti poi alla stragrande maggioranza degli esseri umani, che vivono nella più estrema deprivazione e da meno di un dollaro al giorno ricavano a stento una miserabile esistenza per sé e per la famiglia, i concetti di moda quali «la mobilità sociale verso l'alto» e «l'imborghesimento» (predicato un tempo come modello di sviluppo universale) confinano con l'oscenità. Nessuno ha bisogno di esserne persuaso in Brasile; per non parlare dell'India, della maggior parte del Sud-est asiatico e dell'Africa. Del resto, la gravissima condizione della classe lavoratrice argentina, in un paese ritenuto il più sviluppato, il modello rifulgente da imitare in tutta l'America latina, di recente ha offerto un drammatico richiamo alla fragilità estrema e all'insostenibilità delle soluzioni spesso annunciate con zelo agli antagonismi della nostra società. In ogni caso, è in questione non il relativo miglioramento del livello di vita della classe lavoratrice, che varia a seconda delle più o meno favorevoli circostanze storico-congiunturali, ma la praticabilità di un modo di controllo alternativo del metabolismo sociale in sé. A questo proposito non può esservi altra forza che il lavoro - cioè, non questo o quel particolare gruppo sociologico di lavoratori ma la sua totalità, quale antagonista strutturale del capitale - capace di fondare un'alternativa egemonica al modo di controllo del metabolismo sociale da parte del capitale. Non c'è compromesso storicamente conosciuto da parte di alcune correnti del movimento dei lavoratori (per esempio, la socialdemocrazia occidentale) che possa alterare questo fattore determinante. Perciò dobbiamo focalizzare l'attenzione sulla crisi strutturale del sistema del capitale di per sé. [...] Ritiene che il concetto di «imperialismo» come è stato formulato da Lenin descriva ancora correttamente la nostra situazione attuale? La teoria dell'imperialismo di Lenin era la più adeguata per il suo tempo ma non può interpretare alcuni aspetti importanti dell'imperialismo e del monopolismo di oggi. [...] Quella fase si è conclusa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Oggi siamo soggetti a una forma di imperialismo ben centrata nel territorio degli Stati Uniti, l'imperialismo egemonico globale con gli Stati Uniti quale forza schiacciante. Per di più non stabile, né in grado di risolvere gli antagonismi del sistema del capitale più delle forme precedenti. Ma per un insieme di ragioni costituisce una minaccia molto più grave per la sopravvivenza stessa dell'umanità.
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