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economia e politica
- Subject: economia e politica
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 18 Dec 2002 06:42:47 +0100
dal corriere.it Lunedì 16 Dicembre 2002 Caso Fiat, Berlusconi, De Benedetti ECONOMIA E POLITICA IL GRANDE INTRECCIO Non c’è forse settore della vita associata ove il divario fra «essere» e «dover essere» sia maggiore di quello che si registra nei rapporti fra politica ed economia (e dunque fra élites politiche da una parte ed élites industriali e finanziarie dall’altra). La dottrina liberale ha sempre candidamente auspicato rapporti basati sulla chiarezza: lo Stato tutela i diritti di proprietà, assicura le condizioni istituzionali di funzionamento dell’economia di mercato e fornisce ai cittadini «beni pubblici» (i beni che il mercato non è in grado di produrre); le imprese, per parte loro, fanno il loro mestiere, competono con altre imprese in un libero mercato, e quando intervengono nella sfera politica per influenzarne le scelte lo fanno come un gruppo di interessi fra gli altri, sia pure, ovviamente, munito di più risorse di altri. Naturalmente, la storia dei rapporti fra politica ed economia, in tutte le democrazie occidentali, è sempre stata molto lontana dai precetti della dottrina. In tutte le democrazie, politica ed economia sono da sempre intrecciate fra loro, in modi assai poco trasparenti. Questi intrecci si configurano differentemente in virtù di molti fattori (la forza o la debolezza, rispettivamente, dell’ élite economica e delle istituzioni statali, l’orientamento favorevole od ostile al mercato della cultura politica nazionale, eccetera). A un estremo del continuum troviamo il caso degli Stati Uniti: istituzioni statali deboli, influenzate e permeate dai grandi gruppi economici e finanziari. All’altro estremo del continuum c’è, tradizionalmente, la Francia: istituzioni statali forti, e un ’élite politico- burocratica in posizione «dominante». Fra i due estremi, si sono quasi sempre collocate le altre democrazie. In generale, classi politiche legittimate dal suffragio popolare e a capo di istituzioni statali solide hanno fronteggiato «alla pari» élites industriali e finanziarie a loro volta dotate di cospicue risorse autonome. L’Italia ha sempre spiccato in questo quadro per le sue particolarità. Da un lato, ha sempre avuto un ’élite industriale e finanziaria assai più debole (e quindi politicamente più ricattabile) di quelle di altri Paesi. Dall’altro lato, ha sempre avuto istituzioni statali deboli e una classe politica che doveva supplire a un endemico «deficit di legittimità» delle istituzioni mediante la costruzione di reti clientelari e la conseguente distribuzione di beni di tipo «particolaristico». La storia dei rapporti fra classe politica ed élites economiche in Italia è per lo più una storia di scambi ineguali, in cui le élites economiche, a causa della loro debolezza, dovevano continuamente guadagnarsi una protezione, non scontata in partenza, del potere politico, in un contesto culturale in cui, senza vera soluzione di continuità tra fascismo e post-fascismo, i pregiudizi contro l’economia di mercato erano diffusissimi. Da qui certi caratteri strutturali della nostra società. Si pensi all’epoca d’oro delle «partecipazioni statali» democristiane: c’era allora un’economia nazionale solo nominalmente «di mercato», ma in realtà per molti versi assimilabile a un’economia da socialismo reale. Con le sue saghe e con i suoi eroi: i capitani dell’industria di Stato. Se per molto tempo si è lamentata la debolezza della grande industria privata in Italia, la sua natura di industria protetta dallo Stato, la sua debole capacità di proiezione esterna, e se oggi, con la vicenda Fiat, intoniamo il definitivo De profundis per la grande industria italiana, la causa va in larga misura cercata nel modo in cui, per buona parte del XX Secolo, si è perpetuato questo rapporto «malato» fra politica ed economia. In un contesto di poteri strettamente intrecciati, alcune storie spiccano per la loro emblematicità. Fa caso a sé naturalmente la vicenda della Fiat, non solo per le dimensioni di quel gruppo, e oggi per le dirompenti conseguenze della sua crisi. Ma anche per il ruolo, assolutamente unico, che la famiglia Agnelli, vera casa regnante italiana dopo la cacciata dei Savoia, ha esercitato, anche in rapporto alla politica: l’unico gruppo che, per la forza del suo impero industriale e finanziario, nonché per il prestigio che ne derivava, si sia potuto permettere, quasi sempre, rapporti di scambio «paritetici» con le varie classi politiche di governo. Per contro, nonostante l’apparente eccezionalità delle loro storie, e il loro diverso destino politico, mi sembrano fra loro, al fondo, simili, ed espressioni di una identica debolezza strutturale del potere economico in rapporto a quello politico, i due Grandi Nemici, la cui lotta, e le cui opposte alleanze politiche e finanziarie, condizionano da almeno un quindicennio la storia dell’Italia pubblica: Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Due uomini che allo strategico rapporto con la politica hanno dovuto subito legare strettamente la sorte delle loro stesse imprese economiche. Come prova il fatto che mai essi si sarebbero potuti sbarazzare dei loro principali strumenti di influenza politica (Berlusconi non avrebbe mai potuto vendere Mediaset, De Benedetti non si sarebbe mai potuto privare del gruppo Repubblica-Espresso). La singolarità della loro storia sta nel fatto che essi sono da sempre al centro di opposte cordate politico-finanziarie. Se Berlusconi aveva in Bettino Craxi e nei settori anticomunisti della Dc i sui mentori politici, De Benedetti curava alleanze opposte e nemiche di quelle di Berlusconi. La storia del loro braccio di ferro li ha visti, a turno, sconfitti e vincitori. Lo stesso ingresso di Berlusconi in politica è frutto, in larga misura, di quella lotta mortale. Se infatti, con la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite, De Benedetti, pur egli stesso colpito da iniziative giudiziarie - andò anche in carcere per 24 ore -, segnò comunque molti punti a proprio vantaggio (le inchieste distrussero gli alleati politici di Berlusconi, a cominciare da Craxi, risparmiando però quelli di De Benedetti) proprio quell’evento proiettò Berlusconi in politica. Al suo trionfo elettorale del ’94, seguì, col ribaltone e la vittoria del centrosinistra del ’96, la «vittoria» del suo nemico. E oggi, di nuovo, con Berlusconi a Palazzo Chigi la sorte ha girato momentaneamente le spalle a De Benedetti e ai suoi alleati. Di rimarchevole c’è la continuità degli apparentamenti. Berlusconi, da politico, non ha mai rinnegato le alleanze del tempo in cui era solo imprenditore e, anzi, proprio su quell’esercito in rotta sotto il fuoco dell’offensiva giudiziaria ha poi costruito la sua vincente coalizione. Ma nemmeno De Benedetti si è rivelato incostante o infedele. Oggi, vero king-maker del centrosinistra (la sua intervista al Corriere di sabato scorso ha il sapore di un vero e proprio manifesto politico), grazie al suo volume di fuoco massmediologico, sostiene Romano Prodi e i Ds. E tale alleanza altro non è se non l’erede di quel «triangolo» anti-craxiano ( Repubblica , Partito comunista, Dc di Ciriaco De Mita) che caratterizzò gli anni Ottanta. Certo, ora al governo c’è il capo di un impero economico, e questa radicale novità segna l’attuale fase. Nel senso che esaspera, e rende più evidenti, tendenze, e soprattutto patologie, sempre storicamente presenti nel rapporto fra politica ed economia in Italia. Ancora all’epoca del governo D’Alema, ad esempio, la politica pretendeva di occupare la cabina di regìa in molte operazioni economico-finanziarie (caso Colaninno-Telecom). Con o senza Berlusconi al governo, fin quando non avremo, se mai l’avremo, un’economia di mercato davvero forte e competitiva, ci sarà sempre qualcuno, seduto a Palazzo Chigi, provenga egli dai ranghi della finanza o dell’industria o da quelli della politica di professione, che riterrà essere compito istituzionale del governo ridisegnare in un modo o nell’altro volto ed equilibri del capitalismo italiano. di ANGELO PANEBIANCO
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