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com'e'al verde la mia valley
- Subject: com'e'al verde la mia valley
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 23 Nov 2002 07:10:50 +0100
il manifesto - 15 Novembre 2002 Com'è al verde la mia Valley La batosta della Silicon Valley, culla della new economy Dall'inizio della crisi 1.200 aziende chiuse o assorbite, centomila posti di lavoro persi, mille miliardi di dollari bruciati in borsa, strade e ristoranti spopolati, affitti crollati... E il vecchio slogan «Siamo 15 minuti avanti nel futuro» adesso fa paura MARCO D'ERAMO INVIATO A SAN JOSE (SILICON VALLEY) «Dall'inizio della crisi, sono fallite 900 start-ups e altre 3.700 sono state assorbite o comprate, ma questa è la storia della Silicon Valley, tutta un susseguirsi di boom e di crolli: boom negli anni `80 e crollo nel 1991, boom negli anni `90 e crollo nel 2001» mi risponde David Satterfield, responsabile dell'economia al San Jose Mercury News. Quale effetto - è la domanda che gli pongo - hanno avuto la fine della new economy, il crollo del Nasdaq e la caduta di Wall street sulla Baia di San Francisco che della new economy era stata la culla e che è la locomotiva tecnologica del mondo? (In California sono infatti oltre 29.000 le ditte tecnologiche registrate nello speciale annuario telefonico a esse dedicato.) San Jose è la capitale della mitica Silicon Valley, l'area che si estende a sud di San Francisco da San Mateo fino alla gola della Baia, con Cuppertino, Palo Alto, la Stanford University. Per tutti gli anni `90 la Silicon Valley ha conosciuto una crescita tumultuosa risucchiando le migliori intelligenze tecnologiche del mondo, dalla Russia all'India. Qui c'erano centinaia di giovanotti sui 25 anni che, al massimo della bolla, nella primavera 2000, erano già miliardari in dollari. L'economia della valle era la più dinamica degli Stati uniti, e la sua crescita si rifletteva in tutta la Baia. Ma proprio perché l'economia era schizzata tanto in alto, lo schianto è stato disastroso con la fine della new economy. Oggi fanno sorridere le parole di Bruce Steinberg, economista di punta della Merryl Lynch & Co., che nel marzo 2000, quando il Nasdaq, l'indice azionario delle compagnie tecnologiche era a quota 5.400, aveva detto: «Questa non è la Febbre dei Tulipani», riferendosi al primo crollo finanziario della storia del capitalismo moderno, avvenuto in Olanda nel 1637 dopo che, durante la «Febbre», un singolo bulbo di tulipano era giunto a costare l'equivalente di milioni di dollari attuali. Ma oggi, due anni dopo, il Nasdaq è crollato a quota 1.300, meno di un quarto del valore di allora (e Bruce Steinberg è stato licenziato da Merryl Lynch la settimana scorsa). La crisi si vede nei minimi dettagli. «Per pendolare da casa al lavoro, due anni fa ci mettevi un'ora e mezzo, due ore, ora ci metti quaranta minuti. Questo vuol dire che ci sono molte meno macchine, cioè meno gente che va a lavorare» mi dice a Berkeley Leah Mori che il mese scorso è stata licenziata dalla Oracle, dove pure assolveva mansioni di una certa responsabilità: « Ormai le grandi ditte ti assumono per un progetto. Una volta realizzatolo, ti licenziano». Nel comune di San Francisco la disoccupazione è di 1,1% più alta che nel complesso degli Stati uniti. Nella Contea di Santa Clara, quella della Silicon Valley, sono andati perduti 90.000 posti di lavoro negli ultimi due anni, e 50.000 persone sono emigrate, perché qui la vita è carissima, con i prezzi delle case che erano saliti alle stelle. «Quello che so è che adesso a Palo Alto puoi andare al ristorante senza prenotare. Due anni fa, se non prenotavi una settimana prima, te lo sognavi», mi dice Rob Polhemus, dell'università di Stanford: Polhemus mi mostra una copia del Stanford Report, il giornale dell'università che titola «Imposto il congelamento delle assunzioni, la direzione spera di evitare licenziamenti», e quando la direzione dice così, vuol dire che i licenziamenti sono quasi inevitabili. I fondi per questo anno accademico sono diminuiti infatti dell'8%. Eppure Stanford è la più ricca università statunitense e, per di più, quella che dovrebbe trarre i maggiori vantaggi dall'aumento vertiginoso delle spese militari voluto da George W. Bush: Stanford è infatti il maggior polo di ricerca scientifica per i progetti militari. In una sala di conferenze della Camera di Commercio, John R. Crapo, direttore del San Francisco Center for Economic Development, mi spiega il meccanismo del crollo: «La febbre delle dot.com è stata una grande corsa all'oro. Puoi paragonare la ristrutturazione delle imprese informatiche, cibernetiche e di programmazione a quello che è successo tra il 1950 e oggi nel settore dell'auto: allora c'erano negli Usa 40 grandi case, oggi sono 5 o 6. Così avverrà nell'informatica. Per tutti gli anni `90 la crescita era tale che sembrava che le vecchie verità della teoria economica fossero ormai superate, che non vi fossero più cicli dell'attività, né limiti alla crescita del mercato: era la new economy. Così, a qualunque ragazzo di 25 anni, un po' sveglio e con una idea sfruttabile, il capitale di ventura metteva in mano 200 milioni di dollari. Prendi per esempio Webvan, che aveva avuto l'idea di creare una e-drogheria, cioè di vendere alimentari per e-mail con consegna a domicilio. Webvan ebbe un certo successo tra i single agiati nell'area della Baia di San Francisco. A questo punto Webvan riceve 900 milioni di dollari di venture capital per estendersi a livello nazionale. Cominciano a comprare magazzini, camion frigoriferi, centri di coordinamento di computer, nodi telefonici, programmi sofisticati e megacalcolatori su tutto il territorio Usa, che è grande. In poco tempo esauriscono tutte le riserve. Ma per penetrare in altre città ci vuole più tempo. Così si schiantano e devono farsi rilevare da catene alimentari tradizionali come Safeway e Alberston che stanno sfruttando l'idea di Webvan in modo più prudente, espandendosi una città alla volta. Ma il caso più tipico è quello di una nuova ditta tecnologica che ottiene 15 milioni di dollari di venture capital, li spende tutti, si trova a corto di liquidi, allora si quota in borsa e - durante la bolla - il suo capitale azionario sale a 400 milioni di dollari; gli investitori, che avevano messo 15 milioni, vendono e realizzano un enorme profitto, ma poi la bolla scoppia e quei giovani che fino a ieri erano miliardari si ritrovano oggi con niente in mano. E adesso il loro sogno è di riuscire a vendere la propria ditta a qualche grande corporation che l'assorba». Il capitale azionario delle più grandi 150 imprese della Silicon Valley ha perso infatti 1.000 miliardi di dollari durante il 2001 e le loro perdite sono state di 98 miliardi di dollari. In tutta la Baia sono finiti in fumo 2.000 miliardi di dollari di liquidità. E il capitale di ventura ha chiuso il rubinetto dei dollari: oggi in tutti gli Usa è al livello più basso dal 1994 e scende a ogni trimestre. Nell'ultimo trimestre è calato del 19% da 1,22 a 1,03 mililardi di dollari e le imprese finanziate sono calate da 214 a 159. Nell'area della Baia solo 36 imprese hanno ricevuto fondi dal venture capital. E ora l'ondata di fallimenti si sta spostando dall'informatica alle imprese di biotecnologia, e nell'ultimo trimestre gli investimenti sono scesi del 52%. «Imprese che cercano terapie ora combattono per la vita» titolava una settimana fa il New York Times: in California, Advanced Tissues (sangue artificiale) ha fatto bancarotta, DeCode Genetics ha licenziato 200 dipendenti, Avigen elimina il 28% della forza lavoro, Cygnus esce dal mercato azionario perché le sue azioni sono scese troppo in basso: «Le imprese biotech sono bambini affamati, le devi finanziare in continuazione» dice un manager di venture capital. La crisi di Silicon Valley si è ripercossa immediatamente su tutta la baia. Il crollo delle dot.com ha provocato una reazione a catena che ha colpito immediatamente le banche e i servizi finanziari. La crisi è scoppiata nel dicembre 2000, già il primo gennaio 2001 i posti hanno cominciato a sparire e a San Francisco a febbraio Charles Schwaab ha licenziato 7.000 dipendenti e altri 3.000 ne deve licenziare. Il mercato edilizio ne ha risentito, ma meno, a causa dell'esplosione demografica degli anni `90. La geografia demografica della Baia non è come uno se la può immaginare. San Francisco non è infatti la più grande città dell'area metropolitana della Baia che porta il suo nome, e che nel complesso ha 7 milioni di abitanti: il primato spetta a Oakland, sulla riva orientale, che con i suburbi e comuni limitrofi conta 2,4 milioni di abitanti, seguita da San Francisco e San Jose con 1,7 milioni di abitanti ciascuna. Ancora più interessanti sono le statistiche dei comuni in senso stretto: nel 1970, San Francisco aveva 716.000 abitanti e San Jose 480.000; nel 2000 la situazione si era invertita e San Jose ha 895.000 abitanti, contro i 777.000 di San Francisco. Il raddoppio di abitanti di San Jose è il riflesso del boom economico della Silicon Valley, «anche se molti tecnici, ingegneri, programmatori, preferivano abitare a San Francisco che è una città vera, piuttosto che a San Jose che è una specie di Disneyland» mi dice Roger Cohn, direttore del magazine Mother Jones. «L'immigrazione massiccia degli anni `90 ha creato una penuria di case, anche perché la sensibilità ambientale è forte e ci sono molte resistenze alla cementificazione. Nella valle sono stati creati 250.000 posti di lavoro ma sono state costruite solo 30.000 nuove abitazioni. Così la pressione sul mercato è stata enorme e i prezzi sono saliti alle stelle», mi dice David Satterfield. Problemi simili, ma un po' diversi, a San Francisco: «Qui ci vorrebbero altre 40-50.000 case per soddisfare la domanda» mi dice John Crapo, «ecco perché i prezzi sono saliti tanto. Ma la crisi si sente anche qui. Per gli appartamenti, gli affitti sono scesi del 20-25 %, e oggi è vuoto il 7% degli alloggi, mentre al tempo del boom era vuoto solo l'1%. Significa semplicemente che allora non potevi trovare casa neanche a spararti, mentre adesso puoi. Ma il contraccolpo maggiore l'ha subito il mercato dell'edilizia a scopo commerciale (uffici, negozi), che al tempo del boom aveva fatto salire l'affitto annuo del metro quadro a 900 dollari, allo stesso livello di Londra o di New York (vuol dire che affittare un ufficio di 100 mq costava 90.000 euro l'anno!) mentre adesso è crollato a 29-33 dollari, e il 20% dello spazio è libero». Al crollo della new economy si è sovrapposto l'effetto dell'11 settembre, provocando una caduta a precipizio del turismo che è l'altra maggiore fonte di reddito di San Francisco. Il traffico aereo si è diradato, gli alberghi si sono svuotati. «Durante la bolla il valore delle azioni era gonfiato, ma il denaro era vero, e ci compravano auto, barche, cenavano nei ristoranti più cari. Tutto finito per il momento» dice John Crapo. Il quadro non è incoraggiante, anche perché la ripresa non si vede ancora all'orizzonte. Ma il giudizio sulla gravità della crisi è controverso. Per Roger Cohn, «tutto era schizzato così in alto, che la ricaduta è stata violenta, ma non è una vera e propria recessione, non si sente davvero il peso della disoccupazione, è piuttosto un ritorno alla realtà dopo il delirio degli ultimi anni `90». Dello stesso parere David Satterfield: «Siamo solo tornati ai livelli del 1997 dopo la sbornia del 1998-2000». Per John Capro, «questa crisi è meno acuta delle precedenti, ma più estesa, e si allargherà ancora. La crisi attuale è profonda solo per il settore tecnologico, ma colpisce tutti i settori, mentre nelle recessioni precedenti erano colpiti solo due o tre settori. Però, anche nella tecnologia, devi ricollocare le cose nel loro contesto: gli investimenti duravano da 15 anni, e solo dopo ci sono stati 5 anni di speculazione e di bolla. La crisi del 1991 forse era stata peggiore per la California, con la chiusura dell'industria aerospaziale e la chiusura delle basi militari che contavano molto nell'economia». Uno slogan diceva che la Silicon Valley vive 15 minuti avanti nel futuro, ma oggi molti suoi abitanti non sanno quale domani. Per esempio Marifaith Hackett, 45 anni, Ph. D. in chimica, master in business e amministrazione, ha vissuto sette anni nella valle, ma a febbraio ha perso il posto e ora è tornata a Chicago, da dove veniva, perché fino ad ora era riuscita solo a trovare un lavoro temporaneo.
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