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finanziaria e rischi argentini
- Subject: finanziaria e rischi argentini
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 22 Nov 2002 06:55:30 +0100
da affari e finanza lunedi 18 Novembre 2002 Finanziaria da campagna elettorale MARCELLO DE CECCO E’ stato già detto, ma vale la pena ripeterlo, che il problema finanziario principale di questo governo sta nell’aver condotto una intera campagna elettorale all’insegna di una cosiddetta svolta liberista: meno tasse per tutti, meno lacci e lacciuoli per le imprese, interventi corposi e decisi per far progredire il paese sulla via della informatizzazione, della innovazione, e della conoscenza della lingua inglese. Giunto nella stanza dei bottoni, il governo si è trovato a far fronte ad una gigantesca crisi economica, politica e finanziaria globale, che ha investito i principali paesi d’Europa con particolare violenza, in condizioni di ridotta agibilità della politica economica tradizionale, e con le finanze di stato impegnate dalle conseguenze di un bilancio elettorale che il precedente governo, come tutti i governi democratici, si era permesso di disegnare ed eseguire, dopo avere fatto tirare la cinghia al paese per un certo numero di anni, allo scopo di portarlo fuori dalle secche della crisi dei primi anni novanta, seguita al crollo dello SME e della Prima Repubblica. Il governo Berlusconi, giunto al potere, avrebbe potuto avvertire senza ambagi il paese non solo del fatto che aveva trovato le casse vuote (e a farlo lo aiutò il governatore Fazio), ma anche della necessità di una nuova austerità, motivata dalla grande crisi mondiale in cui era coinvolta l’economia italiana. Decise invece di mantenere scenari di un futuro prossimo rosa per l’economia del paese e, ovviamente, per l’economia mondiale. Aveva promesso di ridurre le tasse a tutti, di mandare al macero la concertazione tra le parti sociali, descritta come corporativa e consociativa, di intervenire per rilanciare ricerca, scuola e innovazione, dando via libera alla privata iniziativa. Ma aveva anche fatto trapelare le proprie intenzioni di mettere in opera una serie di interventi di finanza straordinaria, condoni fiscali ed edilizi, condoni valutari. Tutto questo doveva premiare l’elettorato della Casa delle libertà, composto, presumibilmente, in gran parte di quei famosi lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, artigiani, professionisti che costituiscono la differenza più marcata tra l’Italia e gli altri paesi a reddito elevato del mondo occidentale. Questi elettori hanno una importante caratteristica: possono, al contrario dei lavoratori dipendenti tassati "alla fonte" , decidere quante imposte pagare. I governi precedenti, per tutti gli anni novanta, erano riusciti a convincere questa massa di persone e imprese a pagare una parte rispettabile delle imposte effettivamente dovute, così come accade nel resto dell’Europa civile. Ma, proprio per questo, la massa dei lavoratori autonomi ha premiato la parte politica che prometteva la fine di un carico fiscale ritenuto esoso e ingiusto. Non è da sottovalutare la differenza psicologica profonda che esiste tra il ricevere un reddito al netto delle imposte, come accade ai lavoratori dipendenti, e il pagare personalmente le medesime traendo il denaro dalle proprie tasche dopo che in esse è giunto. Insediatosi il nuovo governo, e tendendo l’orecchio ai "rumori" dei bene informati, che parlavano di condoni imminenti, gli elettori del Polo delle Libertà si son dunque messi coscienziosamente all’opera per autoridursi le imposte. Chi non lo avrebbe fatto al posto loro? Le misure effettivamente varate dal governo, la Tremonti Bis (priva di copertura finanziaria ed estesa ad ogni sorta di acquisti di beni mobili e immobili), la abolizione della imposta di successione, e soprattutto il condono sui capitali detenuti all’estero, concesso letteralmente per un piatto di lenticchie, hanno confermato i lavoratori autonomi nel loro sciopero fiscale. Ad esso si è aggiunta la pessima congiuntura, che ha ridotto potentemente i profitti degli intermediari finanziari, da sempre tra i più importanti contributori all’Irpeg, il crollo dei guadagni di capitale che ha seguito la caduta del corso delle azioni, infine i profitti di quasi tutte le imprese. Il governo si è dunque trovato di fronte ad una inaudita frana delle entrate, che si era in buona parte autoinflitta e che in parte era il portato dell’avversa congiuntura. Ma, fino all’estate di quest’anno, ha mantenuto le proprie rosee previsioni congiunturali, facendo i conti su una crescita del reddito nel 2002 e nel 2003 sempre meno credibile e in contrasto con le previsioni di tutti gli enti che, in Italia e all’estero, operano in questo settore. A partire dall’estate, di fronte alla ineludibile evidenza dei fatti, il governo ha cominciato a fare marcia indietro, ma a tutt’oggi prevede una crescita per l’anno in corso e in particolare per il 2003, che non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Ora, dai dati sulla crescita dipendono le previsioni delle entrate fiscali. Più il reddito cresce, più cresce il gettito. Si deve ritenere che il governo creda veramente alle proprie cifre, altrimenti non avrebbe strutturato la legge finanziaria come ha invece fatto. La gran parte dei provvedimenti coi quali si vuol far fronte al buco delle entrate e alla necessità di mantenere gli sgravi fiscali nei confronti delle famiglie, infatti, ha una spiccata natura di "una tantum". Questo vuol dire che il governo veramente spera che nel 2003 il reddito crescerà di nuovo, addirittura del 2.3% , che il circolo redditoimposte ridiverrà virtuoso, che non ci sarà quindi bisogno di nuovi interventi "una tantum" come quelli appena varati. A rendere più realistica questa interpretazione sta anche l’ultima trovata dello stesso governo, quella di dar luogo ad una operazione di cosmesi finanziaria che impedisca al debito pubblico (anche se ancora una volta "una tantum") di aumentare ulteriormente, Si tratta di trasformare un debito del governo con la Banca d’Italia, di 39 miliardi di Euro, acceso nel 1992 per una durata trentennale per estinguere il deficit che esisteva allora nel conto corrente di tesoreria. Lo si volle trentennale, con una cedola simbolica dell’1%, e fu registrato al valore nominale nei conti della nostra banca centrale. Fu un quasiregalo della banca al governo di allora, nella paurosa crisi politicoeconomica che attanagliava il paese. Il governo di oggi. chiede di trasformare tale debito portandolo ai valori di mercato e aumentandone la cedola a quasi il 5%. In tal modo, il valore capitale del debito si dimezza e impedisce al deficit di bilancio residuo di quest’anno di far aumentare il debito pubblico italiano. Resta ancora da sapere come si pensa, da parte governativa, di risolvere il problema di contabilità creato alla Banca d’ Italia, che, vedendo dimezzato i valore del proprio credito da 40 a 20 miliardi di Euro, presumibilmente non farà utili, non li consegnerà al Tesoro e passerà dallo stato di contribuente netto a quelle di titolare di perdita fiscale. Ma questi sono problemi di secondo ordine, se l’economia, nel 2003, cresce al tasso del 2.3%. Anche le altissime strida lanciate al cielo dagli imprenditori, sui quali il governo ha fatto ricadere lo sgravio fiscale concesso alle famiglie, si attenueranno fino a spegnersi se ripartirà il ciclo economico mondiale tanto robustamente da permettere all’Italia di aumentare le esportazioni del 7%, come non è accaduto in anni recenti, che è il principale supporto sul quale si regge la credibilità del tasso di crescita previsto dal governo. Non dello stesso avviso sembrano essere i governanti degli altri due grandi paesi in difficoltà, Germania e Francia. Guidati da ideologie opposte l’una all’altra, si incontrano tuttavia nel modo di affrontare l’attuale pessima congiuntura mondiale, che si ripercuote pesantemente sulla crescita e sui conti pubblici. Espongono francamente deficit di bilancio vicini o superiori al fatidico 3% del patto di stabilità (che solo ora appare vituperabile anche a chi insistette tanto per imporlo). Non sembrano voler far ricorso a provvedimenti una tantum, a concordati e condoni fiscali che essi sanno bene avere pessime conseguenze sul grado di "fiscal compliance", sulla rettitudine fiscale persino di cittadini probi e timorati delle leggi come sono francesi e tedeschi. Sperano, esponendo il deficit e non cercando di mascherarlo, nell’operare pieno degli ammortizzatori automatici, che il patto di stabilità ("stupidamente", come bene dice Prodi) anchilosava. Non si espongono a previsioni rosee di crescita per il 2003, rinviano il pareggio molto in là nel tempo. Come tutti i governi democratici appena eletti, stringono per due anni, per poi fare un rilancio nei due seguenti, per riguadagnare il favore elettorale. Quando piove, in altre parole, aprono l’ombrello. I nostri, invece, sembrano voler usare un giornale ripiegato per scampare dalla pioggia, nella speranza che questa sia solo un temporale passeggero. E se invece dura più del previsto? Il giornale si bagna e non ripara più. E allora, via con altri condoni fiscali ed edilizi che, se uccidono la finanza normale, fanno tanto bene alle prospettive di un governo che, più che governare, sembra essere perpetuamente impegnato in una interminabile campagna elettorale. E, se qualche misura che non dipende dal destino si prende, essa è di pessima qualità. Si eliminano quasi totalmente le spese per la ricerca scientifica, si vara un decreto tagliaspese che ricorda ai più anziani la famigerata "linea Carli Colombo", si nascondono sotto il tappeto ulteriori tagli, imponendo agli enti locali di farli, ma non proibendo che si indebitino ( a proprio nome, ma con la garanzia implicita dello stato) sul mercato finanziario internazionale. Lo sfascio argentino, che si è svolto secondo le stesse procedure, non ha dunque insegnato nulla a noi, che siamo i fratelli di sangue degli abitanti di quel meraviglioso e sventurato paese.
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