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il villaggio non globale
- Subject: il villaggio non globale
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 15 Nov 2002 06:53:12 +0100
il manifesto - 08 Novembre 2002 Il villaggio non-globale Finiti i controvertici (e forse anche i vertici, visto che l'ultimo G8 si è svolto in un luogo sperduto sui monti del Canada) il movimento passa alla definizione di un programma politico. Con una certezza, quella che nessuna cancelleria occidentale ha le chiavi per governare la globalizzazione, e un rischio: finire per ritenersi «gli oratori del genere umano» Posti i problemi, la sfida di Firenze è indicare le soluzioni. E i cosiddetti «no global» sono i soli ad affrontare seriamente le questioni della globalizzazione DANIELE ARCHIBUGI Che si sia discusso del Social Forum Europeo di Firenze come un problema d'ordine pubblico è una di quelle tristi occasioni mancate della democrazia italiana e europea. Nei ministeri e nei grandi media i movimenti globali vengono ancora percepiti per gli aspetti folcloristici, ignorandone la componente essenziale, quella politica. Ma questa difficoltà di molti commentatori non è casuale: per quanto a volte in modi confusi, i movimenti globali toccano un nervo scoperto della politica e delle tradizionali istituzioni statali, le quali sentono, e a ragione, minacciato il potere monopolistico di cui nella politica estera. Da Seattle in poi, i principali vertici inter-governativi hanno avuto un effetto politico comune: quello di fornire una formidabile occasione per presentare idee politiche e sociali alternative. Il fatto, in fondo, è paradossale: per i rappresentanti dei governi, i vertici devono essere una bella vetrina. Su tutto, padroneggia il protocollo: si stendono i tappeti rossi, si stappano le bottiglie di champagne, si dipingono le facciate dei palazzi e le città sono ripulite, si fanno foto di gruppo sorridenti, rovinate solamente dalle corna fatte dall'ultimo parvenu. Tutto ciò, sembra tramontato per sempre. I vertici, grazie ai contro-vertici, sono diventati momenti di contenzioso tra due visioni opposte della politica mondiale. Non solamente a Genova, nel luglio 2001, dove il neo insediato governo Berlusconi aveva bisogno di dimostrare che conosceva bene la legge del manganello, ma anche nella civilissima Svezia, la reazione dei governi nei confronti dei manifestanti è stata isterica. E viene il sospetto che il loro timore fosse dettato dal fatto che fosse svelato il più recondito segreto: neppure le più potenti cancellerie hanno in mano le chiavi per governare la globalizzazione. Arroganti commentatori si chiedono che cosa hanno conseguito i movimenti globali se non il mettere a rischio i monumenti. Sono disinformati. I pochi risultati utili che sono stati incassati nel panorama internazionale hanno visto una partecipazione diretta di movimenti non istituzionali. Si prenda l'esempio della Corte penale internazionale: tutte le lunghe tappe, dall'approvazione dello Statuto a Roma nel 1998 fino all'apertura della sede all'Aja, hanno visto una costante pressione di associazioni e movimenti per i diritti umani, come documentato nel bel saggio di Marlies Glasius pubblicato nel recentissimo Yearbook Global Civil Society (Oxford University Press, ne ha parlato su queste pagine Federico Silva). Gli esempi si potrebbero moltiplicare: dalla cancellazione parziale del debito alla messa al bando delle mine anti-uomo, non c'è una singola azione che sia stata compiuta senza campagne transnazionali condotte al di fuori dei tradizionali canali di partecipazione politica. Non si vuole certo suggerire un facile ottimismo, perché è evidente che sono molto più numerosi i casi in cui i movimenti globali non sono (ancora?) riusciti ad ottenere risultati tangibili (basti pensare alla riforma dell'Onu e degli organismi economici internazionali). Ma per troppo tempo i governi degli stati democratici, quelli che dominano il mondo nella nostra epoca, hanno potuto prendere decisioni sulla politica internazionale distanti da un effettivo controllo dell'opinione pubblica. Trincerati dietro la segretezza diplomatica, l'asserita natura tecnica delle questioni internazionali e la ragion di stato, hanno agito seguendo le regole ottuse delle proprie amministrazioni, spesso comandate a bacchetta da lobby più o meno potenti (quella delle armi da fuoco, del tabacco, degli agricoltori, delle imprese farmaceutiche e così via). Solo puntuali campagne di contro-informazione sono riuscite ad impedire in altri casi che i governi riuscissero a far trangugiare insensate decisioni ai propri elettori. Il vertice del G8 del 2002 si è svolto in una località dimenticata da dio e dagli uomini nelle montagne ghiacciate canadesi, a dimostrazione che finalmente i governi hanno ingozzato almeno metà della lezione impartita dai movimenti. Si può a questo punto sperare che apprendano rapidamente anche l'altra metà e che la smettano definitivamente di organizzare i vertici del G8. Sprovvisti di una carta, senza contraddittorio né deliberazioni pubbliche, con stati che rappresentano poco più del 10 per cento della popolazione del pianeta, è impossibile ritenere il G8 un'istituzione democratica. Ma la riunione di Firenze, non meno dei due Forum sociali di Porto Alegre del 2001 e del 2002, è anche espressione di un fondamentale salto di qualità dei movimenti globali: non si svolgono più alla presenza di un "vertice" convocato da qualche organizzazione inter-governativa, bensì si sono dati un'agenda e obiettivi politici autonomi. Dalla prima fase della protesta e della testimonianza, i movimenti sociali stanno ora tentando di passare alla definizione di un proprio programma politico. In questa fase, devono tenere presenti alcuni passaggi fondamentali. Prima di tutto, devono rifuggire dall'accreditare l'immagine stereotipata che hanno ottenuto dai principali organi d'informazione, a cominciare dalla pessima etichetta "No global". Questi movimenti sono, al contrario, gli unici che affrontano seriamente i problemi posti dalla globalizzazione: le associazioni hanno obiettivi politici e sociali che travalicano le frontiere degli stati, siano essi i diritti umani, la distribuzione del reddito, il commercio equo. I problemi che mettono in luce quasi mai possono trovare risoluzione - se non in un ambiente regressivo - all'interno dei singoli stati. Le stesse persone che partecipano a questi movimenti sono i figli privilegiati della società globale: conoscono le lingue, hanno accesso alla cultura, utilizzano Internet, viaggiano. Per evitare che la globalizzazione trasformi il pianeta in una nuova giungla di protervia, sono necessari proprio questi strumenti. Come suggerito nel titolo di un libro di Mario Pianta, i movimenti offrono una globalizzazione dal basso, ossia controllata al fine di mettere le enormi potenzialità economiche, scientifiche e tecnologiche della nostra era al servizio degli individui, dei paesi e delle regioni che finora ne hanno ricevuto soprattutto i costi. Ma tutto ciò è sufficiente per sostenere le ragioni dei movimenti globali? No, non basta. Occorre anche una strategia politica non episodica. Quando i coloni americani, più di due secoli fa, intendevano emanciparsi dalla dominazione inglese, coniarono lo slogan "No taxation without representation" (no alla tassazione senza rappresentanza politica). Oggi i movimenti globali dovrebbero parafrasare questo detto: "No globalisation without representation". Governare la globalizzazione richiede, infatti, l'apertura di canali istituzionali che possano dar voce ai legittimi interessati e, in via provvisoria, a coloro che si fanno carico di rappresentarli. Qui non bisogna negare alcune contraddizioni: a Genova, i manifestanti opponevano ai governi lo slogan "Voi G8, noi 6 miliardi". Ma per i governi non era difficile rispondere chiedendo secondo quale processo deliberativo i movimenti globali avevano ricevuto l'incarico di rappresentare tutta la popolazione del mondo. Bisogna rifuggire dalla tentazione di auto-nominarsi "oratori del genere umano", per riprendere il termine del bislacco giacobino Anacharsis Cloots. Il vero successo di un movimento è riuscire a tradursi in istituzione, lasciando da ultimo spazio a movimenti che perorano più avanzate istanze. E' indicativo che il vastissimo programma di dibattiti programmati a Firenze ha messo insieme testimonianze sociali significative con competenze tecniche specifiche (economiche, giuridiche, addirittura mediche e ingegneristiche). La sfida di Firenze è non solo porre i problemi (inclusi quelli spesso ignorati), ma anche di proporre soluzioni. Sia chiaro, le soluzioni sono spesso difficili da trovare, le opinioni possono divergere, ed è un elemento di ricchezza se le differenti opinioni fossero evidenziate, piuttosto che nascoste o camuffate. Basterebbero pochi punti di convergenza su obiettivi discreti e raggiungibili, fornire coloro che siedono nelle stanze con i bottoni, per decretare il successo dell'iniziativa. Da Firenze uscirà anche una radiografia dello stato della democrazia in Europa. Come mai, verrà spontaneo chiedersi, su tanti aspetti specifici, una nebulosa di movimenti hanno costituito un'agenda sui problemi del pianeta e del continente assai più vicina alla percezione dell'uomo della strada di quanto accada per i parlamenti eletti di mezz'Europa, che pure dispongono di risorse infinitamente più ingenti? Molti ne ricaveranno un'ulteriore prova della crisi della democrazia rappresentativa. O più semplicemente, dell'arroccamento dei parlamenti nazionali su questioni esclusivamente parrocchiali. Ma speriamo che, questa volta, qualche parlamento sappia ameno aprire le orecchie.
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