la cina in transizione



dal sole24ore

      
 
                                  
 
Mercoledì 06 Novembre 2002 
 
 Sotto la Muraglia i dubbi della transizione
  
   di Luca Vinciguerra La Cina volta pagina. Entro pochi giorni, il Paese
avrà una nuova nomenklatura di giovani uomini politici che dovrebbe
guidarlo per i prossimi dieci anni. Venerdì infatti inizierà il 16°
Congresso del Partito Comunista Cinese. Salvo colpi di scena, le cose
dovrebbero andare secondo il copione scritto ormai da tempo. Avendo
entrambi superato i 70 anni, il presidente Jiang Zemin, il premier Zhu
Rongji, e il presidente dell'Assemblea del Popolo (il Parlamento) Li Peng
dovrebbero passare il testimone alla cosiddetta "quarta generazione", cioè
a quella schiera di funzionari sessantenni cresciuti politicamente durante
la Rivoluzione Culturale maoista. Ma al di là dei dubbi sul ritiro
effettivo dei vecchi dirigenti, i giochi sembrano fatti. Hu Jintao,
l'attuale vicepresidente, dovrebbe assumere la carica di presidente della
Repubblica Popolare Cinese e di segretario generale del Pcc. Wen Jiabao,
ora vice-premier, dovrebbe diventare premier. Non è ancora chiaro, invece,
chi sarà nominato a capo della Commissione Militare: secondo alcune
indiscrezioni, nonostante l'opposizione di diverse componenti del Partito,
Jiang potrebbe conservare il comando di fatto delle forze armate. Zeng
Qinghong, l'uomo di fiducia di Jiang fin dai tempi in cui quest'ultimo era
sindaco di Shanghai, avrà un ruolo chiave nel nuovo Politburo con buone
probabilità di essere il futuro vicepresidente. Nel segno della continuità.
Un fatto, comunque, è certo: anche se la prossima primavera dovesse
abbandonare tutte le cariche, Jiang Zemin continuerà a giocare un ruolo
centrale nella vita politica cinese. Alla stregua di Deng Xiaoping, sarà
una specie di «Imperatore dietro la cortina», il vecchio saggio che tira le
fila del potere, che fa da arbitro tra le lotte intestine in seno al
Partito, che dirime le controversie. Così facendo, Jiang dovrebbe rendere
più fluida la transizione generazionale, consentendo al nuovo gruppo
dirigente di crescere e di prendere gradualmente confidenza con la
complessa macchina di potere che muove la vita quotidiana della Cina.
L'avvento di una nuova leadership, composta da burocrati di partito dal
profilo incerto e sconosciuto, apre ovviamente un orizzonte di incertezza
sul destino del Paese più grande del pianeta. Dopo il Congresso, la Cina
continuerà senza scosse il suo cammino sulla strada delle riforme
economiche intrapresa vent'anni fa da Deng Xiaoping e proseguita
brillantemente da Jiang Zemin? s'interroga oggi il mondo occidentale, e in
particolare coloro che hanno investito di tasca propria in Cina. Un Paese
che alla fine del 2002 diventerà la principale destinazione planetaria
degli investimenti stranieri (circa 50 miliardi di dollari), superando così
gli Stati Uniti. Crescita economica. L'America è in recessione, l'Europa in
profonda crisi d'identità, il Giappone in decadenza. Stando così le cose,
oggi gran parte delle speranze della crescita economica mondiale sono
appuntate sulla Cina. «Se s'inceppa anche questo mercato, sono davvero
guai», è il refrain degli imprenditori stranieri che si spingono verso il
Celeste Impero a caccia di affari. Ciò spiega perché, mai come questa
volta, la vigilia di un Congresso del Pcc sia stata seguita con tanto
interesse e apprensione anche fuori dai confini del continente asiatico. Le
contraddizioni della nuova Cina. Il tandem Jiang Zemin-Zhu Rongji ha saputo
gestire con saggezza e abilità la pesante eredità del dopo-Deng. In dieci
anni, la Cina ha registrato una crescita economica come mai nella sua
storia. Ha liberalizzato il proprio sistema produttivo lasciando sempre più
spazio all'iniziativa privata. Si è aperta agli scambi con l'estero grazie
all'ingresso nella Wto. Ha conquistato un ruolo di prestigio, come non
aveva più da secoli, tra i grandi del mondo. Ma paradossalmente, proprio
ora che la barca cinese ha preso il largo vincendo l'insidiosa corrente
contraria, inizia la parte più difficile del traghettamento. Avviate le
riforme, infatti, ora non si tratterà solo di implementarle e di vararne di
nuove. Bisognerà anche fare i conti con l'impatto dei grandi cambiamenti
economici e sociali che hanno attraversato la Cina dagli anni '90 in poi. E
che l'hanno trasformata in una specie di centauro: per metà una dittatura
comunista, per l'altra metà un'economia a capitalismo spinto (ma guai a
nominare questa parola…) dove la componente privata sta assumendo
progressivamente un ruolo sempre più importante. Il risultato di questo
strano cocktail è una nazione che dentro i suoi immensi confini concentra
il più elevato livello di diseguaglianza del mondo. Non c'è Paese sul
pianeta dove il ricco sia tanto ricco, e il povero sia tanto povero. Le
condizioni di vita della gran parte delle campagne cinesi non sono poi
molto distanti da quelle dei villaggi africani. I rischi della
liberalizzazione. La ristrutturazione delle aziende di Stato ingrosserà
l'esercito dei disoccupati. L'esodo delle campagne, favorito
dall'allentamento dei controlli necessario per consentire la mobilità di
forza lavoro a basso costo, aumenterà il numero dei diseredati nelle grandi
città. L'apertura agli scambi internazionali metterà in fuorigioco diversi
settori dell'industria domestica. Ecco perché la nuova classe dirigente
avrà le medesime priorità politiche di quella che l'ha preceduta: crescere,
crescere e ancora crescere. Solo un'espansione economica robusta, sostenuta
e sostenibile potrà infatti mettere la Cina di domani al riparo dal rischio
instabilità. Un rischio che nell'ultimo biennio è già affiorato qua e là
sotto forma di proteste e tumulti di piazza, come accaduto la scorsa
primavera nella città di Liaoyang. Gestire l'incertezza. I numeri relativi
alla crescita del prodotto interno lordo forniti da Pechino non
corrispondono alla realtà. Gli analisti stranieri lo vanno dicendo da
tempo: un recente rapporto interno e confidenziale di una banca d'affari
americana, per esempio, sostiene che il tasso di sviluppo annuo cinese si
aggira intorno al 3,5-4 per cento, cioè circa la metà di quello ufficiale.
Ciò premesso, il quadro macroeconomico odierno presenta diverse fattori di
inquietudine. I consumi domestici, principale motore della domanda
aggregata, negli ultimi mesi hanno frenato la corsa. La deflazione ha
iniziato a mordere. Dopo anni di crescita selvaggia, il mercato immobiliare
è entrato in una fase riflessiva, e molti temono che stia viaggiando dentro
una pericolosa bolla speculativa. Le banche presto o tardi saranno
costrette a liquidare una montagna di sofferenze: circa il 20% degli
impieghi, secondo le fonti ufficiali; oltre il 45% dice Moody's Investors
Service. La disoccupazione continua ad aumentare, anche perché il sistema
riesce ad assorbire sempre meno la manodopera espulsa dalle aziende di
Stato costrette a chiudere i battenti. La "quarta generazione" che si
accinge a salire al potere dovrà affrontare simultaneamente tutti questi
problemi in modo da prevenire qualsiasi trauma all'espansione economica. Lo
strumento più efficace, che finora è stata utilizzato a piene mani da
Pechino, è stato quello della spesa pubblica. La modernizzazione del Paese
ha bisogno come il pane di nuove infrastrutture. Il Governo è ben contento
di costruirle perché una politica fiscale espansiva stimola la domanda
interna. Che fare, dunque, per eternare il miracolo cinese? è questa la
domanda chiave cui dovranno rispondere gli uomini nuovi che emergeranno dal
conclave del Partito Comunista.