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il manifesto - 01 Settembre 2002
Il panda si mangia le anatre 
ANGELA PASCUCCI
 
 
Il panda si mangia le anatre 
Più di metà dei lettori Dvd venduti nel mondo si produce in Cina, ormai in
testa anche in molte altre produzioni ad alta tecnologia, mentre mantiene
una competitività assoluta nella fascia bassa della manifattura. Sempre più
a rischio il «volo delle anatre», il modello asiatico di sviluppo. Il
fenomeno visto, e illustrato, da uno studio della giapponese Nihon Keizai
Shimbun Inc.
ANGELA PASCUCCI
Il dragone cinese piglia-tutto ingoia e cresce. I dati compilati dalla
Nihon Keizai Shimbun Inc. e riportati con giapponese freddezza nei grafici
che riproduciamo (tratti dall'ultimo Nikkei Weekly) descrivono un fenomeno
che sta cambiando le modalità della crescita asiatica e ridisegnando la
divisione del lavoro nell'area in modo così radicale e tumultuoso da
rendere ancora difficile l'elaborazione di un modello che ordini la lettura
della realtà presente e i suoi sviluppi futuri. Quello che tuttavia si può
dire con certezza è che il precedente modello di crescita dell'area si è
inceppato. Nel senso che, per usare un'immagine efficace inventata dagli
esperti, il grosso panda cinese ha interrotto bruscamente il regolare volo
delle anatre che, in fila dietro al Giappone, un tempo si trasmettevano via
via gli stadi di produzione e di sviluppo, dalla manifattura all'hi tech,
trovando ognuna di che vivere e crescere al proprio livello. Ma l'economia
cinese, dalle abnormi dimensioni, ormai inghiotte tutto e mentre mantiene
una competitività assoluta nella fascia bassa della manifattura (con salari
medi di 60 centesimi di dollaro l'ora), espande rapidamente la sua presenza
nella tecnologia medio-alta. Il Nihon Shimbun rileva infatti come, su 16
prodotti presi in esame nella sua indagine, ormai la Cina abbia il primato
della produzione in otto e la rapidità della sua crescita la spinga sempre
più avanti anche negli altri. Nel 2002 il 54,1% dei lettori Dvd
commercializzati nel mondo sono «made in China», il triplo rispetto al
1999, quando la percentuale era del 17%. Nello stesso periodo la quota
cinese nella produzione mondiale di telefoni cellulari è passata dal 9,5%
al 27,8%, quella di computer portatili dallo 0,1% all'11,7%. Continua la
preminenza nella produzione di personal computer e di televisori a colori.

D'altra parte c'è anatra e anatra. Così quelle più grasse e forti, come il
Giappone, Singapore, Taiwan trovano ancora funzionale, per motivi diversi,
il ruolo della Cina nella loro attuale fase economica. Altre più gracili,
come la Thailandia, la Malesia, l'Indonesia, il Vietnam o le Filippine,
hanno di che inquietarsi per l'andazzo corrente, anche perché il consiglio
che si sentono rivolgere più spesso è quello di dedicarsi alla coltivazione
del riso e all'esportazione di legname, sulla base della teoria dei
vantaggi comparati di ricardiana memoria. Ma di fatto si sta assistendo a
una vera e propria corsa verso il territorio cinese di una quantità
crescente di compagnie orientali (oltre che occidentali) che trovano assai
conveniente trasferire lì l'ultima fase di assemblaggio. Nell'area
asiatica, è il Giappone che guida la marcia verso l'Impero di Mezzo, dove
trova forza lavoro, anche qualificata, a prezzi così stracciati che diventa
conveniente abbandonare la produzione nazionale di alcune merci di
medio-alta tecnologia. Tanto che, come rileva l'indagine di Nihon Keizai,
in ben 14 dei 16 prodotti presi in considerazione dal survey la percentuale
di produzione nipponica è in calo. Ma Tokyo preferisce puntare sulla
ricerca e lo sviluppo, dove è ancora imbattuto. Subito dopo i giapponesi,
Taiwan che, nonostante i rilevanti problemi politici con una madrepatria
che lo considera sua parte integrante, non ha aspettato un attimo per
approfittare della sospensione del bando agli investimenti taiwanesi,
decisa da Pechino alla fine del 2001, rafforzando una presenza che,
nonostante tutto, era forte già da tempo. A questo si aggiunga che una
valanga di investimenti esteri diretti, dai 40 ai 45 miliardi di dollari,
inonda ormai costantemente ogni anno la Cina, lasciando a becco asciutto le
anatrelle.

Anche se precario, un equilibrio ancora perdura nella dinamica, e reggerà
fino a che i produttori di dischi rigidi, o altre componenti elettroniche,
del sud est asiatico (con Singapore in testa) potranno esportarli in
quantità crescenti in Cina (che ancora importa 85 miliardi di merci dal
resto dell'Asia). Ma, come nota anche il Nikkei Weekly, questa divisione
del lavoro non durerà.

E' solo questione di tempo, quello che la Cina metterà nell'acquisire
tecnologie più avanzate. Obiettivo primario che ha spinto i cinesi a
elaborare strategie interessanti, e per certi aspetti inedite nello
scenario asiatico, nei rapporti con le compagnie straniere che vogliono
fare affari con loro. Un esempio valga per tutti, quello dell'accordo con
Alcatel, che ha portato alla fine dello scorso maggio al lancio ufficiale
della joint venture Alcatel Shanghai Bell, la seconda fornitrice di
apparecchiature telecom della Cina. Per avere accesso all'insieme della
ricerca del gruppo in tutto il mondo, il governo cinese ha rinunciato al
controllo della società, evento piuttosto eccezionale anche se non isolato.
Alcatel si è anche impegnata a sviluppare gli addetti al settore ricerca e
sviluppo da 2100 a 3500 persone.

Per un Alcatel che apre le porte, c'è un governo americano che mette i
bastoni tra le ruote alle sue compagnie, come raccontava la Far Eastern
Economic Review della scorsa settimana, dedicando la sua storia di
copertina alle nuove barriere che l'amministrazione Bush sta ponendo
all'export verso la Cina di prodotti che ritiene «sensibili» per contenuto
tecnologico in termini di sicurezza nazionale. Così se la Germania ci mette
30 giorni per dare il suo placet a una licenza di esportazione di alta
tecnologia verso la Cina, negli Usa occorre attendere 77 giorni, e non è
detto che il permesso venga accordato.

Ma l'amore-odio americano (perfettamente riflesso dall'altra parte del
Pacifico nell'impressionante specchiarsi deformato di immagini e modelli)
non riuscirà a fermare la corsa cinese. In un interessante servizio diffuso
dall'agenzia Reuters il 5 luglio di quest'anno, datato Tokyo, per la serie
«chi sale e chi scende» in Asia si rilevava come in una grande conferenza
sulle prospettive del business tedesco nell'area, tre workshop erano
dedicati alla Cina e uno solo al Giappone. D'altra parte chi può resistere
a una «superpotenza della manifattura» con una «imbattibile struttura dei
costi» fornita da «un serbatoio infinito di lavoro a buon mercato»
garantito da «una forza lavoro affamata e disciplinata» in grado di
garantire «esplosivi aumenti di produttività» (pareri di analisti raccolti
alla conferenza). «Difficile che le Tigri possano offrire qualcosa di
migliore e più brillante». Oltre a tutto anche il lavoro più qualificato è
a basso prezzo. Ogni anno le università cinesi sfornano più ingegneri di
quelle statunitensi, e sarebbero oltre 12mila gli studenti cinesi
attualmente iscritti nelle università tedesche (contro duemila giapponesi).
Altro vantaggio molto apprezzato da chi traffica coi capitali è poi la
stabilità politica della Cina (data evidentemente per eterna) apprezzata
soprattutto per la determinazione, ormai acclarata, della sua leadership a
continuare sulla strada intrapresa.

Prima o poi, dunque, sarà il panda a guidare le anatre. Resta da capire se
sarà il panda che imparerà a volare, o se le anatre saranno costrette ad
atterrare.