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io penso dunque sono connesso
- Subject: io penso dunque sono connesso
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 10 Sep 2002 06:35:37 +0200
il manifesto - 30 Luglio 2002 Io penso, dunque sono connesso BENEDETTO VECCHI «Far comunità comunicando». Un laboratorio della comunicazione Io penso, dunque sono connesso La tentazione omologante della globalizzazione e le chance di libertà nella comunicazione in rete. Parla Derrick de Kerckhove, direttore del McLuhan Program «Nel web il singolo ha la duplice possibilità di fare parte di un gruppo senza perdere la sua identità e di avere un'identità senza perdere il senso del gruppo» BENEDETTO VECCHI Personaggio poliedrico e saggista prolifico, Derrick de Kerckhove si occupa prevalentemente di comunicazione, del suo significato sociale, e dei condizionamenti della tecnologia nel linguaggio. Allievo di Marshall McLuhan, è docente nell'università di Toronto, anche se il suo nome è legato al McLuhan Program, progetto che dirige da quasi un ventennio. In Italia è conosciuto per i suoi libri su Internet, da Brainframes (Baskerville) a La civilizzazione video-cristiana (Feltrinelli). Tuttavia, negli ultimi dieci anni i suoi studi hanno cercato di indagare come i «nuovi media» hanno influito nei processi di apprendimento, nella produzione culturale - a questo proposito, rimane una lettura propedeutica il volume La pelle della cultura (Costa&Nolan) - e su quella che lui stesso definisce «intelligenza connettiva», a cui ha dedicato anche il suo ultimi due libri, Connected Intelligence (Sommerville). In Italia per partecipare all'incontro «Mondo cablato, mercato globalizzato ma giustizia sociale in aspettativa: una sfida asimmetrica?», che si è tenuto lo scorso fine settimana a Gemona in Friuli, non si sottrae alle domande, anche se hanno l'andamento «discreto» di una serie di zero e uno di un messaggio lanciato nel cyberspazio. Per De Kerckhove, infatti, Internet consente sempre una «negoziazione» tra i naviganti del world wide web e rappresenta una straordinaria chance di libertà di espressione, anche se la realtà con cui fare i conti è quella della globalizzazione economica e delle diseguaglianze che si porta dietro. La globalizzazione sembra una tendenza inarrestabile, ma niente affatto lineare. Ad esempio, nonostante tutta la retorica che ha accompagnato questo inizio millennio su un mondo finalmente pacificato dopo le grandi contrapposizioni ideologiche, la guerra è tornata sulla scena come strumento di regolazione delle controversie internazionali. Tuttavia, penso ai Balcani o all'Afghanistan, sembra più una «operazione di polizia» che rimette in riga i riottosi dell'ordine mondiale che non una guerra tradizionale, intesa come conflitto tra stati sovrani. Lei che ne pensa? E' vero. Ricordo una volta di aver sentito dire al politologo e sociologo francese Alain Touraine che, dal momento in cui il voto in Florida ha deciso l'elezione di Bush, siamo entrati in un mondo governato dalla violenza e dall'opzione militare. Concordo con lui. Va detto però che in passato le operazioni di polizia internazionale della Cia erano molto più «forti». La res publica era un'invenzione romana presa dai greci per indicare uno spazio comune dove genti e popoli diversi governati tuttavia da un unico paese discutevano della «cosa pubblica», cioè del loro destino. Ecco, penso che avremmo bisogno non tanto di una polizia internazionale quanto di un uno spazio pubblico comune. Inoltre, globalizzazione vuol dire anche superamento dell'idea di confine naturale (geografico) tra gli stati. Questa assenza del limite geografico fa sì che la discussione pubblica passi dal nazionalismo al continentalismo senza soluzione di continuità. Il nazionalismo rimpiange quel confine, mentre il «continentalismo» - basti pensare all'Europa o anche agli Stati uniti - consente di cogliere una vera novità rispetto al passato, indica cioè il passaggio ad un'altra dimensione in cui politiche e economie nazionali diverse si mescolano tra loro. Globalizzazzione ha significato l'aumento delle diseguaglianze sociali. Tra chi la contesta c'è chi non chiede un ritorno al passato, ma una globalizzazione dei diritti. Come valuta il movimento antiglobalizzazione? Non sono d'accordo con tutte le sue posizioni, ma sono d'accordo con l'idea stessa della sua necessità dal momento che mi sembra indispensabile l'esistenza di un punto di vista altro sull'ordine economico mondiale. Spero che questo punto di vista contribuirà alla formazione di un senso etico più forte, di una responsabilità maggiore e spingerà verso una maggiore trasparenza all'interno delle grandi multinazionali. Oggi questo è quanto mai indispensabile. Del resto, il concetto stesso di sovranità nazionale non può più essere inteso nel senso tradizionale del termine, dal momento che ben 52 grandi imprese mondiali hanno un fatturato che è superiore al prodotto interno lordo di alcuni stati nazionali. Molti studiosi spiegano la globalizzazione come un salto di qualità nell'interconnessione tra paesi, culture e economie. Mi sembra che sia una concezione che ha molte affinità con ciò che lei definisce «intelligenza connettiva». Può spiegare cosa intende lei per intelligenza connettiva? L'intelligenza connettiva è un termine che uso per indicare l'impatto odierno di Internet sul pensiero umano. Allo stesso tempo, è un concetto che ha radici antiche, pre-verbali, addirittura applicabile al regno animale, solo che non era riconoscibile come tale. Questo per dire che le nuove tecnologie, tutte le nuove tecnologie ci danno semplicemente gli strumenti per analizzare questa condizione dell'essere umano. Siamo abituati a ritenere che il pensiero appartenga a una dimensione privata, e questo è il frutto di quel tipo di comunicazione specifico che è la lettura. Inoltre, il pensiero è considerato come il risultato di un qualcosa di «interiore», mentre il prendere la parola è immaginato come un atto individuale. Ma anche il dialogo fa parte del pensiero. Per questo ritengo che il pensiero sia un «linguaggio silenzioso», ma che la parola sia una forma di pensiero connettivo. L'intelligenza connettiva trova un suo naturale ambito nella connessione web, nella quale però il singolo ha la duplice possibilità di far parte di un gruppo senza perdere la sua identità e di avere un'identità senza perdere il senso del gruppo. Vorrei però precisare che l'intelligenza connettiva è differente dall'intelligenza collettiva di cui si scrive quando si affronta la comunicazione elettronica. In questo caso, l'intelligenza collettiva è legata a universi a senso unico in cui l'individuo si perde. L'individuo si perde, infatti, nel discorso televisivo, nel discorso radiofonico, esattamente come si perdeva nel discorso orale comunitario. L'intelligenza connettiva riguarda invece la possibilità di condividere il pensiero, l'intenzione e i progetti espressi da altri. Il caleidoscopio delle identità, dei modi di essere, degli stili di vita trova in Internet il suo luogo privilegiato. Senza il web sarebbe difficile parlare di globalizzazione, perché verrebbe meno una potente, cioè convincente esemplificazione. Ma proprio la rete sembra smentire gli studiosi che affermano che globalizzazione è sinonimo di omogeneità. Lei che ne pensa? Non sono d'accordo con questa interpretazione perché da Internet non emerge una identità collettiva. Ogni persona che naviga su Internet ha un indirizzo specifico e trova un suo modo di negoziare il senso di propri e altrui comportamenti con altre persone. E' vero invece che senza il web sarebbe difficile parlare di globalizzazione, perché la globalizzazione non dipende solo dal fatto che il discorso sia globale ma anche dalla possibilità di rispondere e di comunicare con il resto del mondo. Uno degli aspetti della globalizzazione è che non si fonda su un discorso a senso unico, ma sull'interattività. E' vero quindi che proprio la rete smentisce gli studiosi che sostengono che il world wide web è sinonimo di omogeneità. Un pericolo vero di globalizzazione omologatrice derivava dalla televisione o dai prodotti commerciali sostenuti dal mercato televisivo, come quelli prodotti da Ford, Ibm, McDonald's. Tutto il mondo del «logo» è infatti un mondo omologato. Non che questo sia un male in sé: è infatti una cosa importantissima avere dei riferimenti comuni, persino dei marchi che diano alla realtà mondiale gli stessi punti di riferimento al di là delle lingue, culture e condizioni geografiche diverse. Io penso che la grandezza della cultura americana, guardata con sospetto in Europa, sia stata l'aver dato la possibilità di creare un gruppo di riferimenti comuni. Però è anche vero che se fosse l'unico sistema esistente sarebbe un sistema molto negativo. Il medium è il messaggio, affermava McLuhan. E Internet che messaggio lancia? Internet è il medium di convergenza, vuol dire che è il medium per eccellenza fra tutti i media supportati dall'elettricità. Ho sempre sostenuto che la storia del linguaggio umano possa essere divisa in tre grandi epoche. L'epoca dell'oralità, che potremmo definire «primitiva». C'è stata poi la scrittura, che ha consentito un controllo individuale sul linguaggio. Ora siamo nell'epoca dell'elettricità, che permette un doppio controllo: individuale e, attraverso l'accesso al linguaggio di gruppo consentito dai media, anche collettivo. E' importantissimo capire che questi tre periodi hanno ciascuno un loro tipo di organizzazione mentale, di organizzazione sociale. Ciò vuol dire che oggi, grazie ad Internet, c'è una forma di libertà nuova. Il messaggio specifico di Internet è la connettività, come anche l'interattività, come anche l'ipertestualità, che dà la possibilità di andare da un punto ad un altro o di scegliere diverse cose. La caratteristica più rilevante dei nuovi media è però la priorità dell'immagine rispetto alla parola. Un elemento che lei ha messo spesso in rilievo nei suoi studi. Accanto a questo lei sostiene che la preminenza dell'immagine sulla parola ha un qualche cosa di religioso. Anche la tecnologia e la retorica dello sviluppo economico ad ogni costo ha un qualche cosa di religioso. Non è d'accordo? A proposito di questo io parlo di ritorno del logos in forma elettronica. Il logos è associato al concetto di creazione: tutti i miti cosmogonici si basano sul potere creatore della parola: la divinità crea attraverso il logos. Il dio africano Faro, per esempio, crea attraverso la sua bocca: la sua parola è una forma di tessitura della realtà. Molti studiosi, fra cui Jacques Derrida, hanno messo in rilievo come nella classicità greca il logos svolgesse un ruolo fondamentale nell'organizzazione della realtà: il logos era magico. Con l'avvento della scrittura alfabetica però - come ha spiegato molto bene Marshall McLuhan - si determina una frammentazione del linguaggio. Le nove muse ispiratrici delle diverse arti incarnano proprio questa frammentazione del logos. Infatti, c'è la danza, la poesia, la musica: tutte forme artistiche che, partendo da un processo di astrazione, cercano, ognuna a loro modo, di fare i conti con questa frammentazione del logos. Con l'interattività, la virtualità e la connettività della rete avviene una ricostruzione elettronica del logos, perché l'elettricità ha provocato una inversione di marcia rispetto agli effetti prodotti dall'invenzione dell'alfabeto. E' stato come riavvolgere un nastro. In questo senso io parlo di «ologeneità» e non omogeneità. Ologeneità nel senso dell'unità del tutto, dell'insieme, invece della frammentarietà del passato. Non ricordo di aver parlato di una connotazione religiosa a proposito della preminenza dell'immagine sulla parola. Certamente il logos classico era «religioso», ma nel senso di «creativo», «magico», «mistico», «gnostico». Non sono d'accordo sul dare una connotazione religiosa alla tecnologia e alla retorica dello sviluppo: la tecnologia non è più o meno religiosa di altre componenti, non è una qualifica che le si addice specificamente. Anzi, l'invenzione della stampa, per esempio, ha provocato la rovina dell'unità dei cristiani. Ha creato, con la lettura «individuale» della Bibbia, il protestantesimo e tutte le sue ulteriori derivazioni. Possiamo ipotizzare per il futuro che le nuove tecnologia elettroniche possano portare a una illusione di «de-secolarizzazione» e quindi a nuove forme di religiosità come ad esempio il fenomeno new-age. L'uomo possiede una dimensione spirituale che storicamente è stata più o meno offuscata dalla scrittura e ora che la scrittura non è più la forma di organizzazione primaria del nostro pensiero la spiritualità torna a galla. Che forma poi prenda questa spiritualità, dipende dal contesto sociale, storico, politico, e dalle caratteristiche individuali e collettive. Quando si parla dei kamikaze come forme di estremismo religioso, io penso che sia semplicistico. Non è detto che tutti i kamikaze siano necessariamente ispirati da un sentimento religioso: per esempio ho studiato due o tre casi di donne kamikaze che non erano affatto ispirate da alcun sentimento religioso, bensì da altre motivazioni molto più complesse. Internet come regno della libertà di espressione. Eé questa la retorica che ha accompagnato lo sviluppo del Web. Ciò è vero. Eppure sono anni che, periodicamente, questo o quel governo tenta di limitare quella libertà, in nome della lotta alla pedofilia, alla pornografia o per sconfiggere il terrorismo. Ma Internet è riottosamente resistente a qualsiasi restrizione. Lei che ne pensa? Ogni burocrazia è ossessionata dall'idea di controllo e utilizza argomenti quali la pedofilia e la pornografia per esercitare forme di censura sulla rete, come nel caso del governo cinese, del governo statunitense o del primo governo Berlusconi (1994). Si tratta di errori enormi e controproducenti. Per esempio, durante la repressione della rivolta di piazza Tien An Men è stato impossibile per il governo cinese bloccare la ricezione dell'incredibile numero di fax di protesta. Per farlo sarebbe stato necessario fermare l'intero sistema telefonico cinese il che sarebbe equivalso a un suicidio. Con Internet è lo stesso: censurare significherebbe instaurare un regime di controllo ossessivo e assoluto, ma questa sarebbe una degenerazione atroce. Che nemmeno il governo cinese desidera intraprendere, anzi in Cina il «desiderio di interconnessione» appare molto forte. Per quanto riguarda l'assurda scusa della pornografia, io dico che non c'è una percentuale maggiore di pornografia su internet che nella testa di una qualunque persona. Il copyright è l'altro fattore che in rete non gode di molti consensi. Open source, Linux o metodologia «peer to peer» sono comunque uniti da un rifiuto del copyright. Lei come giudica il diritto d'autore? L'invenzione del copyright è di Michelangelo, che dopo aver scolpito il suo Mosè, vi impresse hoc fecit Michelangelo. È stata la prima testimonianza di un artista che abbia firmato la propria opera per affermare il proprio «diritto» d'autore. Il copyright arriva quindi molto tardi nella storia occidentale: non era presente per esempio nella cultura latina (quando Virgilio diceva Exegi monumentum aere perennius non si trattava di una firma ma solo di una forma di orgoglio per aver creato con la parola una testimonianza più duratura del bronzo). Oggi le cose secondo me funzionano perché convivono entrambe le possibilità: il copyleft (lasciare il libero accesso a tutti) e il copyright (per difendere la proprietà intellettuale). Il problema nasce quando il copyright, così come tutte le forme di controllo statale e imprenditoriale, è troppo rigido. Io sono d'accordo con coloro che non condannano né il copyright, né il copyleft e lascia convivere entrambi. Ha collaborato Alberto Orsini
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