la catena fordista della comunicazione



     
     
il manifesto - 18 Luglio 2002  
 
DENTRO IL CALL CENTER 
La catena fordista della comunicazione 
Il controllo software del lavoro obbliga a procedure standard e sequenze
lineari, non modifcabili dal singolo operatore. Un modulo organizzativo
rigido quanto la catena «meccanica» 
La «qualità» del prodotto deriva dallo sfruttamento dell'inventiva
personale, oltre che della generica forza lavoro. Il ruolo inconsapevole
del «cliente» che telefona
«Attenzione uscita operai» è ciò che si legge ancora oggi su un cartello
lungo la Tiburtina, conosciuta fin dagli anni `60 per i suoi insediamenti
industriali. Questi, nei decenni a seguire, furono rimodellati dalla
ristrutturazione del ciclo produttivo, che puntava all'erosione delle
conquiste del soggetto collettivo protagonista del «biennio rosso» `68-'69
e al recupero di margini di profitto più consistenti. I mefitici anni `80
videro poi l'obsolescenza di vecchie fabbriche dismesse accanto al
proliferare dei palazzi tutto vetro dell'era informatica e, di tanto in
tanto, qualche roulotte imbandierata di rosso, con gruppi di operai che,
ignari di tutto, si ostinavano a testimoniare l'esistenza propria e della
condizione dei salariati. Cedevano il passo al «nuovo» che avanzava, tra
cui c'eravamo anche noi... Noi, operatori dei call center (operanti 24 ore
su 24 per tutto l'anno), che nel solo gruppo Telecom siamo 17.000.
Rispondiamo al 12, 181, 182, 183, 187, 191, 119 dalle sedi Telecom s.p.a.,
lungo la Tiburtina o da Napoli (isola direzionale 2), dalle cui svettanti
costruzioni si osserva l'ormai silenziosa piana di Bagnoli; o anche
dall'Atesia a Roma e a Caltanissetta, dalla Saritel a Pomezia, dalla
Telecontact a Napoli, dalla Datel di Crotone...

Oltre a noi - impegnati in «front-end» - ci sono quelli dei «back-office»,
che supportano l'intero corpo organizzativo dei sistemi informativi e di
rete (e quindi anche noi), la cui continua frammentazione farebbe
impallidire un caleidoscopio.

Siamo diversificati e divisi da vari canali d'ingresso delle chiamate,
confluenti in stabilimenti aziendali (fabbriche?!) che concentrano fino a
5.000 «risorse». Così come siamo frammentati dai diversi trattamenti
salariali. Siamo però sempre più omogenei - praticamente indistinguibili
l'uno dall'altro - per quanto riguarda la sostanza del nostro lavoro.

In realtà, al di là delle divagazioni di moda sulle fantomatiche
«autovalorizzazioni post-fordiste» (ben poco supportate da una qualsiasi
inchiesta sul campo, neppure troppo difficile da fare), ci sembra oggi
imprescindibile esprimerci in prima persona sulla nostra effettiva
«composizione tecnica»: di fronte della radicalizzazione del conflitto
sociale che, dopo le «giornate di Genova», ha fatto soffiare il vento di
Seattle anche in Italia, pensiamo sia essenziale che i lavoratori
riprendano la parola a partire dalla propria condizione materiale (in tal
senso riteniamo utile richiamare l'esperienza positiva della prima sfida
lanciata con la lista sindacale unitaria «Cambia con Cobas Tlc, FLMUniti,
Snater» che, alle ultime elezioni Rsu in Telecom e Tim, ha raggiunto
l'importante risultato del 14%).

Siamo operai con mani e teste vincolati a una catena «fordista», anche se
non immediatamente percepibile nella sua materialità: le nostre mansioni
sono estremamente parcellizzate, i ritmi intensificati e la giornata
lavorativa allungata. Il sistema informativo nei call center della Telecom
e della Tim - su cui lavoriamo tutti («garantiti» e non) - è costituito su
piattaforme software che preordinano e comandano ogni nostra operazione nei
minimi dettagli. Tutto viene minuziosamente tracciato, con buona pace di
quei sindacati che fingono di non vedere il capillare sistema di controllo
allestito tramite i nuovi sistemi informativi e avallano in varia misura le
bugie aziendali riguardo al solo obiettivo dichiarato, il cosiddetto
«miglioramento del servizio».

Quella su cui lavoriamo è una catena di sequenze lineari scandite da un
sistema i cui processi scorrono su binari paralleli, rigidamente
predeterminati e non modificabili dal singolo operatore.

Ma c'è un altro aspetto, altrettanto importante, che riguarda il lavoro in
tutti i call center: nel processo di produzione, l'astratta «merce
forza-lavoro» che abbiamo venduto, il nostro tempo di vita che l'azienda
mette a valore, torna a concretizzarsi nella nostra attività, nel nostro
dispendio di energie bio-psichiche. E in tale momento i sistemi high-tech
che ci usano manifestano la loro specifica capacità d'intensificare il
nostro sfruttamento, riuscendo a coinvolgere anche la nostra
intenzionalità: la macchina ci interfaccia con il cliente, un altro
individuo col quale siamo stimolati, quasi in modo «subliminale», a mettere
in gioco non solo l'inerzialità esecutiva degli script (casistiche standard
predisposte dall'azienda e perennemente aggiornate, tramite la solita
vampirizzazione del «sapere» del lavoro vivo), ma anche e soprattutto la
nostra duttilità, la nostra inventiva. E' quasi un riflesso automatico: in
qualche modo l'utente si sostituisce all'azienda (del cui ruolo oppressivo,
invece, non potremmo rimuovere la percezione) nel conferire «senso» al
nostro lavoro. Solo per questo «doniamo» all'azienda, volendolo o no, la
famosa «qualità». La «catena telematica» non sfugge a logiche
tayloristiche, anzi. Rispetto a quella «meccanica», ha il vantaggio per il
padronato di intensificare lo sfruttamento, saturando le porosità del tempo
di lavoro operaio, tramite la messa a valore di quella che taluni hanno
definito «forza-intenzione». Questo nuovo «valore aggiunto» che c viene
carpito si riverbera sull'intero processo di valorizzazione, risolvendo le
note aporie tra «quantità» e «qualità», e fa sì che le nostre funzioni
siano sempre più indirizzate anche alla vendita: il rapporto col mercato
viene a dipendere dalle qualità relazionali che sappiamo mettere in atto
con l'utenza.

Qui sta la pesantezza del nostro lavoro ma anche la vulnerabilità
dell'azienda rispetto a un'eventuale nostra ritrovata capacità di lotta
collettiva. E tale obiettivo impone di ripartire dalla nostra condizione
lavorativa materiale: l'applicazione del contratto collettivo di settore a
tutti, la diminuzione dei carichi di lavoro e la riduzione dell'orario sono
la piattaforma rivendicativa che può riunificare la frammentata galassia in
cui siamo attualmente scompaginati, superando quelle divisioni che non
possono che incrementare la già insopportabile precarizzazione di noi tutti.

Lavoratori e lavoratrici dei call center

aderenti al Cobas telecomunicazioni